Brevi dal Torino Film Festival 2015 – Secondo atto
Sul finire dei suoi primi dieci anni, qui compiamo una piccola rivoluzione, abbandonando il nostro formato classico – quello del magazine culturale a cadenza vagamente quotidiana – per presentare ogni mese un solo saggio e un solo racconto. Da queste pagine 24 autori ogni anno proporranno il loro filtro sul reale, manipolando inevitabilmente la personalità di Dude mag: ed è una cosa che ci rende enormemente curiosi.
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Brevi dal Torino Film Festival 2015 – Secondo atto

Anche quest’anno ci siamo ricascati. Perché quando hai oltre duecento film a disposizione e una settimana per vederli, non puoi fare altro che fidarti delle trame che trovi sul programma (rigorosamente stampato su carta biblica patinata). Sai benissimo che «un grande viaggio fatto di suoni, colori, volti e incontri» è una supercazzola che sta per […]

Anche quest’anno ci siamo ricascati. Perché quando hai oltre duecento film a disposizione e una settimana per vederli, non puoi fare altro che fidarti delle trame che trovi sul programma (rigorosamente stampato su carta biblica patinata). Sai benissimo che «un grande viaggio fatto di suoni, colori, volti e incontri» è una supercazzola che sta per «niente trama, abbiamo girato finché sono finiti i soldi e il montaggio l’ha fatto la nonna di Pino che sta a fa’ il corso di alfabetizzazione tecnologica al centro diurno», ma sai anche che ci sono abstract molto più subdoli e che una percentuale di cazzate col fiocco (oltre che una di cazzate soporifere) te la becchi. È in vendita con l’abbonamento.

Abbiamo deciso di confrontare le sinossi ufficiali con le nostre impressioni quando si sono riaccese le luci in sala, per verificare quanto le aspettative siano distanti dalla realtà. Per fare gli splendidi, quest’anno abbiamo deciso di istituire un elaborato indice per aggiungere un elemento profondamente scientifico alla valutazione ogni film. 

 

Suffragette di Sarah Gavron
(Uk, 2015, 106’)

Sinossi: Nell’Inghilterra di inizio ’900 cresce la ribellione delle donne per la disparità di trattamento rispetto agli uomini. Maud (Carey Mulligan), moglie e madre che lavora in un lavatoio, si unisce alle rivendicazioni – tra cui il diritto di voto – del movimento di disobbedienza sociale guidato da Emmeline Pankhurst (Meryl Streep in un cameo appassionato). Forse il primo film che racconta questo pezzo di storia senza arretrare davanti alle violenze di cui le suffragette furono artefici e vittime.

Sul fatto che questo sia un film che non arretra, siamo d’accordo. Un bel filmone cupo, che ha il pregio di parlare di donne senza mostrare nemmeno una chiappa o uno stupro, cosa che, visto il tema, sarebbe stata abbastanza facile. Un film che non si tira indietro, e che a tratti va persino un po’ troppo oltre, sia per quanto riguarda la storia, austera e senza speranza ben prima dell’entrata nel secondo atto, sia in termini di regia, con la camera che più di una volta si trova a indugiare in modo un po’ pedante sulle curve della protagonista (per essere sicura che non sfugga, nemmeno al più tonto in sala, la natura del suo trauma). Il finale retorico, però, non ce lo toglie nessuno. E la sala si rompe di applausi. E la questione femminile oggi è ancora completamente aperta.

Indice René: una morte non fa primavera.

 

Me and Earl and the Dyng Girl di Alfonso Gomez-Rejon
(Usa, 20125, 105’)

Sinossi: Greg frequenta il liceo e passa gran parte del suo tempo con il suo amico Earl a girare parodie di film classici. L’amicizia con Rachel, nuova compagna di classe gravemente malata, cambia la sua vita. Un coming of age in perfetto equilibrio tra lacrime e sorrisi. Opera seconda di uno dei registi delle serie tv Glee e American Horror Story, è stato uno dei maggiori successi al Sundance di quest’anno, dove ha vinto, tra gli altri il premio del pubblico.

La sinossi farebbe pensare a uno young adult un po’ banalotto, con il solito ragazzino disadattato e nerd a cui la vita viene stravolta dall’arrivo di una bella ragazza. No. È un racconto di formazione che non parla solo agli adolescenti (che forse non coglierebbero tutte le citazioni cinematografiche delle parodie di Greg e Earl), ma della fatica di affezionarsi a qualcuno con il rischio che poi, quel qualcuno, ti rifiuti (o muoia) e del dolore di accettare di essere qualcosa di concreto anziché un rassicurante insieme di affascinanti possibilità su cui ridere. Greg è appassionato di cinema, ma si nasconde dietro alle parodie, sceglie di non mostrarsi, fino a quando non è costretto a fare un film vero. Da segnalare: la colonna sonora di Brian Eno, Jon Bernthal che ha smesso di inculare gli amici e ha iniziato una brillante carriera scolastica come upgrade testosteronico e tatuato del Robin Williams dell’Attimo Fuggente.

Indice René: non pervenuto e non necessario.

 

Akira di Katsuhiro Otomo
(Giappone, 1988, 124’)

https://www.youtube.com/watch?v=7G5zQW4TinQ

Sinossi: Dopo la terza guerra mondiale, nel 2019, la metropoli di Neo Tokyo è territorio di violenti scontri tra bande di motociclisti e tra polizia e civili. Scritto e diretto da Katsuhiro Otomo sulla base del suo manga omonimo, e frutto della collaborazione tra dieci compagnie di produzione giapponesi, è il film che ha reso popolari le anime in Occidente. Strabordante, affascinante e sontuoso, un cult al cui remake live sta lavorando Christopher Nolan.

L’ameba in cui si trasforma Testuo è l’immagine migliore per descrivere un film che ingloba lo spettatore e lo trascina in una sovrabbondanza di stimoli e di eccessi. In questo senso sì, la sinossi ci ha preso: Akira è strabordante sia dal punto di vista visivo che da quello narrativo. L’incubo cyberpunk nato dai fantasmi della bomba atomica ti costringe a portare all’estremo la sospensione dell’incredulità, per cui a un certo punto non ti sforzi più di capire tutti i nessi e se Tetsuo parte a razzo nello spazio e distrugge un satellite va tutto bene.

Di remake live se ne parla da un bel po’. Ora, con tutto il rispetto per Nolan, sarebbe meglio che ci mobilitassimo per entrare nella testa del vecchio Christopher per innestargli l’idea che magari non è il caso di sfidare Akira.

Indice René: ecco Testuo, l’agnello che toglie i peccati del mondo. 

 

Hong Kong Trilogy: Preschooled, Preoccupied, Preposterous di Christopher Doyle
(Hong Kong, 2015, 85’)

Sinossi: Tre diverse generazioni di honkongesi (bambini, giovani, anziani) raccontano con parole loro, e secondo la loro prospettiva, la storia della città in cui sono nati e cresciuti. Documentario diretto da Christopher Doyle, geniale direttore della fotografia per Wong Kar-Wai e molti altri autori, da tempo residente a Hong Kong. Una messa in scena elegante e raffinata che non soffre mai una modalità di racconto insolita e coinvolgente e l’amore dell’autore per la città e il suo doppio.

Chiaro che se ci dici che il direttore della fotografia di Wong Kar-Wai ha fatto un film, ci precipitiamo in sala. Eleganza e raffinatezza sono in effetti promesse mantenute, mentre della modalità di racconto coinvolgente possiamo parlarne. Se il primo capitolo, Preschooled, è il vero cuore del racconto, da Preoccupied la storia inizia progressivamente a sfilacciarsi e si dissolve in Preposterous. Un peccato, perché invece le storie dei bambini, nella loro intimità, hanno una forza magnetica che ti spinge a aderire al loro punto di vista. L’attualità narrata in Preoccupied, ovvero il movimento degli ombrelli (sulla falsariga di Occupy), ha già un sapore superato, anche perché, nel momento in cui vediamo il film, conosciamo già le contraddizioni delle utopie alla base del movimento. Preposterous è invece un’occasione mancata: gli strambi vecchietti protagonisti di questo capitolo possiedono un potenziale narrativo che resta inesplorato.

Degni di nota: la bambina che gira con un bottiglione di acqua santa, venerando qualsiasi divinità (uno dei pochi collanti che attraversa i tre capitoli); il maestro Kevin, insegnante che abbandona la sua classe su un tram in compagnia di una sedicente diva che ha scambiato il mezzo per un palcoscenico, per andare a caccia di birra; il bambino sovrappeso con evidenti carenze d’affetto (colmate a suon di junk food).

Indice René: troppi (troppi) dei.

 

Nie Ynniang / The Assassin di Hou Hsiao-Hsien
(Taiwan/Cina/Hong Kong, 2015, 104’)

Sinossi: Cina, IX secolo, dinastia Tang. Una giovane donna, educata alle arti marziali da una monaca e trasformata in spietata assassina, deve scegliere tra l’obbedienza alle regole e le ragioni del cuore. Grande ritorno di Hou Hsiao-Hsien, con un film di straordinaria eleganza compositiva; un wuxia al femminile in cui l’azione si alterna con una solenne ma mai enfatica rappresentazione di un’epica lontana. Magnifica la protagonista Shu Qi. Premio per la migliore regia a Cannes 2015.

L’intreccio di potere, passioni e tradimenti avrebbe le potenzialità di un Games of Thrones con gli occhi a mandorla. Esiste però un modo tipicamente orientale di raccontare, il cui gusto estetico obbliga a un rigore narrativo che non mortifica la trama, ma grazie alla compostezza e alla sottrazione ne aumenta l’eco. In questa logica, rientra la gestione dei sentimenti tra la protagonista e il governatore di Weibo e tra la protagonista e la sua mentore (la simpatica monaca assassina).

Shu Qi più che magnifica è magnetica: non riesci a staccarle gli occhi di dosso. Nient’altro da aggiungere perché ci sembra che, soprattutto per un Occidentale, la compostezza estetica inglobi davvero tutto, storia compresa.

Indice René: quando il tuo maestro ti incita a fare la cattiva, o è double bind o son cazzi.

 

Leggi anche il primo atto e il terzo atto.

Valentina Rivetti e Sebastiano Iannizzotto
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