Vivere in collegio, a Roma
Sul finire dei suoi primi dieci anni, qui compiamo una piccola rivoluzione, abbandonando il nostro formato classico – quello del magazine culturale a cadenza vagamente quotidiana – per presentare ogni mese un solo saggio e un solo racconto. Da queste pagine 24 autori ogni anno proporranno il loro filtro sul reale, manipolando inevitabilmente la personalità di Dude mag: ed è una cosa che ci rende enormemente curiosi.
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Vivere in collegio, a Roma

Siamo stati in una di queste scuole e abbiamo intervistato due di loro per scoprire la vita di un collegiale italiano. Cosa mangiano, quanto vivono, che faccia hanno.

Quando mamma si arrabbiava con me o mio fratello cercava di metterci paura con minacce poco credibili, ottenendo scarsissimi risultati. Una minaccia che mi faceva ridere più delle altre era: «ti mando in collegio!».

Da allora ho iniziato a pensare al collegio come a un luogo poco reale, con qualcosa di fiabesco, a metà strada tra l’orfanotrofio e i castelli nel Windsor inglese per i residui della nobiltà europea e i figli dei magnati russi. Di fondo, comunque, ho sempre pensato che “il collegio” fosse una realtà esclusiva, asfittica, aristocratica e non italiana. Questo mio immaginario acerbo, però, è stato fatto a pezzi da una scoperta recente: esistono anche in Italia delle scuole superiori in cui gli studenti vivono.

A differenza dei collegi per i figli del gruppo Bilderberg, sono normalissime scuole pubbliche con normalissime lezioni, professori e canne in bagno. Alcuni degli studenti, finite le lezioni, i professori e le canne in bagno, invece di uscire e andare a casa a litigare o suonare la chitarra, semplicemente restano lì.

Siamo stati in una di queste scuole e abbiamo intervistato due di loro per scoprire la vita di un collegiale italiano. Cosa mangiano, quanto vivono, che faccia hanno. Siamo entrati aspettandoci storie di reclusione e voglia di libertà, siamo usciti che l’aria l’avevamo presa noi. Ma questo, forse, perché siamo vecchi.

 

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Aurelio ha 18 anni ed è molto, molto alto. L’anno prossimo si iscriverà alla facoltà di matematica a Trento. Lo incontriamo dentro la scuola, un sabato pomeriggio di bella luce, nella sua stanza, che è abbastanza piccola e spoglia. Un letto, una scrivania, un armadio. Qualcosa come otto nove bottigliette d’acqua per terra, tutte in piedi. Libri di fisica, una felpa. Questo si vede nella stanza di Aurelio.

 

Innanzitutto, perché vivi qui a scuola?

Vivo qua perché in terza media volevo fare l’accademia dei carabinieri: venivo da una scuola di periferia di quelle molto movimentate, di Ostia, e quindi volevo un po’ più di ordine, di disciplina. Io ero uno abbastanza disciplinato mentre tutti gli altri erano indisciplinati. E volevo anche un po’ staccarmi da casa, crescere, perché casa mia è un po’ piccola. Ostia è un po’ costrittiva.

Com’è stato all’inizio, quando sei entrato?

Il terzo giorno, ancora me lo ricordo, era un martedì pomeriggio, mi sono messo a piangere perché volevo tornare a casa. All’inizio non è stato proprio bellissimo, perché sei abituato a stare a casa, con mamma che cucina, ti fa i panini, fa tutto… e poi arrivi qui e c’è quest’armadio qua (indica il fine pezzo di arredamento anni settanta dentro al quale avrà appallottolato le mutande prima del mio arrivo n.d.a.) e ti sembra tutto abbastanza freddo e inospitale.

Eh ma infatti non ti sei aiutato molto: non hai arredato la stanza, appeso cose alle pareti.. non c’è nulla di tuo.

Ma perché alla fine non mi serve un poster per ricordarmi che è camera mia. Non sono le quattro mura che definiscono quanto vivi bene in un posto. Comunque no, non è stato facile all’inizio. Sei abituato a dire «papà, mamma» e invece qua ti ritrovi a vivere con uno a cui devi dare del lei.

(I ragazzi vivono con dei tutor ai quali si rivolgono per tutto. Fanno le veci di mamma e papà: vengono a tenerti la testa mentre vomiti, ti sgridano perché sei in ritardo e ti dicono è proooontooo. Con la differenza che mentre vomiti devi chiedere «mi può passare la carta igienica per favore?» e se ti sgridano forte non ti becchi un ceffone, ma una sospensione n.d.a.).

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Senti, ma una tua giornata tipo? Com’è? Tu ti alzi e…?

Alle 7 suona la campanella (mia espressione di completa incredulità n.d.a.), eh sì sì suona la campanella che così sveglia tutti, in tutti i piani. Considera che siamo tanti, 130-140. Quindi mi sveglio, poi se non ti svegli ti vengono a bussare gli altri finché non ti alzi. Doccia e poi scendo con gli altri a colazione.

Come mangiate? Mensa con i vassoi?

No, hai presente le colazioni degli alberghi? Un po’ così, ma non così ricco, non con i merletti. E poi io mi porto anche il cibo mio. Vedi là? Ho le noci e i biscotti.

Ma le storie d’amore? Ci sono? E come si fa?

Eh sì, sì ci sono. Però se te beccano..

So’ cazzi.

Eh… (sguardo sornione n.d.a.)

La cosa che per me è più assurda del vivere in un posto così, che sia la scuola o anche una caserma, insomma un posto con delle regole, la cosa per me più assurda è pensare che se una volta ti prende il matto che sei incazzato e vuoi uscire e farti una passeggiata, non puoi. Devi chiedere prima il permesso. Aspettare il fax. Mentre magari quella t’ha lasciato e a te ti si sbriciola il cuore. Cioè come fai? Come la gestisci?

Lo fai: esci. Qua dentro le stronzate le abbiamo fatte tutti, tutti. Alla fine siamo adolescenti e se te beccano eh, dipende. Di fondo i tutor lo sanno, cercano di essere comprensivi, ti vengono in contro. E poi ci sono vari tutor, dipende da chi hai, com’è. Davvero come con i genitori.

Lasciando perdere la scuola. Perché hai scelto matematica?

Eh. E tu perché hai scelto filosofia? (ma grazie al cielo va avanti n.d.a.) Così, perché mi piace. Vorrei fare il ricercatore.

Quale sarebbe il tuo modello di vita? Se potessi scegliere tutto: chi sei? Dove vivi? Che fai? Metti su famiglia?

Bè, mi laureo, prima di laurearmi faccio uscire qualche pubblicazione, medaglia Fields (annuiamo vaghissimi), qualche finanziamento per una ricerca personale, una bella vita, una bella casa, una moglie che amo, fisicamente bella, figli intelligenti, la salute… due cose che sono fondamentali: avere delle persone con cui hai stretto legami molto forti, e creare un mio prodotto intellettuale. Questo. Vivere una vita felice. No, non parliamo di felicità perché non si può parlare di felicità (a questo punto io stavo prendendo appunti per me stessa, che non ho capito nulla della vita) parliamo piuttosto di appagamento.

E cos’è allora una vita appagante?

Una quotidianità che ami, una certa rilassatezza. Un’esistenza appagante significa solo vivere. Dire ok, mi piace la vita, voglio vivere.

E ora, ti senti appagato?

No, in realtà non mi sento per niente appagato in questo momento. Devo lasciare tutto un mondo che amo, intraprendere nuove scelte.. cioè per quanto faccia schifo quel verde là (indica il verde ospedaliero del tavolo) mi mancherà. Alla fine è la mia vita, è tutto qua dentro. Io con alcuni ragazzi qui dentro ho fatto tutto: condividi tutto, scopri tutto, dormi insieme, li vedi in tutte le situazioni. Non è come con gli amici di scuola. Loro li vedi dopo, vestiti, normali, mentre qua io vedo tante persone in mutande, in tutte le situazioni.. è diverso. E insomma, so che soffrirò ad andare via. Però voglio anche crescere, voglio vivere la mia vita. E quindi va bene così.

 

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Io e Sofia ci incontriamo in un bar all’ora dell’aperitivo. Io ordino uno spritz e lei ha già preso una spremuta d’arancia. Mi aspettava lì lavorando: ha un Mac in stand-by davanti, abbigliamento scuro, treccia lunga laterale e perle alle orecchie.

Dovremmo parlare della sua vita a scuola, ma finiamo quasi subito per parlare dei suoi amici di scuola. Mi dice della sua insoddisfazione: si sente diversa da compagni a cui «non interessa di niente. Non cercano niente, non vogliono fare niente. Quando sono arrivata a Roma (da Palestrina n.d.a.) a scuola sentivo di mille attività, mille progetti e partecipavo a tutto: il giornalino della scuola, l’orchestra, perfino il MUN.

(Model United Nations: prendete dei minorenni, vestiteli in giacca e tailleur, trapiantateli a Bruxelles a presiedere assemblee delle Nazioni Unite simulate. Piccoli diplomatici di Vigna Clara che fanno i delegati del Senegal e discutono di politiche agricole mondiali. Una cosa un po’ bizzarra. n.d.a.)

 

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Insomma Sofia si sente stretta in un orizzonte piccolo. E infatti l’anno prossimo ha organizzato la grande fuga. È una tipa tosta: studia, sa le lingue, se vuole ti apre il culo. E così ha fatto domanda a prestigiose università per fare Relazioni internazionali, tutte oltralpe. Anche oltreoceano. L’hanno presa ed è indecisa tra Londra e Parigi. Confabuliamo, fantastichiamo, ipotizziamo.

 

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Cerco di ritornare sulla scuola: perché sei venuta qua, a vivere dentro scuola?

Perché vivevo a Palestrina, che è a più di un’ora da qui. Il primo anno andavo in un altro liceo, all’Albertelli. Poi ho scoperto questo, che aveva la possibilità di vivere qui, era comodo e mi piaceva il programma didattico. Era molto adatto a me questo posto: perché qui ho i miei tempi, i miei spazi.. Io ho qualche problema con l’ordine e la pulizia, e qui sto più tranquilla. (Sorride)

Non hai dei momenti di difficoltà in cui, chessò, vorresti mamma?

No, mia mamma proprio no, non ho un buon rapporto con lei. Sono una persona abbastanza indipendente, non so perché. Ho un fratello più piccolo, e lui è tutto il contrario.

Mia mamma è francese, quindi sono sempre stata divisa tra Italia e Francia, e quando andavo in Francia mio padre restava in Italia, quindi sono sempre stata abituata a stare senza qualcuno.

Credo che l’unica volta in cui mi sono sentita sola è stato quando avevo 8 anni, che mi hanno lasciata sola in un campeggio, francese, e lì ho pianto tanto, volevo tornare a casa. Ma poi no, poi è stata tutta in discesa.

Che genere di persone decide di trasferirsi in una scuola?

C’è un intero corridoio in cui vivono solo ballerine. Tipe del centro-sud Italia che vengono qua per studiare al liceo coreutico per poi andare al balletto, al Teatro dell’Opera etc… all’inizio per me erano “le oche”. Però sono migliorate direi. Comunque molti si trasferiscono qui perché vivevano in provincia, soprattutto nel centro-sud e magari volevano studiare meglio, cambiare aria. Però ecco una cosa che ho capito sin da subito è che a volte dovevo contare fino a dieci prima di chiedere dei genitori, come va, come stai, qual è la situazione familiare… perché spesso i ragazzi sono qui perché hanno situazioni familiari complesse. Qui almeno cresci tra ragazzi.

La tua camera com’è? Quella di Aurelio è del tutto vuota.

Sì ma i maschi sono così, sono vuoti. Io ho cercato di arredarla un po’. Qualche poster, qualche quadro. All’inizio avevo anche la tv, ma era inutile, non la guardavo mai. Ecco: una cosa che la vita a scuola ti toglie è il contatto con la realtà.

Eh, hai detto niente.

 

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È quasi ora di cena e la chiama la tutor. Le chiede dov’è e se torna per cena. Come mamma che piagnucola: «dai ma ho fatto la parmigiana, che fai non torni?»

Chiedo a Sofia di lasciarci con una sua immagine: qualcosa di bello che fa, oppure un posto, o un momento. Una cosa bella da condividere con noi che dica di lei.

«Non sono una sentimentale (e questo l’avevamo capito Sofì) però c’è una cosa che faccio. Ora che è maggio e le giornate sono lunghe e c’è questa bella luce, la sera scendo giù e mi siedo in mezzo al campo da calcio. Mi metto la musica, guardo il cielo e c’è il tramonto. Ho trovato un posto anche a Palestrina dove faccio la stessa cosa: ci vado col motorino, è sotto un arco. E niente, sto lì, è questo.»

A me e Sofia non ci importa più di parlare del vivere a scuola: viriamo di nuovo sui suoi progetti, sul partire, sulla sua ricerca assennata. Sono piacevolmente ubriaca di spritz mentre Sofia mi insegna il controllo. Ha un’agenda e molti impegni. Io un po’ smascello. Ci salutiamo, le auguro buona fortuna.

Andando via ripenso a “i collegi” del mio immaginario, e a come questa realtà sia diversa. Avevo molti pregiudizi sul vivere dentro una scuola: pensavo che fosse mediamente insano, claustrofobico, poco “moderno” in qualche modo. E invece Aurelio e Sofia mi sembrano tutto tranne che provinciali.

Francesca Sabatini
Nata a Napoli nel 1993, vive a Roma da allora. Si è laureata in Filosofia e si sta specializzando in Geografia Sociale. Appassionata di cammini, paesologia, esperienze estetiche dello spazio, derive e utilizzi psichedelici dell’urbano. Collabora con “Urban Photo Hunt”, di cui ha curato una stagione a Bordeaux. Ha girato corti sperimentali e short doc, di cui “Siete Qui” per e con Dude Mag. Si interessa di videoarte.
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