Robbe-Grillet è completamente dalla parte del linguaggio «denotato» (come dice Barthes) e noi siamo completamente dalla parte del linguaggio che circonda le cose, di ciò che sta sotto, di tutto ciò che le nutre, di tutto ciò che instilliamo in loro… L’impressione che proviamo, scrivendo questa rubrica, è quella di trovarci in un terreno straordinariamente melmoso, una specie di pantano, dove sguazziamo.
Lo Scarabeo blu
Leonardo Mazzeo
La prima volta che ho preso il motorino mi hanno fermato i Carabinieri. Ero ancora incerto in sella allo Scarabeo ereditato da mia sorella, guidavo per le strade del paese alle tre del pomeriggio, era estate e in giro non c’era nessuno tranne me, o almeno così pensavo. Quando ho visto la paletta che si allargava e mi imponeva lo stop ho tremato, e con me ha tremato lo Scarabeo: eravamo un tutt’uno, in quel periodo. Alla fine sono riuscito a fermarmi in qualche modo, senza cadere e senza fare figure di merda. Lo svezzamento è stato traumatico ma allo stesso tempo indolore. Da lì a quattro anni non mi sarei più separato dal mio Scarabeo blu: ci andavo a scuola, al bar, a casa di amici, negli altri paesi, fughe sporadiche su due ruote, una caduta brutta prima di un concerto di Vasco, una scodella che ricordo con affetto, un odore pungente e un motore rumoroso come l’adolescenza. Poi sono diventato maggiorenne, ho scoperto le quattro ruote e ho messo in cantina lo Scarabeo: le distanze percorse si sono allungate, ma quella piccola parte di mondo che ho esplorato su due ruote è stata intima, speciale, indimenticabile per tanti motivi.
Qualche anno fa lo Scarabeo blu è passato nelle mani del mio vicino di casa, che lo ha rimesso a nuovo regalandogli un’altra vita ancora. Un po’ ho rosicato, lo ammetto: quello era il mio Scarabeo, solo io sapevo come farlo partire quando faceva i capricci, solo io potevo maledirlo, come ho fatto quella volta in cui mi ha lasciato a piedi senza preavviso. Devo anche ammettere, però, che le volte in cui ho visto il mio vicino correre sullo Scarabeo blu mi è sempre scappato un sorriso: quello che era stato il mio motorino stava assaggiando nuovamente l’asfalto, faceva rumore, viveva. Oggi anche il mio vicino è maggiorenne, e probabilmente avrà lasciato lo Scarabeo nella sua, di cantina, a prendere polvere. Il motorino ha ceduto di nuovo il passo all’automobile: un destino inesorabile, quello del mio Scarabeo blu, che dopo aver accumulato granelli di ricordi di tre persone diverse, adesso si gode il meritato riposo imposto dalle leggi. Le nuove regole non gli consentono più di circolare, per fortuna dell’ambiente ma purtroppo per me, che in questo momento della mia vita avrei proprio bisogno di sentire l’aria sulla faccia, di respirare quell’odore pungente, di ascoltare il rombo di quel motore rumoroso come l’adolescenza, perché questa cosa di crescere proprio non mi va giù.
Il peluche parlante di Calimero
Silvia Niro
Da piccola non sono mai stata una vera fan di Calimero, avendo visto al massimo un paio di puntate del cartone animato, senza troppo coinvolgimento. Lo trovavo carino ma palesemente “per bambini”, quindi poco appassionante; insomma, vivevo benissimo senza.
Per qualche motivo, però, tenevo particolarmente a un pupazzetto di Calimero, una di quelle sorprese degli ovetti Kinder per le quali andavamo tutti matti, quando l’obiettivo era davvero il giochino e non la cioccolata. Un giorno lo barattai controvoglia con un altro pupazzetto della stessa collezione, Valeriano: verdissimo, simpatico e oggettivamente più bello, che però non prese mai davvero il suo posto.
Per questo, quando qualcuno mi regalò il peluche parlante di Calimero, pensai che l’equilibrio cosmico in qualche modo fosse stato ristabilito. Il pulcino nero con gli occhioni chiari, il guscio d’uovo in testa e il bastone col fagotto era di nuovo nella mia cameretta, e parlava pure.
Gli volevo bene, quindi non mancavo di difenderlo da chi lo sminuiva per il suo saper ripetere con quel tono lagnoso «soltanto tre frasi». Per quanto mi riguardava, un pupazzo era accettabile anche senza chissà quali abilità: era pur sempre un pupazzo! Quando si gioca, le frasi bisogna inventarsele, oppure bisogna inventarsi storie in cui quelle frasi possono significare cose diverse, altrimenti che gioco è?
Nella sua mediocre avanguardia, quindi, il peluche parlante di Calimero mi era sempre andato benissimo così, contribuendo a movimentare pomeriggi di noia e facendomi compagnia a modo suo. Ancora oggi se qualcuno dice sconsolato «Lo sapevo!» (la prima delle sue uniche tre misere frasi registrate), mia sorella e io ci guardiamo sforzandoci di non ridere, con la certezza che l’altra stia pensando «Eh, che maniere!» (la seconda delle tre frasi registrate).
Poi, la catastrofe.
Calimero e il suo fagotto vengono messi in una busta insieme ad altre cianfrusaglie perché «i giocattoli sono troppi e voi siete grandi». Caricato in macchina e scarrozzato per un chilometro di strada, Calimero passa dalle mani di mia madre a quelle di mia zia e non rivede mai più la terra natìa. Un giorno, durante il compleanno di una delle mie cugine, scorgo la sagoma di qualcosa di familiare all’interno di una bustona semitrasparente messa in bilico tra le scale del pianerottolo. Chiedo quindi se è quello che penso, se è lui, se è proprio Calimero, quello che parla!
— «Sì, mamma ha detto che deve portare quelle cose vecchie in soffitta perché tanto non ci giochiamo mai».
Annuisco, non so bene cosa rispondere mentre non posso fare a meno di pensare «È un’ingiustizia!», che è poi anche la terza e ultima frase che sapeva dire il povero peluche parlante di Calimero.
Il bonsai
Valeria Marzano
(Disclaimer: il protagonista di questa storia non è propriamente un oggetto e sono sicura che il direttore responsabile mi butterà fuori a calci dalla redazione per aver anche solo pensato di “incastrarlo” in questa puntata della rubrica).
Nelly è il bonsai ginseng che il mio amico Fausto* (nome di fantasia) e il suo compagno mi hanno regalato per il mio compleanno mesi fa. È stato uno dei pochi regali ricevuti in un giorno abbastanza infelice, durante il quale non ho potuto circondarmi di tutte le persone a cui voglio bene: pioveva molto e il primo settembre sono tutti sempre molto tristi per la fine dell’estate, poco reperibili o ancora in vacanza illusi.
Si chiama Nelly come Nelly Furtado perché è gender fluid e – anche se il genere del bonsai potrebbe apparentemente sembrare il maschile – a lui piace chiamarsi come la cantante più ascoltata negli anni Duemila. Avendo vissuto con due genitori botanici premurosissimi ho sempre sofferto molto il non saper prendermi cura adeguatamente delle mie piantine e, appena mi è stato donato, il dovere di preservarne la bellezza e la maestosità mi ha pesato tantissimo, travolta angosciosamente da quel carico immane di responsabilità che porta con sé doversi occupare di una creatura così delicata e bisognosa di attenzioni. Nelly ha prevedibilmente boccheggiato per mesi, tra la scarsa luce che penetra nel mio appartamento e i tentativi delle mie coinquiline di dargli più acqua di quanta ne richiedesse (non so se lo sapete, ma troppa acqua fa perdere un sacco di foglie a queste piantine così fragili e pronte a insegnarci quanto siano importanti le giuste misure).
Poi Nelly, per circostanze varie, ha trovato una nuova casa molto più luminosa, e una persona in grado di prendersene cura ossessivamente. È rinato: ha delle foglie enormi e verdi, è tornato in ottima forma. Gli sono bastati due mesi lontano da me. Ripensandoci, l’ho affidato a Gino* (altro nome di fantasia) con una leggerezza imbarazzante: ero semplicemente stanca e ho detto pensaci tu. Se Gino mi stesse leggendo ora, gli direi prima una bella frase di circostanza come scusa per questa fastidiosa incombenza, e poi che la luce di casa sua è stata preziosa, che è bello che ci sia stata tutta quella luce. Che l’aver accettato di prendersi cura di Nelly al posto mio è stato nient’altro che un atto d’amore, di quelli che illuminano tutto.
L’attrezzatura scout
Gaetano Giudice
Dai 9 ai 13 anni fui uno scout. Di quel mondo non mi piaceva la sua struttura altamente gerarchica e le funzioni religiose interminabili, nondimeno amavo le uscite di squadriglia, i giochi in aperta campagna e soprattutto i campeggi estivi: momenti straripanti di libertà, (dis)avventure e nuove scoperte (ho molte storie divertenti e surreali da poterci scrivere un libro, magari un giorno lo farò).
Finite le scuole medie, lasciai gli scout. Terminata quell’esperienza, riposi nello sgabuzzino la divisa, lo zaino, il sacco a pelo, i coltellini e tutto il resto dell’attrezzatura.
A 15 anni dovetti trasferirmi con la mia famiglia in una nuova casa, ma prima del trasloco i miei genitori mi esortarono a regalare l’equipaggiamento a qualcuno, visto che io non lo usavo più ed era assai d’ingombro in casa. Pensai quindi di regalarlo a mia cugina, anche se non aveva ancora l’età per iscriversi agli scout.
Anni dopo anche lei divenne una scout e ancora oggi continua ad esserlo. Io sogno sempre quei campeggi e cerco qualcuno per farne di nuovi.
Grim Fandango
Dario Saltari
Qualche giorno fa ho scoperto che sullo store della Play Station era presente Grim Fandango e l’ho immediatamente acquistato. Grim Fandango è un vecchio videogioco “punta e clicca” che mischia l’immaginario del culto messicano della Santa Muerte con un’avventura tra il giallo e il noir. È stato una delle occupazioni che più ha contraddistinto la mia infanzia. Ci giocavo sul mio vecchio Pentium III, o forse era IV, con uno di quei giganteschi monitor dalla carcassa grigio chiara che ogni tanto riappaiono su internet come incubi – vecchie immagini dalla patina di plastica scattate da macchinette fotografiche digitali che hanno segnato per sempre i nostri ricordi dei primi anni 2000. Oggi Grim Fandango è solo un’icona di un teschio nella schermata iniziale della mia Play Station, ma allora, quando ci giocavo per la prima volta senza sapere che vent’anni dopo sarebbe diventato un videogioco di culto, era una scatola. Marroncina, mi pare, con alcuni dei personaggi sulla copertina ammantati da un filtro seppia che forse avrebbe dovuto richiamare le atmosfere di film come Casablanca, vai a sapere. Il personaggio principale, Manuel Calavera, indossava uno smoking bianco con il papillon nero identico a quello di Humphrey Bogart. Era una scatola come quella dei giochi da tavola, di quelle che per aprirle devi tenere i due lati del coperchio con le dita, alzarle, e aspettare che la forza di gravità porti in basso il resto. Non era facile perché dentro non c’era quasi niente: il CD del videogioco, le istruzioni per l’installazione e mi pare nient’altro. Ma era bello possederla: dava una consistenza materica che i videogiochi avrebbero perso presto, con quel cartoncino plastificato all’estremo che non ti permetteva nemmeno di passarci un dito sopra senza che l’attrito ti bruciasse il polpastrello.
È da qualche mese che la cerco nella vecchia casa dei miei, che poi altro non è che il piano terra dell’attuale casa dei miei, resa un enorme ripostiglio di vecchi ricordi dal mercato immobiliare, che ha trasformato le grandi ville bifamiliari di provincia in antiquariato di lusso che nessuno può più permettersi. Ho chiesto a mia madre ma non se la ricorda, ho chiesto a mio padre e non si ricordava nemmeno di avermelo comprato, eppure era lui che per primo aveva portato il computer a casa. È una scatola che sopravvive solo nella mia memoria, ora che nella mia memoria arde la nostalgia per i vecchi videogiochi – come i Tex Willer in formato orizzontale ardono la parte nostalgica della memoria di mio padre, che li leggeva accovacciato dentro un’edicola compiacente quando faceva sega a scuola. Forse è stata buttata via insieme alle scatole degli altri giochi da tavola quando c’era da fare pulizia in una casa che si sperava sarebbe stata venduta presto. Forse non è mai esistita e il ricordo di questa scatola è stato inventato dalla mia mente per appagare il senso di colpa per non aver fatto attenzione a questo oggetto che dopo vent’anni, per qualche ragione, sarebbe diventato importante. A Grim Fandango, però, ancora non ci ho giocato. Forse l’ho scaricato solo per avere quell’icona davanti agli occhi ogni volta che accendo la Play Station. È solo una manciata di pixel bianchi e neri, ma è sempre meglio che cercare “Grim Fandango box” su Google Immagini e farsela prendere a male.
La valigia di legno mio nonno
Priscilla De Pace
Dicono che la disposofobia abbia origine da traumi di tipo affettivo, quindi faccio poca fatica a immaginare che la mia sia iniziata a germogliare il giorno in cui i miei genitori hanno deciso di divorziare, rafforzandosi ogni volta che l’ennesimo cambio di abitazione mi imponeva di rinunciare a una fetta sempre più importante del mio equipaggiamento infantile: i primi ad andarsene sono stati i giocattoli dell’infanzia, poi le sorpresine kinder, le barbie, i peluche, i quaderni di scuola, la collezione di Topolino e di Cioè, finché un giorno non è toccato anche alla mia amata mountain bike.
Questo per dire che, crescendo, non ho sviluppato un buon rapporto con le separazioni di tipo materiale, manifestando serie difficoltà ogni volta che la situazione richiedesse una sana e razionale riorganizzazione dei miei beni. Quando nel 2016, il terremoto di Amatrice ha distrutto la casa dove i miei nonni avevano vissuto per decenni, la mia disposofobia aveva raggiunto livelli talmente raffinati che mi sorprende di non esser riuscita a elaborare un industrioso piano per trasferirmi tra quelle rovine pur di preservarne fino all’ultimo le memorie materiali. Sta di fatto che, nelle settimane successive alla catastrofe, la casa era ancora parzialmente agibile e ci è stata presentata la possibilità di entrare per l’ultima volta e «salvare il salvabile».
Se all’inizio il salvabile doveva consistere in una breve lista di pochi oggetti di valore, concordati nella reciproca e silenziosa intesa di voler trascorrere il minor tempo possibile tra le macerie, una volta entrati in casa l’operazione si è presto trasformata in una complessa coreografia circense con protagoniste assolute la sottoscritta e mia madre, prima intente a lanciare piatti e insalatiere, poi ad arrampicarci in punti impossibili per recuperare quadri e coperte e infine a creare rudimentali sistemi di trasporto per assicurarci mobili, comodini, testate del letto e lampadari. Nel giro di pochi giorni, la mia casa al Pigneto si è trasformata nel museo della vita dei miei nonni, causando la fuga di una delle mie coinquiline e la rassegnata perplessità delle altre.
La vita è continuata serena per poco più di anno, finché un nuovo trasloco non ha iniziato a gettare ombre sulla mia ritrovata stabilità materiale. Ovviamente non avevo intenzione di rinunciare a nulla, ma dopo il sesto viaggio tra il quadrante Est a quello Sud della città, ho capito che un sacrificio propiziatorio sarebbe stato necessario per porre fine a quello che stava diventando un esodo impossibile. Non ricordo bene tutti gli oggetti che sono riuscita a dare via, ma ricordo perfettamente il momento in cui ho capito che uno di questi sarebbe stato la valigia di legno di mio nonno, un oggetto bellissimo ma profondamente segnato dal tempo. Era la mattina dell’ultimo viaggio, faceva molto caldo e sono uscita con riluttanza per appoggiare il bagaglio scheggiato alla base di un cassonetto dei rifiuti sotto casa. Nel giro del breve lasso di tempo che ho impiegato a fare le scale e ad affacciarmi alla finestra, ho visto che un ragazzo si era già avvicinato all’oggetto e, dopo averlo osservato velocemente, ha deciso di portarlo via con sé soddisfatto. Non so chi fosse né perché fosse interessato a una valigia di legno rovinata, ma ancora oggi gli sono molto grata e mi piace immaginarlo da qualche parte in giro per il Pigneto, oppure fuori dalla città, felice insieme alla valigia di legno di mio nonno.
Foto, in ordine di apparizione:
1. Gerard Reve holding toy animals, Anefo, 1969 — Fonte
2. Scarabeo blu, Jan Augustin van der Goes, 1690 – 1700 — Fonte
3. Sette pulcini, Melchior d’Hondecoeter, c. 1665 – c. 1668 — Fonte
4. Koto con fiori di susino in vaso, Keisai Eisen, 1830 — Fonte
5. Soldati al posto di osservazione su un albero vicino a Roempit, A. Kaulfuss, 1891 – 1894 — Fonte
6. Foto archivio Dude
7. Cotonificio crollato a Nagoya, anonimo, dopo il 1891 – nel 1892 o prima — Fonte