1. Io e Te, Bernardo Bertolucci
2. Hugo Cabret, Martin Scorsese
3. Il Cavallo di Torino, Béla Tarr
4. Cosmopolis, David Cronenberg
5. Pietà, Kim Ki-Duk
6. War Horse, Steven Spielberg
7. Killer Joe, William Friedkin
8. J. Edgar, Clint Eastwood
9. Moonrise Kingdom, Wes Anderson
10. Twixt, Francis Ford Coppola
Il problema di stendere, sempre e esclusivamente per gioco, classifiche come queste è quello di stabilire i criteri da utilizzare per includere o escludere un dato film: bisogna riferirsi solo ai film distribuiti in sala in Italia? O vale qualunque cosa vista in qualunque sala nel 2012? O bisogna magari attenersi all’anno di produzione? Difficile venirne a capo ed ecco che questa classifica sembra allora un incrocio tra queste diverse possibilità di catalogazione.
Premetto da subito che non ho ancora visto Holy Motors di Leo Carax (che in molti mi indicano come un capolavoro, un recupero per il 2013) e che il film forse non più brutto dell’anno ma sicuramente più detestabile è Amour di Michael Haneke (ennesimo meccanismo chiuso e asfissiante, questa volta applicato a materiali “liberamente” emotivi come amore e morte: aldilà della Palma a Cannes e della commozione di tanti amici, Haneke continua a risultarmi istintivamente detestabile).
Io e Te mi sembra il film più geniale, più piccolo, fragile, e allo stesso tempo più potente, emozionante: un’ipotesi per ricominciare a guardare il cinema (e non solo) da un nuovo punto di vista, da una diversa prospettiva, per riscoprire come raccontare gli spazi, le città, i volti, le storie… Hugo Cabret sembra l’opposto di Bertolucci, un film ricco, industriale, in 3D, pensato per un pubblico vastissimo: eppure anche qui si agita il fantasma piccolo e privato, assolutamente scorsesiano, dell’archeologia del cinema, del traghettare in epoca contemporanea un maestro semidimenticato come Méliès. Arrivando a suggerire che il cinema del maestro francese era già tridimensionale e che forse tutto il cinema più intelligente e consapevole lo è sempre stato. L’unico film, assieme a Avatar, non in 3D ma sul 3D.
Ho visto il grande film di Béla Tarr in un cinema a Parigi, meravigliosamente recuperato sul grande schermo (non si può vedere un film simile su uno schermo casalingo) dopo che avevo perso le rarissime proiezioni in Italia. Un film per certi versi assoluto e definitivo Il Cavallo di Torino e chissà che non sia veramente l’addio del regista al cinema. L’apocalisse più straziante, dilatata e potente vista negli ultimi anni (superiore a quella più ovvia di 4:44 di Abel Ferrara, anche se ho voglia rivederlo…) e appena un gradino sopra quella di Cronenberg che portando sullo schermo il mondo di Don De Lillo si conferma, tra mille cose, il regista-ponte più affascinante tra letteratura “infilmabile” e cinema (Il Pasto Nudo, Crash, ora appunto Cosmopolis). Il contestato Pietà di Kim Ki-Duk (regista fino a qualche anno beniamino, chissà perché, del pubblico italiano) è ancora più fragile, imperfetto, piccolo di Io e Te. Un film-terapia il vincitore di Venezia 69, dove l’istinto registico e la libertà narrativa contano assai più della “bella forma” o di una sceneggiatura canonicamente ben scritta.
E se l’irresistibile Spielberg continua a rimettere in gioco se stesso e il cinema tutto (War Horse è soprattutto un film-omaggio al grande melò hollywoodiano, ennesimo tornare indietro per andare avanti che lo trasforma, nuovamente, in un ultimo dei classici), l’immenso mestiere di Friedkin rende memorabile Killer Joe, film che non ho amato all’eccesso (sempre, beninteso, se confrontato con i capolavori disseminati negli anni dal regista di Vivere e Morire a L.A.) ma che sembra crescere dentro, e arrivare lentamente a splendere di luce propria; a suo modo un gioiello di ironia e perfidia aldilà dei confronti con i Coen e Tarantino. Chiudono Eastwood e Wes Anderson. Il primo impegnato in uno dei suoi film meno immediati e meno facili da amare. Eppure il suo ritratto, disperatamente umano, di Hoover riesce, a tratti, a essere all’altezza di tanti suoi capolavori. E offre a Di Caprio uno dei suoi migliori ruoli di sempre.
Moonrise Kingdom mostra come Anderson, sotto la sua dilagante maniera, riesca ancora a lavorare qualcosa di potente e forte: valga qui tutta la storia d’amore tra i due protagonisti, assai più intensa dei colori pastelli e dei carrelli laterali. È anche il primo film visto, dopo anni, non in platea ma in galleria: prospettiva dall’alto, fuori moda, assolutamente memorabile. Chiude Twixt, il piccolo grande film (recuperato a casa, al cinema sarebbe stato magnifico) di un genio assoluto.
Nella sua riscoperta di un cinema piccolo, indipendente e intimo, Coppola sembra qui arrivare in ritardo rispetto ai grandi film anni Novanta sulla scrittura (Carpenter, Cronenberg, gli interessanti Romero de La Metà Oscura o Barton Fink dei Coen), ma conta per la capacità, davvero unica, di manipolare tempo e spazio a proprio piacimento. Dispiace lasciare fuori Lo Hobbit e il simpatico Prometheus dell’insopportabile Ridley Scott. Non dispiace lasciare fuori il pessimo The Dark Knight Rises. Buon 2013.
In apertura fotogrammi da: Amour, Michael Haneke; Io e te, Bernardo Bertolucci; Hugo Cabret, Martin Scorsese; Il cavallo di Torino, Béla Tarr; Killer Joe, William Friedkin; Moonrise Kingdom, Wes Anderson.