Mentre guardo il soffitto giallo mi rendo conto di essere in ritardo e decido di non rispondere alla telefonata di Chiara. Sto messo così male che pure lo scontrino puzza d’alcool. Lo prendo e ci scrivo dietro «Per amare il cinema bisogna innanzitutto odiare se stessi.». Lo poso sul tavolo assieme ai soldi, esco e corro verso un’altra fila. Non mangio da dodici ore e mentre inciampo tra le bici elettriche che mi tagliano la strada tutto quello che mi viene in mente è Bill Murray. Da dentro una vasca da bagno dell’Hyatt Hotel dice alla moglie: «Da oggi voglio mangiare solo giapponese, non sopporto più tutta quella pasta». Stomaco e cuore non sono mai stati così d’accordo. E Terri sì che mi capirebbe, perché anche lui si è innamorato di una straniera. La vita dell’enorme teenager, descritta nel film di Azazel Jacobs, ruota essenzialmente attorno a tre amori: scorazzare in pigiama ovunque vada, mettere trappole per topi e inseguire una compagna di classe, un viso d’angelo da cheerleader. Una straniera. Qualcuno in sala urla a Terri: «Freak.». Diverso. Le dramedy americane più recenti, da Little Miss Sunshine a The Savages, ci hanno insegnato cosa vuol dire. L’ipotesi di trovarsi di fronte ad un vero è proprio genere oramai è fortissima. Niente moralismi o banalità da romanzo di formazione sia chiaro. Anzi. Si riesce sempre a scovare una sincerità tale da far perdonare tutto il resto. E soprattutto la sensazione di forzare la porta di servizio di una casa americana e di rivelare in noi quel morboso interesse per come dormono, cucinano e litigano gli americani che non conosciamo. Con questi film c’é il serio rischio di ritrovarsi a pensare che essere diversi, in fondo, potrebbe diventare normale.
Un poster di Abel Ferrara distrae i miei pensieri. Mi accorgo che con lui in giro per Locarno c’è stato un periodo più o meno glorioso in cui ci siamo considerati tutti più astemi. Ma lui se ne è andato via da un pezzo. Passando davanti ad un bar mi faccio forza ripensando ad alcune parole di Carver: «bere richiede un sacco di tempo e di energia, se ti ci dedichi sul serio.». Mi dico che sono in vacanza e che non devo lavorare troppo. Poi vedo The Loneliest Planet di Julia Loktev e quasi cambio idea. Tra le montagne del Caucaso, in Georgia, i due fidanzati Alex e Nica viaggiano zaino in spalla in un paesaggio selvaggio e suggestivo. E fino a qui tutto bene direbbe Kassovitz. Nella prima inquadratura Nica salta completamente nuda, nel tentativo di scaldarsi. Alex arriva, le getta addosso dell’acqua calda e ride, si baciano. Attorno a loro il paesaggio è armonioso e fertile, sembra seguire i lineamenti dei loro occhi rilassati. Un giorno i due litigano e dal cielo piomba l’eclisse, come in Antonioni. Improvvisamente il silenzio invade le valli che li circondano, desaturando i colori di un paesaggio splendido. I luoghi diventano protagonisti, soli, a commentare il disfarsi di personaggi vicinissimi nello spazio ma lontanissimi nello spirito. La regista, come se fossimo testimoni di un esperimento scientifico, ci invita ad osservare. A confrontarci con l’impietosità e l’ineluttabilità del viaggio intrapreso, della necessità di sopravvivere e proseguire senza sapere se si arriverà da soli o ancora assieme.Quando si riaccendono le luci la gente rimane in silenzio ed esce ordinatamente, con lo sguardo turbato.
La forza del cinema è anche urlarti in faccia le sue idee senza aprire bocca. Fortunatamente il giovane Sylvain ha il pelo sullo stomaco e una peculiarità: dal primo minuto, a occhio e croce, ammazza più o meno tutti quelli che gli capitano a tiro. Sgozza, taglia ed affetta ogni passante che incontra e poi torna tranquillo a gestire un cinema. È il protagonista di Dernière Séance di Laurent Achard. Per qualche motivo mi ricorda Antoin Doinel. Sarà perché Sylvain ammazza sì tutti, ma quando si tratta di Truffaut e Haneke si dimostra abbastanza rispettoso. Una signora accanto a me si copre continuamente il volto per la paura. Ma non accade quando lui taglia, sgozza o maciulla. Accade quando, semplicemente, lui è da solo ed in primo piano. Sono abbastanza sicuro che per arrivare a tanto ne devi studiare di grammatica cinematografica. Resta come corollario: un film che cerca un registro così alt(r)o non può che essere, se riuscito, “meravigliosamente brutto”.
Questa cosa la dico anche a Dominic Allan, che si fa una bella risata. Poi punta gli occhi dritti su di me ed esclama «No bullshit». Il suo personaggio è autentico e ci tiene a sottolinearlo ancora una volta. Lo assecondo perché durante la nostra chiacchierata non capisco chi sia il più bastardo tra lui e Calvet, il protagonista del suo documentario. Mi spiega che si è scelto un direttore della fotografia che non parlasse francese, apposta per non permettergli di capire ciò che succedeva e mantenere così tutto il controllo. Poi insiste ancora che la sua storia è assolutamente genuina e che le persone non cambiano. Sullo schermo, intanto, Jean Marc Calvet non smette di parlare, racconta con la foga e la violenza di chi è stato zitto per troppo tempo. Dentro al suo camice da pittore ci sta stretto, si vede subito. Ti sembra una guardia del corpo ed in effetti scopri che lo era davvero. I conti non tornano. Ti racconta di come si faceva di qualsiasi droga gli capitasse sotto mano, di come vendeva il suo corpo e intanto scappava da suo figlio. E poi si allontana per spiegare a dei bambini un suo quadro. Il film è avvolgente e non permette fughe, chi assiste viene lanciato in un percorso, come ci tiene a specificare Dominic, che non è di redenzione attraverso l’arte ma di distruzione di un personaggio, di ritorno al proprio io. Dominic dopo la discussione scompare nel buio della sala. Questo mantello scuro ci accompagna ad ogni uscita e in qualche modo, ne sono convinto, mi porterà anche da quegli occhi a mandorla che continuo a mancare per pochi attimi, ogni volta.
Mentre camminiamo nell’ultima fila della giornata un padre ride della richiesta del figlio: «Cosa vuol dire la parola Cinema?». Ho come l’impressione che mi stia guardando e che condivida con me gli stessi pensieri. In quel silenzio, nel corridoio scuro che ci allontana dalla sala 1 del cinema Rialto, si svelava nuovamente una sensazione gradevole di attesa. Di Cinema.
Sopra Calvet di Dominic Allan
Dernière Séance di Laurent Achard
The loneliest planet di Julia Loktev
Terri di Azazel Jacobs