Listone 2016 | Serie TV
Sul finire dei suoi primi dieci anni, qui compiamo una piccola rivoluzione, abbandonando il nostro formato classico – quello del magazine culturale a cadenza vagamente quotidiana – per presentare ogni mese un solo saggio e un solo racconto. Da queste pagine 24 autori ogni anno proporranno il loro filtro sul reale, manipolando inevitabilmente la personalità di Dude mag: ed è una cosa che ci rende enormemente curiosi.
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Listone 2016 | Serie TV

SPOILER ALERT

In questo listone curato da Sebastiano Iannizzotto, Federico Pevere, Valentina Rivetti e Orlando Vuono, troverete: Tre serie tv che ci hanno rivelato, Tre serie tv sulla verità, questa sconosciuta, Tre serie che pensavamo sull’amore e invece, Tre serie tv che ci hanno fatto cadere le braccia a terra, Best period drama, La serie tv che ci ha quasi fatto litigare, La serie tv che ci ha riappacificati, Tre serie tv nerd power, Tre serie tv sul fallimento, Tre serie tv sulla famiglia (anche se fanno finta di no), Una serie tv invecchiata bene, Una serie tv invecchiata male. Buon bidgewatching.

 

SERIE ESORDIENTI

 

Tre serie tv che ci hanno rivelato

 

Atlanta — La rivelazione dell’anno. Un Louie in salsa hip hop. Donald Glover (ve lo ricorderete in Community e per il moniker musicale Childish Gambino) produce, scrive e dirige, oltre a interpretare il cugino manager di una bislacca stella nascente dell’hip hop di Atlanta, tale Paper Boi. Ogni puntata fa (la) storia a sé, rivoluzionaria sia nelle forme che nei contenuti. Da segnalare B.A.N., probabilmente l’episodio dell’anno: Paper Boi mattatore in un ipotetico talk show, tra improbabili ed esilaranti pubblicità e invettive sessiste capaci di far riflettere prima che sorridere. [F. P.]

 

 

Stranger Things — Ammettiamolo: le lucine natalizie hanno assunto sfumature sinistre, da quando abbiamo visto Winona (tornata a livelli di disagio altissimi) decifrarne le intermittenze in sequenze ormai diventate di culto. Stranger Things è stata la regina incontrastata dell’estate, puntando su vagonate di citazioni dalla sci-fi anni ’80 e su una struttura narrativa ben congegnata (un usato sicuro, verissimo, ma qui senza sbavature e in condizioni perfette). Nostalgia (canaglia!) ma costruita benissimo. Menzione speciale per la colonna sonora: Clash, Joy Division, New Order, Echo & The Bunnymen e il main theme carpenteriano (capolavoro) composto da Kyle Dixon e Michael Stein dei S U R V I V E. Retromania e applausi. [S. I.]

 

 

Westworld — Dal film di Michael Crichton del 1973, la serie tv più filosofica del 2016. A riassumere questo western fantascientifico, neanche ci proviamo. Anche perché siamo ancora troppo impegnati a chiederci se la nostra realtà è reale o se è un parco a tema in cui noi siamo gli androidi programmati e sceneggiati da un team di creativi per divertire qualche – sciagurato, perverso, cattivo – riccone. (Se ci leggi, team, non è che per il 2017 potresti rettificare qualche codice? Quello del tasso di disoccupazione, quello delle morti degli artisti, scegli tu…) (Assolutamente no.) (Ok, grazie lo stesso.) (Prego.) [O.V.]

 

 

Tre serie tv sulla verità, questa sconosciuta

 

Quarry – Pagato per uccidere — Soprassedendo sulla tagline italiana (al solito riduttiva e piaciona), è una serie tv sorprendente benché la trama sia trita e ritrita. Mac Conway, reduce dal Vietnam, torna nel suo paesino sperduto e si ritrova incapace di riadattarsi alla vita di provincia. Si fa tentare da uno sconosciuto, perde il controllo su se stesso. La colonna sonora, la fotografia, la recitazione, tutto è al posto giusto, ed è questo a sorprendere tutto è perfetto. Pure troppo. [F. P.]

 

 

The People vs OJ Simpson — Nata come costola di American Horror Story, ne mantiene la struttura antologica affrontando i casi giudiziari più eclatanti d’America. Cast di assoluto livello (Cuba Gooding Junior, John Travolta, una definitiva Sarah Paulson, un sorprendente David Schwimmer), ritmo serrato, aggiungeteci poi il fascino discreto e perverso di assetarsi dei retroscena più squallidi di uno dei più grandi show di tutti i tempi, il processo per omicidio a O.J. Simpson. La serie tv targata Fox è una continua rincorsa verso una verità annebbiata dai media, dai pregiudizi, da noi tutti (i noi tutti di allora): il dramma dell’anno. [F. P.]

 

 

Billions — Se Tom Wolfe si lasciasse convincere a scrivere una serie tv, eccola: Billions. Ricatti come se piovessero rane in un film di Anderson, tutti questi verdoni! verdoni! verdoni!, la Versione di Giamatti, l’agente Brody di Homeland, un certo sadomachismo di un certo mondo, una New York fatta solo di interni e che non respira, una freddura dietro l’altra, dialoghi alla Sorkin, un acquario stracolmo di disumanità, da far morire di fame, un osservatorio indiscreto sulla verità, nostra sconosciuta. [F. P.]

 

 

Tre serie che pensavamo sull’amore e invece

 

Love / Easy — Amarsi un po’, essere sulla soglia dell’età adulta (con tutta l’incertezza, anche sentimentale, del caso), esistere in modo provvisorio; aggiungiamoci un’estetica moderatamente hipster e il tipico sapore Sundance: mescolare bene ed ecco Love. Si parla d’amore, è vero, c’è Gus che è bruttino e sfigatello e c’è Mickey bellissima e cinica: tutto come da copione. Ma la dinamica tipica della rom-com assume un tono agrodolce e un ritmo ondivago che creano dipendenza.

Il 2016 di Netflix verrà ricordato per le comedy che ragionano sulle relazioni: oltre a Love, merita una menzione speciale anche Easy, che, vista la sua natura antologica, racconta l’amore da prospettive diverse. Minimo comun denominatore: entrambe mettono più ansia di una distopia, per il semplice motivo che le dinamiche che vediamo sullo schermo sono quelle che, spesso, viviamo ogni giorno sulla nostra pelle (e su quelle del/la nostro/a partner). [S. I.]

 

 

Fleabag — Tipo Shameless, ma per single. Phoebe Waller-Bridge (che produce, scrive e interpreta, oramai va di moda) è decisamente la Lena Durnham inglese, ma senza speranza, stralunata e invincibile come una qualsiasi ragazza inglese. Ti guarda in camera e ti dice come stanno le cose, la bocca s’allarga in un sorriso, le lacrime scendono tra la pioggia. Ti innamori mentre lei ti racconta, mentre allunga le mani su di te per poi pentirsi. Gli spettatori non faranno altrimenti. [F. P.]

 

 

Baskets — Zach Galifianakis che fa un clown squattrinato. E ho detto tutto. [F. P.]

 

Tre serie tv che ci hanno fatto cadere le braccia a terra

 

Marseille Marseille doveva essere la House of Cards francese nonchè la prima produzione europea di Netflix, ma qualcosa è andato decisamente storto – e dunque i presupposti per la serie tv tratta da Suburra non sono ottimi. Un’accozaglia indistinta di luoghi comuni, trame inconsistenti e sciatteria registica e interpretativa. E poi, si vuol bene a Gerard Depardieu, certo, ma prima di tornare sulle scene dovrebbe risolvere un certo problema, poi ne riparliamo. [F. P.]

 

 

Flaked — Tutti amiamo Will Arnett, anche chi lo conosce. Ecco in Flaked non c’è nulla dell’Arnett che abbiamo imparato sfrenatamente a desiderare in Arrested Development. Il nulla più assoluto. Prendete una passeggiata di Arnett a Venice Beach la domenica pomeriggio, ecco avete Flaked. Il nulla. Arnett che ammicca e nessuno abbocca. Toglieteli lo specchio. [F. P.]

 

 

Animal Kingdom — Come si diceva un tempo per i film? Era meglio il romanzo. Ecco, ora diciamo in coro che era meglio il film. [F. P.]

 

Best period drama

 

The Crown — Prendete: un bel po’ di cash, diciamo 100 milioni di sterline; un classicone della storia della filosofia politica, tipo I due corpi del Re; uno dei massimi compositori viventi, facciamo Hans Zimmer; la triade tematica di maggior successo nelle serie tv recenti, Emancipazione femminile-Potere-Famiglia. Perfetto. Ora scegliete un periodo che vi assicuri tante, tante stagioni: l’avvento del regno più longevo della storia della monarchia inglese, benissimo. Siete pronti a produrre la migliore period drama dai tempi di Mad Men, diventando miliardari? Eh no, fermi: c’ha già pensato Netflix. [O. V.]

 

 

La serie tv che ci ha quasi fatto litigare

 

The Young Pope — Senza entrare nello specifico (visto che a prima vista tutto in Sorrentino è perfetto, gli incastri montaggio-musica, la recitazione, la battuta ad effetto, la scenografia, poi, tralasciamo sulla fotografia da Gli Occhi del Cuore), manca solo una cosa: un intreccio narrativo che sia uno, che sia degno del Sorrentino prima maniera, ma cosa diavolo sarà mai successo. Prendete un buon regista di videoclip e mettetegli in mano un Oscar (ah, l’ego), un budget milionario (HBO, Canal+, Sky) e carta bianca (per dirla alla Renè Ferretti, GENIO!), e avrete il Sorrentino di The Young Pope. [F. P.]

 

 

Davvero abbiamo bisogno di un intreccio narrativo? E se ce lo mettono ci fa schifo, ché siamo intellettuali e non siamo mica la casalinga di Vigevano; e se non ce lo mettono ci scandalizziamo, ché serve una storia a cui aggrapparci altrimenti ci annoiamo. The Young Pope non avrà un intreccio solido, ma esplora una situazione (ehi, sei il Papa! Ehi, sei giovane ma sei una discreta merda retrograda che manco nel Medioevo!) e lo fa divagando con eleganza, con dialoghi perfetti (roba da imparare a memoria e rigiocarsi all’occorrenza), costruendo immagini belle e potenti. Non è impeccabile, anzi. In certi momenti Sorrentino si compiace di essere Sorrentino (la suora che fa la bicicletta, per dire), ma sono appunto brevi momenti che, quindi, gli possiamo perdonare. Non funzionano benissimo, forse, i flashback: mi rendo conto che è una mia idiosincrasia personalissima contro tutti i flashback, specialmente contro quelli che raccontano traumi infantili o eventi miracolosi. Ma al netto di queste piccole criticità, Sorrentino mostra la sua grande dote: innescare il Big Bang della cultura pop, la scintilla definitiva che crea sequenze che aprono una specie di stargate tra alto e basso, trash e intellettuale, raggiungendo una raffinatezza pop che pochi, oggi, sono in grado di raggiungere. Quando parte Sexy and I know it durante la vestizione sfarzosissima di Lenny Sorrentino vince tutto a mani basse, segna di tacco al novantesimo e ammutolisce uno stadio intero.

Colonna sonora meravigliosa: la cover di Halo cantata da Lotte Kestner, Never be like you di Flume e Kai e poi il capolavoro, Recondite di Levo, la musichetta delle agnizioni, il tema che ti entra in testa e poi senti mentre sei in coda al supermercato e anche i gesti meccanici e stanchi della cassiera diventano poesia. Anche sulla fotografia, mettiamoci d’accordo: Luca Bigazzi è un cretino? No. Gioca ad aprire tutto come Duccio? Forse, ma lo fa consapevolmente: stiamo parlando di Lenny Belardo, una specie di santo pazzo, quindi perché non sparare una luce da Paradiso ricreato in Terra. Non proprio l’effetto Occhi del cuore, quindi. 

Non sono uno di quelli che considerano Sorrentino un G-E-N-I-O (detto alla Renè Ferretti): Youth mi aveva fatto abbastanza schifo, con tutti quei luoghi comuni sulla creazione artistica e sulla vecchiaia, ed ero andato via dal cinema parecchio nervoso. Da non sorrentiniano, però, devo ammettere che in The Young Pope Sorrentino azzecca (quasi) tutto: a cominciare dalla sigla, fino ai titoli di coda. Dimostrando, se ce ne fosse ancora bisogno, che c’è spazio per l’autorialità anche nelle serie tv. [S. I.]

 

La serie tv che ci ha riappacificati

 

The Night Of — Merda. Non può aver pensato altro, dopo che l’agente gli ha detto «Ehi, John, ci sarebbe questa parte, una buona parte, l’avvocato del protagonista. Stiamo parlando del top del top, HBO. Avevano cominciato a girare il pilot con Gandolfini, ma poi è morto. Ora vogliono te. Dicono saresti perfetto. Eravate pure amici, no?» Merda. E Merda abbiamo pensato noi guardandolo, John, John Turturro, John Turturro che interpreta John Stone, avvocato mediocre, solo e infelice inventato per il top del top di tutti gli attori passati s’uno schermo televisivo americano, James Gandolfini, e noi, guardandolo, John Stone interpretato da John Turturro, non l’abbiamo pensato mai, Come sarebbe stato bello se ci fosse stato Gandolfini, e questo vuol dire che è stato davvero davvero fenomenale, Turturro, con quel suo sguardo malinconico, la barbetta rada, sguardo e barbetta che insieme al cinismo generoso lo rendono così Dr. House, un Dr. House con al posto dell’ospedale la prigione, al posto della ferita alla gamba uno schifosissimo eczema al piede che non si può neanche nascondere, un eczema che già la parola basta e avanza, ecz ecz ecz: aiuto!, ma che oltre a essere significante ostile è pus prurito rossore puzza marciume, e poi, come se non bastassero significante e significato a sgomentarvi mentre il piede in un sandalo o addirittura incellofanato in un sandalo sale le scale di un tribunale newyorkese, è anche, forse, probabilmente, simbolo: del male, del dolore, dell’ingiustizia della condizione umana. Merda. [O. V.]

SIN e BAD: sono le parole che Naz si fa tatuare sulle dita (una dietro l’altra danno vita a Sinbad, come lo chiama Freddy, il re della prigione). Il peccato e il male (ma anche la rovina). The Night Of è forse una delle migliori serie di sempre. È densa di simboli (gli stessi tatuaggi, il riferimento a Sinbad e a Il richiamo della foresta, l’enigma del gatto, l’eczema, e potremmo andare avanti a oltranza) e andrebbe rivista anche solo per tentare di decifrarli tutti. Ma non vorrei addentrarmi, adesso, in questa foresta di simboli.

A un certo punto The Night Of smette di essere un crime. Lo sappiamo (o almeno crediamo di saperlo) che Naz è innocente, anche se non si impegna a dimostrarlo. Da un certo momento in poi (dall’ingresso in carcere? Da quando Naz si mette al volante del taxi del padre e si immerge nella notte che gli cambierà la vita?) The Night Of diventa un racconto della corruzione a cui siamo, inevitabilmente, destinati noi tutti esseri umani. Del male che ci abita e che abita intorno a noi. Non c’è possibilità di redenzione: bisogna toccare il marcio che ci abita, bisogna guardare dritto nel nostro cuore nero, bisogna scendere nell’abisso, un gradino alla volta. La notte a cui fa riferimento il titolo non è solo il momento in cui avviene il fatto che diventa il motore narrativo della serie. È la notte in cui viviamo costantemente. È la notte che vive dentro di noi. E alla fine conterà poco (occhio allo spoiler) che Naz venga scagionato: è già un’altra persona, è già cambiato, ha fatalmente abbracciato l’oscurità che lo abita. [S. I.]

 

 

SERIE VETERANE

 

Tre serie tv nerd power

 

Halt and Catch Fire — I capelli di Cameron che si allungano con la stessa velocità con cui lei diventa adulta, le giacche di Donna che si stringono al ritmo del suo diventare imprenditrice (leggi pure arrivista), Joe che – abbandonato definitivamente il dolcevita alla Steve Jobs – preferisce morbidezze e colori cachi per il suo nuovo ruolo di guru redento o in via di redenzione, i seguaci del guru che fanno i seguaci fino alla morte (vera e propria): va ammesso che questa terza stagione è un po’ più didascalica delle precedenti. Una stagione meno “tecnologica”, in cui quello che interessa davvero è vedere come i protagonisti si scambino di ruolo, passando dal lato dei puri a quello dei calcolatori, perché è questo il vero cuore della stagione: quanto realizzare i nostri sogni significhi sporcarsi. La risposta è una palla bollente che nessuno vuole tenere in mano (esattamente come lo spettro della malattia che appare e scompare per tutto il tempo), tranne Bos – il texano di ferro dal cuore dolce (e un magnifico principio di realtà) che tutti vorrebbero avere come nonno e che da solo varrebbe la visione. Niente paura, nella quarta e ultima stagione, tutti diventati grandi, dovrebbero tornare a occuparsi delle cose importanti. Inventare la rete per esempio. [V. R.]

 

 

Mr. Robot — «Non prendere mai niente per vero, se non ciò che io avessi chiaramente riconosciuto come tale; ovvero, evitare accuratamente la fretta e il pregiudizio, e di non comprendere nel mio giudizio niente di più di quello che fosse presentato alla mia mente così chiaramente e distintamente da escludere ogni possibilità di dubbio». Non è Elliot, è Cartesio.

E basterebbe questo per dire che questa faccenda della paranoia gli è un po’ sfuggita di mano. Se nella prima stagione dissociazione e paranoia erano dentro la trama, in questa seconda diventano meccanismi di forma per tacere il fatto che Elliot si sta facendo qualche mese di prigione. Diciamo che quando alla fine te lo confessa, ti senti un po’ offeso. È comunque una lezione: usa il dubbio iperbolico bellezza! Superata la delusione e con una camomilla in mano, anche il secondo Mr. Robot merita, per quanto sono bravi Rami Malek e Christian Slater, per il cameo di Alf, per White Rose. Speriamo che nella terza stagione la poliziotta con un po’ di sindrome di Tourette non si prenda troppo spazio. [V. R.]

 

 

Silicon Valley — Definitiva. Dai personaggi più centrali – Jack Barker, amministratore delegato nemesi di Richard, nonché inventore dell’infallibile triangolo del successo – a quelli minori o minuscoli – Jian-Yang o l’addetto del centro di archiviazione che porta Richard, Gilfoyle e Dinesh a vedere dove sarà posizionata la loro “scatola”, per non parlare dei protagonisti: tutti splendidamente a fuoco nelle loro idiosincrasie (Richard più di tutti in questa stagione, decisamente anti-eroico sia quando vince che quando perde, uno che avrebbe spiazzato perfino Donna di Halt and Catch Fire a suon di tic e perfezionismo). Il personaggio cuore resta sempre Jared: “Well, people do create imaginary friends to meet their emotional needs. When I was little, I used to pretend that I shared a room with Harriet Tubman and we were always planning our big escape”.

Come nelle precedenti, anche al termine della terza stagione questo ensemble di disagio e genialità riesce solo a non affogare: Pied Piper viene salvata, torna ad essere la start-up più figa che c’è in giro, è vero: ma in potenza non in atto. E forse è questa linea d’ombra in cui restano sempre i personaggi, protetti dall’adultezza di un lavoro vero – uno di quelli proprio senza glamour – anche se già un po’ adulti, che rende Silicon Valley la nerd comedy dell’anno. [V. R.]

 

 

Tre serie tv sul fallimento

 

Happy Valley — Il miglior crime drama targato UK. Sarah Lancashire, poliziotta testarda alle prese con una provincia agonizzante, ha una faccia che riassume una vita intera, in perenne bilico fra soprusi, fallimenti e devastazioni sentimentali. Tra le sue rughe, i mezzi sorrisi, i sospiri a mezz’aria, le incazzature, i pianti infiniti, riconosciamo un’essenza tutta primitiva, da donna invincibile, che fallisce e ti colpisce, che vince e ritorna da te e, prima di abbracciarti, ti stritola. [F. P.]

 

 

Narcos — Torna Pablito, con il baffo importante e lo sguardo cattivo. L’avevamo lasciato nel bel mezzo di un’evasione. Lo ritroviamo in fuga, latitante, più solo e triste (ma con dei maglioncini fantastici), con il potere che gli si sgretola tra le mani e il sogno (diventare presidente, essere amato) che sfuma e si fa fantasticheria. Se la prima stagione aveva seguito in modo impeccabile il paradigma dell’ascesa tipica del gangster movie, con la seconda stagione la caduta è affrontata con il piglio introspettivo che non ti aspetti. Tanti silenzi, tanta solitudine e la lenta discesa verso l’epilogo che tutti conosciamo (primo e unico caso in cui dello spoiler ce ne frega davvero poco). Cosa ci riserverà il futuro? Reggerà la terza stagione senza lo sguardo truce/triste (e la barriga y el bigote) del monumentale Wagner Moura? [S. I.]

 

 

Better Call Saul — L’anno scorso cercavo di ammaliarvi raccontando dell’esasperante e simbolica lentezza di Better Call Saul. La seconda stagione va oltre, e ci consegna un Saul Goodman che, oltre a fallire sul piano lavorativo, fallisce su quello affettivo – la discesa è più ripida del previsto, il declino è già vicino, è una lentezza trattenuta, nessun successo in vista. Ma la luce, come la salvezza, è lontana e ha sempre bisogno di un avvocato. [F. P.]

 

 

Tre serie tv sulla famiglia (anche se fanno finta di no)

 

The Americans — La stagione della stanchezza e dei grandi addii (leggi pure morti in alcuni casi). Per la prima volta dall’inizio di questa serie, la famiglia Jeggins è minacciata da un pericolo alla sua altezza: se stessa. Come in un risveglio intermittente o in un corpo putrescente, il dubbio si accende e si spegne in continuazione. Allora Philip ricorda quando ha ucciso per la prima volta e Elizabeth non sa spiegare a sua figlia cosa significhi davvero credere in un ideale più grande, lui non riesce più a mentire a Martha mentre lei perde il controllo non una ma due volte (Elizabeth non perde il controllo, mai), Paige tenta di smarcarsi dal disegno che i suoi genitori stanno tratteggiando per lei e i suoi genitori tentano di smarcarsi dal disegno che il Centro ha tratteggiato per loro. È come se le regole che fino a quel momento sembravano piene di senso, si fossero svuotate all’improvviso: gli involucri rimasti si afflosciano. Serve una vacanza. O forse serve un nuovo senso, perché l’ideale non regge più e la realtà non è ancora abbastanza (ma è sufficiente cambiare prospettiva e tutto si ribalta: così per William, l’agente cinico e pazzerello delle fiale di morva, per cui sono i Jeggins a rappresentare l’ideale cui non giungerà mai). Perla assoluta della stagione (se escludiamo i travestimenti): un lacrime e coraggio Oleg, magnifico mentre cerca di tenere insieme i pezzi della sua vita, della Rezidentura, di Nina e della sua famiglia. Un uomo, un cappotto. [V. R.]

 

 

House of Cards — Non si capisce com’è che facciano ad alzare la posta in gioco e a produrre stagioni la cui qualità cresce in modo esponenziale. Claire ha mantenuto la promessa dell’ultima puntata della passata stagione: personaggio potentissimo. C’è spazio pure per il poliamore, uno dei temi caldi dell’anno: il fermo immagine della colazione a tre (Frank, Clair, Tom Yates) vale più di un longform sull’argomento. [S. I.]

 

 

Bloodline — We’re not bad people, but we did a bad thing, così recitava la tagline della prima stagione. Di questa seconda potrebbe abbozzare qualcosa del tipo: siamo delle persone cattive, ma non siamo ancora capaci di fare qualcosa di cattivo. La terza (e ultima, finalmente una serie tv che si dà un termine e non allunga la minestra) sarà quella della resa dei conti. Come se Roman Polanski si fosse preso la briga di girare Dallas. [F. P.]

 

Una serie tv invecchiata bene

 

Transparent — Ci sono due modi per sensibilizzare il pubblico su qualcosa: puntando il dito sui protagonisti, puntando il dito sul pubblico. È un po’ la differenza tra opere etiche e moraliste. Transparent si conferma serie tv etica. Basta pensare a quanto certi pregiudizi che combatte, per esempio l’equazione trans=prostituta, siano vivi nei suoi protagonisti: in Josh, per il modo in cui tratta Shea nel sesto episodio; e addirittura in suo padre/moppa/madre nel primo, quando, cercando Eliza, una trans dai capelli verdi, chiede a tre trans in un supermercato: «Magari l’avete vista… per strada…», e si sente rispondere: «Io studio, loro stanno per diventare infermiere.» [O. V.]

 

Una serie tv invecchiata male

 

Black Mirror — Che la si ami o la si odi, è una delle serie tv più affascinanti in circolazione. Ma per alcuni di quelli che l’amavano, con l’ultima stagione – trasmessa non più su Channel 4 ma su Netflix – la magia sembra essersi un po’ incrinata: «I social e le nuove tecnologie possono renderci molto più mostruosi di quanto non siamo già, ok, l’abbiamo capito, non potreste almeno raccontarcelo in una maniera meno didascalica e scontata?» chiederebbero molto volentieri a Charlie Brooker & Co. [O. V.]

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