I ventenni e la riforma costituzionale | Intervista a Valentina Muglia
Sul finire dei suoi primi dieci anni, qui compiamo una piccola rivoluzione, abbandonando il nostro formato classico – quello del magazine culturale a cadenza vagamente quotidiana – per presentare ogni mese un solo saggio e un solo racconto. Da queste pagine 24 autori ogni anno proporranno il loro filtro sul reale, manipolando inevitabilmente la personalità di Dude mag: ed è una cosa che ci rende enormemente curiosi.
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I ventenni e la riforma costituzionale | Intervista a Valentina Muglia

Valentina Muglia, 23 anni, laureanda in giurisprudenza all’università di Roma Tre, un passato da rappresentante d’istituto nel suo liceo e un presente da coordinatrice di ateneo per “Link”.

Com’è noto, il 4 dicembre gli italiani saranno chiamati alle urne per esprimersi in merito alla riforma della Costituzione proposta dall’attuale Presidente del Consiglio Matteo Renzi e da Maria Elena Boschi, ministro ad hoc per le riforme costituzionali e per i rapporti con il parlamento.

Sarà il terzo referendum costituzionale nella storia della nostra Repubblica, volto ad approvare o a respingere il complesso e variegato progetto di riforma al termine di un iter parlamentare travagliato e ricco di polemiche.

Le modifiche che la riforma andrà eventualmente ad apportare sono numerose e per completezza è bene rinviare alla sinossi tra la costituzione ad oggi vigente e quella che ne uscirà fuori secondo il testo modificato.

Per tracciare un elenco essenziale, ma non esaustivo, i punti chiave della legge costituzionale sono:

  1. Il superamento del bicameralismo paritario (in virtù del quale la Camera dei Deputati e il Senato della Repubblica hanno sostanzialmente gli stessi poteri e le stesse prerogative) con la conseguente preminenza politica della Camera dei Deputati, che diverrà l’unico organo capace di porre la fiducia e sfiduciare il Presidente del Consiglio.
  2. La previsione di limiti all’utilizzo del decreto legge da parte del governo (già esistenti in giurisprudenza) e l’introduzione dell’approvazione di legge “a data certa”, volta a ridimensionarne i tempi procedimentali.
  3. La riduzione dei membri del Senato della Repubblica a 95 tra consiglieri regionali e sindaci e 5 senatori di nomina presidenziale, oltre agli ex presidenti della Repubblica in vita (questi ultimi dal mandato settennale).
  4. La previsione di un’elezione di secondo livello per i membri del Senato della Repubblica, che quindi non potrà essere eletto direttamente dai cittadini; i membri del Senato della Repubblica non percepiranno alcuna indennità per l’esercizio del proprio incarico e saranno garantiti dalla cosiddetta “immunità parlamentare” prevista dall’art. 68 della Costituzione (il quale, comunque vada, rimarrà invariato).
  5. La revisione del rapporto tra Stato centrale e Regioni, con il ritorno in capo al potere centrale di materie di rilevante importanza, su tutte il turismo e la sanità.
  6. L’abolizione del CNEL, organo di consulenza del governo e del parlamento nelle materie dell’economia e del lavoro.
  7. La modifica dei quorum necessari all’elezione del Presidente della Repubblica (3/5 degli elettori dal quarto scrutinio e 3/5 dei votanti dal settimo scrutinio) e alla convalida dei referendum abrogativi (maggioranza assoluta degli elettori per i referendum proposti con 500.000 firme, un quorum variabile legato alle precedenti elezioni politiche per quelli proposti con 800.000 firme).
  8. La previsione di referendum popolari propositivi, d’indirizzo e di altre forme di consultazione dell’elettorato, anche delle formazioni sociali.
  9. L’innalzamento delle firme necessarie per proporre le leggi di iniziativa popolare da 50.000 a 150.000, con il contestuale obbligo per il parlamento, nelle forme e nei limiti stabiliti dai propri regolamenti, di pronunciarsi e votarle.

Il fronte per il SÌ alla riforma vede schierate in primo luogo le forze di governo, che l’hanno promossa e sostenuta tenacemente anche nel complesso iter parlamentare: basti pensare che alla fine essa è stata approvata con i soli voti della maggioranza governativa, con le opposizioni fuori dall’aula per protesta.

Sono quindi favorevolmente schierati: il Partito Democratico (con le perplessità di una minoranza interna dissidente), il Nuovo Centrodestra di Alfano, Scelta Civica (sebbene Mario Monti si sia espresso in senso contrario), i parlamentari del gruppo “Alleanza Liberalpopolare-Autonomie” fuoriusciti da Forza Italia nell’estate del 2015 e guidati da Denis Verdini.

Inoltre lo schieramento del SÌ conta anche sul sostegno di Confindustria e della CISL.

Il variegato fronte per il NO vede schierate d’altra parte tutte le forze d’opposizione: dal Movimento 5 Stelle alla Lega Nord, dalla destra di Fratelli d’Italia e quella di Forza Italia (sebbene Berlusconi e i suoi abbiano in un primo momento appoggiato concretamente il progetto di riforma) sino a Sinistra Italiana e all’UDC (nonostante Casini).

 

Un lungo e non proprio entusiasmante confronto tra il Presidente del Consiglio e l’ex Presidente della Corte Costituzionale

 

Inoltre lo schieramento del NO vede anche il sostegno, tra gli altri, dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia, della CGIL, di Magistratura Democratica, dell’ARCI, ma anche di realtà come Casapound e Forza Nuova.

Nonostante gli schieramenti, però, sono moltissimi gli italiani che si professano indecisi, non solo per il solito diffuso e comprensibile disamore nei confronti della politica ma anche per la complessità tecnica degli argomenti alla base della riforma e per la sua portata notevolmente ampia: basti pensare che se verrà approvata, saranno modificati ben 47 articoli su 139.

Una scarsa affluenza però non potrà pregiudicare la validità della consultazione: a differenza di quello abrogativo, per la validità di un referendum costituzionale non è richiesto il raggiungimento di alcun quorum.

In tutta questa gazzarra, tra un Salvini che interroga il ministro dell’economia su quanto costi un litro di latte e un Renzi che va a raccattare il sostegno di Obama alla vigilia del successo elettorale di Donald Trump, provo a farmi un po’ d’ordine cercando di confrontarmi personalmente sia con chi questa riforma la sostiene, sia con chi la detesta.

 

 

***

 

Stavolta tocca a Valentina Muglia, 23 anni, laureanda in giurisprudenza all’università di Roma Tre, un passato da rappresentante d’istituto nel suo liceo e un presente da coordinatrice di ateneo per “Link”, sindacato studentesco indipendente di sinistra che partecipa al Comitato per il NO e alla piattaforma “Studenti per il NO”.

Simpatica ma determinata, mi spiega la sua passione politica davanti a un bicchiere di chinotto, nel popolare quartiere di Cinecittà: «Ho sentito questa necessità da sempre. Per me la politica non è un mestiere per pochi né qualcosa di necessariamente sporco e corrotto, ma è un diverso modo di analizzare ciò che mi sta attorno, un affare di tutti e per tutti. Non è vera politica se non parte dal basso, se non è popolare e diffusa».

Continua a raccontarmi della sua visione della politica, dicendomi che in realtà non è affatto questa l’ambizione della sua vita: «Per me la politica non è affatto un mestiere, è proprio inconcepibile che si possa fare del bene comune una professione. Ho volutamente scelto di impegnarmi in un sindacato studentesco totalmente indipendente e autogestito, perché la politica giovanile per me non è il primo passo per avviare una vertiginosa scalata in un partito. La mia sarà pure una visione disincantata della politica, ma penso che l’unico motore debba essere la passione e la volontà di collaborare al bene e al miglioramento della società e alla difesa delle libertà democratiche.»

Naturalmente, voterà «senza dubbio NO».

 

Perché voterai senza dubbio NO?

Perché credo che questa riforma rappresenti un’involuzione autoritaria e che sia un ennesimo attacco alla nostra carta costituzionale, mascherato dalla falsa retorica di una campagna che da un lato promette semplificazione amministrativa e maggiore velocità nell’iter legislativo, ma dall’altro va invece a ridurre quelli che sono gli spazi di democrazia del paese, non aumenta la partecipazione popolare alla vita politica del paese. Difatti è l’ennesimo tassello di un disegno ben preciso che il governo Renzi, ma anche i governi precedenti, stanno attuando, basti pensare al modo in cui è stato riformato il mondo del lavoro con il “Jobs Act” o a provvedimenti come “La buona scuola”.

Questa riforma è semplicemente il suggello di un progetto volto a modificare in peggio la vita politica di questo Paese e il suo impianto democratico.

 

Ma come può mettere a repentaglio la nostra democrazia una riforma che è stata votata proprio secondo il procedimento previsto dalla Costituzione e che inoltre non va ad intaccare i limiti, espliciti ed impliciti, in merito alla sua modifica?

Sull’art. 138 della Costituzione, vorrei subito chiarificare che regola il procedimento di revisione costituzionale, che è cosa ben diversa dalla “riforma” costituzionale.

Il procedimento di revisione, come sostenuto da numerosi costituzionalisti, si esplica con modifiche puntuali che hanno ad oggetto singoli articoli della nostra carta. Questo, tra l’altro, porta all’approvazione in sede referendaria di un quesito improntato alla massima chiarezza.

La riforma della Costituzione invece è un’operazione di più ampio respiro, e lo conferma il fatto che questo progetto andrà a modificare quasi un terzo dei suoi articoli: una vera e propria operazione di riscrittura e di stravolgimento.

Purtroppo il governo Renzi non è il primo ad aver presentato una riforma nata dall’uso distorsivo di questo procedimento, andando quindi a configurare un vero e proprio abuso di potere. Per parafrasare le parole di Luigi Ferrajoli, grande filosofo del diritto nonché esponente del NO a questa riforma costituzionale, un potere costituito come quello conferito dal procedimento di revisione all’art. 138, non può conferire un potere costituente, l’opposto ne risulterebbe una contraddizione.

Tra l’altro il fatto di aver presentato una riforma così complessa con un unico disegno di legge va a vincolare la volontà dell’elettore, che magari si può trovare fortemente d’accordo su alcuni aspetti del “pacchetto” che gli viene presentato ma è al tempo stesso costretto a subire altre modifiche su cui nutre delle perplessità.

Senza contare il fatto che il quesito presente sulla scheda elettorale (su cui il TAR non si è espresso nel merito, limitandosi a dichiararsi incompetente) è a mio avviso chiaramente manipolativo, banalizzando e distorcendo il contenuto di una riforma invece estremamente complessa e di non facile comprensione. Sarebbe compito della politica creare reali strumenti di semplificazione per l’elettorato, ma la questione è puntualmente disattesa con una campagna elettorale condotta a suon di slogan pubblicitari e promesse elettorali.

Inoltre è pur vero che questa riforma non modifica espressamente i principi fondamentali della Costituzione, ma non dobbiamo dimenticare che il contenuto della seconda parte è necessariamente funzionale all’attuazione della prima parte, che rischia di essere solo una nobile enunciazione di principi destinata a rimanere lettera morta.

 

E quali sarebbero secondo te le principali distorsioni operate dai sostenitori del SÌ nel presentare la riforma?

Beh, innanzitutto spesso si parla in maniera semplicistica di abolizione del Senato.

Il Senato non verrà affatto abolito e la riforma non comporterà il passaggio da un sistema bicamerale a un sistema monocamerale, si passerà semplicemente dall’attuale bicameralismo perfetto a un bicameralismo “imperfetto”. Tra l’altro la natura del futuro Senato risulta veramente poco chiara perché risulterà una camera di raccordo tra enti locali e potere statale ma al contempo avrà una notevole funzione politica, continuando ad agire “alla pari” per diversi tipi di leggi, in un sistema che prevede un forte ritorno alla cosiddetta centralizzazione, con il ritorno in capo allo Stato della competenza su diverse materie importanti.

Inoltre è preoccupante constatare che i futuri senatori non solo non saranno eletti direttamente dal popolo, ma non abbiamo neanche chiara la modalità con cui verranno scelti: il futuro articolo 57 si limita a dire che saranno i Consigli regionali ad eleggerli “con metodo proporzionale”, senza aggiungere null’altro. Una formulazione eccessivamente ambigua e laconica per un testo costituzionale, che nella sostanza rimanda a un regolamento ancora tutto da definire la piena regolamentazione di un aspetto essenziale e delicato della nostra vita democratica.

Inoltre, a voler fare uno sforzo, se l’applicazione del metodo proporzionale può astrattamente essere intuibile per la scelta dei consiglieri regionali che siederanno a palazzo Madama, d’altra parte risulta totalmente astrusa per la scelta dei ventuno sindaci che faranno loro compagnia.

Ad esempio, nel Lazio, verrà scelto il sindaco di Roma oppure quello di un piccolissimo comune della provincia? Il quattro dicembre saremo chiamati a votare, tra le tante cose, per un Senato del quale non possiamo neanche immaginare la reale composizione!

 

E questa è l’unica distorsione?

Nient’affatto, pensiamo alle promesse sulla semplificazione del procedimento legislativo. Il futuro articolo 70 della Costituzione, nella sua preoccupante complessità, andrà a prevedere ben nove procedimenti differenti che andranno inevitabilmente a complicare il quadro attuale. La cosa che più lascia sconcertati è che non si è d’accordo neanche sul numero di procedimenti che effettivamente si andranno a formare: ci sono costituzionalisti che sono riusciti a rintracciare un numero leggermente inferiore di procedimenti, altri che ne contano dieci, se non undici! Tutto questo ad ulteriore conferma della scarsa chiarezza di quello che potrà essere il testo dell’articolo 70. Non dobbiamo comunque dimenticarci che le leggi poi vengono approvate per volontà politica. Se la volontà politica viene meno, non c’è sistema che tenga, ma se è salda e forte fa approvare una legge in pochissimi giorni, anche in un sistema così vituperato come il nostro. Posso farti davvero diversi esempi in merito: il Decreto “Salva-liste” (tra l’altro bocciato poi dal TAR) con cui far riammettere il PdL alle elezioni regionali del Lazio nel 2010 è stato approvato in soli 7 giorni; la famigerata “Legge Fornero” in 16 giorni; il “Lodo Alfano” in 20 giorni; il decreto “Svuota-carceri” del 2013 è stato approvato in 38 giorni; per mettere in busta paga i famosi 80 euro del governo Renzi son serviti solo 55 giorni; per lo scempio de “La buona scuola” poco più di 100 giorni.

Come si nota non è un problema tecnico, ma un problema politico.

 

Quindi non ritieni questa riforma un segnale importante di una politica che finalmente ha deciso di cambiare? Non è cosa da tutti i giorni diminuire il numero dei parlamentari, ad esempio.

Dal mio punto di vista eliminare duecento senatori non è poi questo grosso cambiamento. Il cambiamento non lo riesco neanche a vedere sotto la luce della tanto sbandierata riduzione dei costi della politica, dato che secondo molte analisi risulterà risibile. Innanzitutto i costi del Senato della Repubblica inteso come istituzione non verranno toccati, dato che non verrà abolito; in secondo luogo è pur vero che i futuri senatori non percepiranno alcuna indennità aggiuntiva per le loro mansioni, ma la riforma tace sull’eventualità di rimborsare quanto spenderanno per gli spostamenti e i soggiorni a Roma. Tra l’altro, se proprio vogliamo buttarla sul piano dei costi, si possono ottenere forti risparmi senza dover necessariamente modificare la Costituzione ed incidere sull’essenza democratica del Paese: a mio avviso, il bisogno di attuare realmente la legge anticorruzione, dato che va a incidere su una piaga quasi fisiologica dal risvolto economico innegabile, è sempre attuale. Lo stesso vale per la necessità di tagliare le spese militari. Tra l’altro se passera il SÌ diverrà più facile anche deliberare lo stato di guerra.

 

Cioè? Dal testo della riforma risulta che sarà una decisione presa solo dalla Camera dei Deputati, ma a maggioranza assoluta. Attualmente in Parlamento basta la maggioranza semplice.

È uno dei casi dove è importante leggere la riforma in combinato disposto con quella che è l’attuale legge elettorale, l’Italicum. Secondo questa legge è possibile che il partito che al ballottaggio va a prendere anche un solo voto in più rispetto alla lista sfidante, ottenga proprio la maggioranza assoluta dei seggi alla Camera dei Deputati. Non si parla neanche di coalizioni, ma solo di partiti.

Con i venti che stanno spirando, basta veder vincere le elezioni una lista xenofoba e guerrafondaia che il rischio di vedere sospesi gli equilibri e le libertà democratiche diventa più che tangibile.

Posso anche essere d’accordo, ma il 4 dicembre ovviamente gli elettori non si esprimeranno sull’Italicum. Inoltre questa riforma è compatibile con qualsiasi legge elettorale, che è modificabile in ogni tempo e con procedimento ordinario.

Ma è anche vero che la possibilità di godere di forti premi di maggioranza è una prospettiva allettante per quasi tutte le forze politiche esistenti. Ad oggi non vedo la reale volontà politica di tendere verso una legge che garantisca l’effettiva rappresentanza dell’elettorato, che per me è un principio che non può essere disatteso. Vorrei sempre ricordare che questo parlamento è stato eletto da una legge elettorale dichiarata incostituzionale, in grado di alterare in maniera preoccupante il risultato elettorale.

 

Infatti, è anche vero che qualsiasi legge elettorale verrà adottata in futuro, sarà sottoposta al sindacato di legittimità della Corte Costituzionale, che per la prima volta andrà a operare in via preventiva, senza aspettare che una legge così delicata possa entrare in vigore ed essere dichiarata incostituzionale solo successivamente.

Su questa prospettiva interessante nutro però delle perplessità a livello tecnico.

In primo luogo far sì che per la prima volta la Corte Costituzionale si pronunci prima che una legge entri in vigore, può dar luogo a delle serie interferenze del potere giudiziario con il potere legislativo. Siamo d’accordo che la Corte è un organo giudiziario sui generis, ma agendo in via preventiva potrà configurarsi nei fatti come una sorta di “terza camera” e assumere quindi una connotazione politica che non le è congeniale.

Dato che la riforma non va a intaccare le altre prerogative della Corte Costituzionale, risulta poco chiaro se, una volta che una legge elettorale sia stata dichiarata conforme alla futura Costituzione, sarà possibile comunque adire la Corte e se possa esprimersi di nuovo, magari rinnegando la sua precedente decisione.

Lasciami aggiungere un’altra cosa. Il futuro articolo 70 nella sua complessità sancisce che eventuali conflitti tra Camera e Senato su eventuali questioni di competenza dovranno essere risolti tra i Presidenti delle due Camere. Ma cosa accadrà se il dissidio risulterà insanabile? L’intervento della Corte Costituzionale sarà ammissibile? Dato che la riforma ad oggi tace su quest’argomento, possiamo individuare un altro atto di fede che è richiesto all’elettore al momento del voto.

 

Bisogna constatare che, a differenza di tanti altri progetti ideati e proposti, questa riforma non aumenta nella sostanza i poteri del Presidente del Consiglio.

In realtà la riforma ratifica ciò che già esiste in via di fatto, ossia la sostanziale preminenza del ruolo dell’esecutivo su quello del Parlamento. Questo aspetto si può notare in maniera più evidente leggendo quello che sarà l’articolo 72, dove è contemplato l’istituto del “voto a data certa”, una vera e propria corsia preferenziale che è data al governo per poter far votare i propri provvedimenti in tempi stretti. Difatti la valutazione del governo sul carattere “essenziale” della proposta di legge appare pienamente discrezionale e la Camera dei Deputati avrà solo 70 giorni di tempo per esprimersi in via definitiva. Un lasso di tempo davvero breve che rischia di troncare di netto la voce delle opposizioni e di degradare la qualità del dibattito parlamentare, con l’impossibilità di poter procedere ad un esame accurato del testo da approvare.

Uno strumento così forte vanifica nella sostanza l’inserimento di ulteriori limiti nel ricorso al decreto legge, limiti comunque già consolidati a livello giurisprudenziale. È curioso notare anche come, secondo il futuro articolo 77, i decreti legge saranno convertiti solo alla Camera dei Deputati anche quando la funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due camere.

 

E per quanto riguarda il riordino delle competenze tra Stato e Regioni? È davvero così sbagliato che, per esempio, il diritto alla salute sia tutelato allo stesso modo in tutti i comuni d’Italia?

In merito vorrei subito porre l’attenzione sull’inserimento della cosiddetta “clausola di supremazia”, con cui le autonomie locali sono costrette a soccombere di fronte all’intervento statale che in questo caso risulta sì limitato, ma solo da un punto di vista formale. L’uso di espressioni vaghe e generiche come «la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica» o «la tutela dell’interesse nazionale» rischiano di costituire quasi delle “norme in bianco”, connotate concretamente di volta in volta secondo la discrezionalità di chi le applica. Questa è un’ulteriore perplessità tecnica di una riforma molto discutibile.

Sul fatto che determinate materie di grandissima importanza debbano essere applicate in maniera omogenea su tutto il territorio nazionale sono anche d’accordo: per farti un esempio, nella mia esperienza di militante, ogni volta che ci si ritrova ad affrontare la questione del diritto allo studio noto una certa difficoltà di comprensione con gli studenti di altre regioni.

Però il fatto di essere favorevole in linea di principio va a cozzare con tutte le altre perplessità e tutti gli altri timori di questa riforma nel suo complesso. Questo conferma ulteriormente gli effetti dell’abuso della procedura di revisione costituzionale di cui ti ho parlato prima, che va poi a condizionare la scelta dell’elettore. O accetti tutto oppure non accetti niente.

 

Ma davvero pensi che una riforma che va a introdurre nuovi tipi di consultazioni referendarie e l’obbligo di votare le leggi di iniziativa popolare riduca gli spazi di democrazia del Paese?

Guarda, sull’argomento mi preme davvero ricordarti che il numero di firme necessarie per poter presentare le leggi di iniziativa popolare verrà innalzato da 50.000 a 150.000. Questo è un fatto gravissimo e inaccettabile perché, nonostante la base elettorale dal 1948 in poi si sia ampliata, ad oggi è davvero concretamente difficile riuscire a raccogliere 50.000 firme. Nella mia esperienza mi sono trovata per la prima volta a sostenere la presentazione di leggi di iniziativa popolare e non puoi capire quanto sia difficile la fase della raccolta delle firme, soprattutto da un punto di vista burocratico. Le firme, infatti, devono essere tutte necessariamente autenticate e a volerla dire tutta la cosa ha anche un costo non indifferente. Neanche i grossi sindacati, le grandi organizzazioni e realtà sociali nazionali riuscirebbero data la situazione attuale a raccoglierle. Innalzando la soglia a 150.000 firme di fatto si va a ridurre drasticamente il numero delle aggregazioni sociali in grado di poter rispettare questa procedura, circoscrivendole ai soli partiti politici, unici soggetti in grado di avere una struttura capillare e mezzi non indifferenti per poter chiamare a raccolta così tante persone.

Tra l’altro l’obbligo di votare questo tipo di leggi sarà rimesso alle forme e ai limiti stabiliti dai regolamenti parlamentari. Questo significa che dovremo sperare che chi siederà in parlamento sia così magnanimo da non prevedere limiti stringenti e soffocanti, tali da annichilire l’esistenza di questo istituto. Per carità, si potrà obiettare che il testo costituzionale non debba specificare per filo e per segno tutti i singoli effetti che potranno derivarne, però non stiamo parlando di regolamentare un referendum consultivo o d’indirizzo con cui dare dei semplici impulsi alle forze politiche, ma di atti concreti su cui prendere delle decisioni chiare e univoche.   

 

Da militante di sinistra, che effetto ti fa vedere Salvini, Berlusconi o Casapound sostenere la tua stessa causa referendaria?

Il Comitato per il NO viene spesso strumentalmente attaccato dai promotori del SÌ, ma anche da chi è ancora giustamente indeciso, per il fatto di appartenere a un fronte estremamente variegato. Io comunque mi sento tranquilla perché il nostro NO è differente perché non stiamo materialmente portando avanti la stessa campagna referendaria, non apparteniamo ad un unico grande comitato, non siamo le stesse persone, non stiamo nelle stesse piazze. Soprattutto, noi sosteniamo idee differenti da quelle della Lega o di Forza Italia: per esempio non siamo per il “premierato” o per il federalismo estremo. Certo, la questione referendaria si articola su due scelte secche: SÌ o NO ed è del tutto naturale che si formino di fatto delle maggioranze contingenti. Ma questo è anche il risultato del “peccato originale” di questa riforma: quello di essere stata proposta, sostenuta e votata solo dalle forze di governo. È ovvio che poi tutte le forze di opposizione, da quelle di estrema destra a quelle di estrema sinistra, convergano per motivi e interessi diametralmente opposti su un medesimo punto.

 

Sono decenni che si parla di cambiare la Costituzione, di superare il bicameralismo perfetto, di snellire le dinamiche parlamentari e ora che ne abbiamo l’opportunità dobbiamo tirarci indietro?

La domanda con cui ribatto è questa: «Abbiamo davvero necessità di un cambiamento del genere? La Costituzione va davvero cambiata o semplicemente attuata?»

Secondo il mio trascurabile punto di vista non è questo il cambiamento di cui abbiamo bisogno e le questioni cruciali che determinano la situazione attuale sono da ricollegarsi a fattori meramente politici. Questo non significa che la Costituzione sia intoccabile, né che non possa essere ritoccata per adeguarla ai mutamenti della nostra società, ma questo che ci è proposto non è il cambiamento adatto. Arrivati a pochi giorni dal voto appare chiaro che le principali critiche non vengono tanto mosse verso ciò che questa riforma espressamente propone ma sulle sue omissioni e sulle sue ambiguità, che vanno a toccare centri nevralgici del nostro sistema democratico e che rischiano di provocare seri sbilanciamenti nell’assetto istituzionale. Un rischio del genere, soprattutto in un periodo come questo, ricco di ritorni xenofobi e autoritari, dove si tornano a mettere in discussione certe faticose conquiste ottenute sul piano dei diritti civili, di scarsa credibilità e fiducia nelle forze politiche e di ascesa dei populismi, mi fa dire che i tempi non sono maturi per poter cambiare. Al contrario, dobbiamo rifugiarci nella nostra Costituzione, nata proprio per non ripetere mai più certe degenerazioni, ancora dietro l’angolo nonostante tutti questi anni.

La nostra Costituzione è già sopravvissuta a parecchi periodi difficili: i tentati colpi di Stato, gli anni di piombo, la strategia della tensione, la crisi dei partiti dei primi anni ’90, Tangentopoli. Ce la farà anche stavolta.

 

E se non ce la facesse?

La crisi che stiamo vivendo affonda le sue radici da almeno venticinque anni, se non di più, ed è una crisi puramente interna al sistema politico. Dopo il crollo dei partiti di massa e la riscossa dei personalismi, si è progressivamente smesso di parlare di coscienza politica diffusa. Ora non voglio fare dell’analisi politica spicciola, ma stiamo continuando ad assistere a uno scollamento della classe politica dalla realtà circostante che è sempre maggiore, con il passar del tempo.

Tutto questo non fa che accentuare la sfiducia e il disinteresse nei confronti della politica, fattori che sul piano elettorale si traducono in un astensionismo crescente.

 

Per salutarci, è per questo che la gente non va a votare?

Penso non sia necessario sforzarsi più di tanto per notare che sia crollata la qualità del voto. Quei pochi che decidono di andare a votare ormai lo fanno non tanto per supportare un candidato o un programma che li convinca, ma adottano la logica del “meno peggio”. Questa è una prospettiva tutt’altro che edificante. È evidente che, prima ancora che di cambiare la carta Costituzionale, c’è bisogno di un cambiamento culturale profondo, che porti a riflettere sui grandissimi errori che son stati fatti e che riporti entusiasmo e fiducia nelle persone.

Finché si continuerà ad attentare ai diritti sociali, a smantellare il diritto allo studio, a rendere ancora più difficile l’accesso alle prestazioni sanitarie; finché il presidente del Consiglio continuerà a considerare biecamente l’astensionismo un problema secondario perché capace di contare da una struttura ormai autoreferenziale, non ci sarà alcuna speranza di rinnovamento.

L’appello che posso lanciare è quello di impegnarsi in prima persona, nelle associazioni, nei comitati di quartiere o comunque in qualsiasi maniera, per impedire che siano gli altri a decidere per noi, per riscoprire la bellezza dell’impegno politico. L’attuazione della nostra Costituzione passa anche da qui.

 

Eugenio Macrì Bellucci
Laureando in giurisprudenza, ha collaborato con TV2000 e ha avuto modo di fare visita a diverse trasmissioni RAI (Affari Tuoi, Telethon, I fatti vostri). Non ha Twitter perché già perde troppo tempo su Facebook.
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