Abbiamo intervistato Anna Bonaiuto, interprete dell’ultimo intenso monologo nello spettacolo “Le Serve” di Jean Genet, portato in scena da Giovanni Anfuso.
«Gridate pure, se vi va! Lanciate magari il vostro ultimo grido, Signora! Finalmente! La Signora è morta! Stesa sul linoleum… strangolata dai guanti per lavare i piatti. La Signora può restare seduta! La Signora può chiamarmi Signorina Solange. Proprio così. È in virtù di quanto ho fatto. La Signora e il Signore mi chiameranno Solange Lemercier…»
Sono le battute finali de Le Serve (Les bonnes), atto unico di Jean Genet scritto nel 1946 e portato per la prima volta in scena nell’aprile del ‘47 al Théâtre de l’Athénée per la regia di Louis Jouvet con Monique Mélinand, Yvette Etiévant e Yolande Laffon. Il primo allestimento italiano, regia di Lucio Chiavarelli, fu a Roma nel 1956. In questi giorni Le serve è stato portato in scena nella bella e fedele lettura del regista catanese Giovanni Anfuso.
Con il monologo finale Solange spinge la sorella Claire all’ennesimo gioco di immedesimazione. La scena è nella casa della Signora (interpretata da Vanessa Gravina), classico interno di una borghesia francese stanca, irriverente, poco attraente. Il gioco stavolta finisce male e su Claire, distesa provocatoriamente sopra il letto della sua datrice di lavoro, piovono fiori di morte.
Poco prima Solange, tra il delirio, la concitazione e l’esaltazione, aveva rivelato tutti i suoi ruoli: Solange in carne e ossa, la Signora che, in anticipo rispetto alla scena, compiange Claire morta, ancora Solange frustrata per la sua condizione di serva, l’assassina che va incontro al crimine (altra premonizione).
«Sono pallida e m’appresto a morire. Quanti fiori! Le hanno fatto un bel funerale, vero? Oh, Claire, povera mia Claire! Inutile, Signora, obbedisco alla polizia. Questa soltanto mi capisce. Fa anch’essa parte del mondo dei reprobi. Eccoci ora Signorina Solange Lemercier. Una tal Lemercier, La Lemercier. La famosa criminale. Claire, siamo perdute…».
Abbiamo intervistato Anna Bonaiuto, che nello spettacolo interpreta con grande maestria, Solange Lemercier, la serva protagonista dell’ultimo intenso monologo prima del finale tragico.
Traendo ispirazione da un fatto di cronaca accaduto nel 1933 a Les Mans — l’uccisione di una madre e una figlia da parte di due donne di servizio — Le serve è un lavoro che non indaga tanto l’efferatezza del crimine, quanto i meccanismi psicologici che tengono in piedi la relazione tra servo e padrone. Quali sono, secondo lei, i punti di forza, le caratteristiche emotivamente più trascinanti che l’hanno convinta a recitare in questo dramma?
Penso innanzitutto che sia il più bel testo di Genet. Ha una grande forza teatrale perché, rispetto ad altri testi un po’ più nebulosi e complicati, è più chiaro, lineare. Quindi anche per questo motivo ha un impatto molto forte quando lo si fa. Le serve è anche uno spettacolo che permette un grande gioco fra gli attori, che poi è l’aspetto che a me interessa di più del fare teatro. Nel nostro caso, soprattutto fra me e Manuela Mandracchia (che nello spettacolo è Claire, l’altra sorella, ndc), è un gioco continuo anche metateatrale perché spesso una sorella imita la padrona e l’altra sorella imita l’altra sorella, in un gioco di teatro nel teatro molto interessante.
Come tutti i lavori del drammaturgo francese, anche Le serve è un omaggio a un “tipo” sociale e a delle dinamiche ben precise.
Certo, il tema degli ultimi, esseri umani senza risorse, senza cultura e senza soldi che vivono una vita di immaginazione. È un tema molto caro a Genet e che anche qui trova ampio spazio. I servi esistono perché esistono i padroni, sono un prodotto della contrapposizione con l’altro, dunque la loro è una vita priva di identità. Le serve, la vita se la devono inventare, ma è una vita dentro una prigione perché per loro non esiste un altrove. Il teatro in un certo senso le salva, ma solo in apparenza perché in questo gioco di travestimento continuo si cerca la vita, solo che alla fine non riescono a trovarla. Per gli ultimi di Genet generalmente non c’è riscatto.
Nello spettacolo lei interpreta Solange, la sorella in apparenza più controllata e razionale, che alla fine però è assolutamente partecipe del perverso gioco di Claire. Che lavoro ha fatto per restituire l’essenza del personaggio?
Il lavoro sul personaggio è sempre lo stesso: fare qualcosa che sia diverso da se stessi, entrando però dentro a dei meccanismi sia di conoscenza, razionali, che in atto. Il teatro si fonda sulla relazione che l’attore instaura con il personaggio, quindi anche da questo punto di vista il teatro è un gioco. Le due sorelle delle Serve sono diverse ma anche intercambiabili. Solange è la più adulta e anche la più lucida e sicura di se, ma solo in apparenza perché in realtà nasconde delle fragilità e delle paure enormi. Claire è la più tenera, la più spaventata, e alla fine è quella che prende la decisione ultima. Quindi non è che le due sorelle abbiano dei caratteri definiti e fissi. Essenzialmente sono due povere anime che si battono per essere salvate, due uccelli in gabbia che alla fine non possono che restare in trappola.
Abbandoniamo Genet ma restiamo su personaggi femminili. Recentemente ha interpretato Clitennestra, altro personaggio emotivamente e storicamente dirompente. Passata alla storia come il prototipo della donna infame, il mostro che commette l’orrendo delitto di uccidere lo sposo appena tornato dalla guerra, nel mito però Agamennone le sottrae il bambino che stringe al seno prima di scagliarlo contro una pietra. Clitennestra è dunque anche vittima di una violenza inaudita, la perdita del figlio, ed è costretta a divenire moglie dell’assassino di suo marito (Tantalo) e di suo figlio. Pensa che il desiderio di vendetta, la vendetta stessa possa attenuare il dolore?
No, non credo. Penso che il desiderio di vendetta esista e la sua attuazione sia peggiore del motivo che lo muove. La vendetta c’è, esiste e spesso è un desiderio fortissimo, ma non la vedo come uno strumento per raggiungere la felicità.
Secondo lei, oggi nel rapporto uomo-donna c’è ancora traccia della violenza che muove la mano di Clitennestra?
Sì, perché la violenza intesa come violenza di sangue è connaturata all’essere umano. Ma la violenza non è solo violenza di sangue, è anche qualcos’altro. Una società che si dice giusta e ti spinge a dire e a fare cose socialmente accettate e condivise: ecco, anche questa è una forma di violenza. La violenza è anche nel convincimento e, spesso, nella semplice parola. Le parole possono essere una forma di violenza.
Nella rilettura del mito di Clitennestra da parte di Dacia Maraini, la follia corrisponde all’incapacità di adattarsi al mondo. Che ne pensa?
Folle è chi non riesce ad entrare in contatto con la realtà, restandone al di fuori. E il cuore della follia è proprio questa: se tutti noi riuscissimo ad adeguarci alla realtà, verbalmente, con il pensiero e con l’attitudine, nessuno uscirebbe di senno. La verità però è che siamo tutti dei folli potenziali. Semplicemente rimuoviamo tante cose per poter vivere più sereni.
Può una relazione amorosa essere talmente totalizzante da diventare una gabbia?
Tutto può diventare una gabbia. Molte relazioni si basano sull’illusorietà, si reggono su terreni fragili, sabbie mobili che possono dare seguito a situazioni molto diverse fra loro. Dipende dal carattere delle persone, dalla capacità di mediare. In realtà credo che l’amore sia una cosa abbastanza anomala che, per convenzione, si tende a normalizzare.
In un’intervista sul web racconta che da piccola suo padre le leggeva dei libri ma che, per altri versi, il vostro non fu un rapporto solamente idilliaco. Quando si diventa più adulti, sotto quale prospettiva si ripensa al proprio rapporto con i genitori? Cambia il modo di vedere quella relazione?
Certo che cambia, altrimenti saremmo delle capre. Con l’età, l’essere umano è destinato a modificarsi e a cambiare, soprattutto in termini di comprensione. Almeno questa è la speranza. A cosa servirebbe d’altronde vivere se non a capire un po’ meglio come stanno alcune cose, ad essere meno drastici e a capire un po’ di più le motivazioni degli altri?
Cosa significa per lei fare teatro? Qual è il compito principale del teatro: educare, divertire, emozionare?
La funzione dell’arte è quella di aprire la mente e il cuore delle persone. Senza arte non si vive, è impossibile. Ovviamente ognuno è diverso dagli altri e riceve, accoglie le sollecitazioni che vengono da fuori in modo diverso. Uno spettacolo che a me lascia totalmente fredda, a qualcun altro può far impazzire. Dipende dalla nostra ricezione, da cosa vogliamo. Anche se, alla fine, nell’arte cerchiamo sempre noi stessi. Il tema dell’arte è il tema del destino dell’uomo, ognuno riceve ciò che in un certo senso “deve” ricevere.
Per un attore è più importante la testa, il cuore o il corpo?
Sono assolutamente intrecciati. Non penso che esista l’anima, penso che esista una totalità dell’essere che è fatta di tante cose. Un attore è il concentrato della sua vita, delle proprie esperienze, sia reali che conoscitive. Tutto ciò che si è visto, che si è letto, che si è osservato, tutto ciò che si è introiettato nel corso della propria esistenza rimane dentro e poi viene usato per diventare espressione artistica. Credo che per un attore sia fondamentale essere intelligente, saper capire e analizzare. Ciò che fa il teatro è il sentire, l’empatia, il sapere entrare dentro il personaggio che si sta facendo per poi comunicarlo attraverso l’emozione. Certo, esiste la tecnica, l’intelligenza, il corpo, che sono importanti, ma in definitiva è tutto un insieme, un intreccio indissolubile.
Lessico famigliare e Caro Michele di Natalia Ginzburg, L’uomo dagli occhiali di Elsa Morante, Tre camere a Manhattan di Georges Simenon, L’educazione sentimentale di Gustave Flaubert, L’amica geniale di Elena Ferrante: le sue letture per la trasmissione di Radio 3 Ad alta voce sono un condensato di calore, equilibrio e intensità. Che effetto le fa leggere per il pubblico ad alta voce?
Mi piace molto perché capisco che è un’esigenza delle persone, dovuta in parte al fatto che ormai si è molto disabituati alla lettura. Se entri nel senso del libro e riesci a restituirlo senza interpretazione, il pubblico sarà molto felice e apprezzerà. L’essere umano nasce raccontando una storia a un altro essere umano: il racconto è l’origine, l’inizio di tutto. Quindi la lettura ad alta voce è un po’ un ritorno all’origine.
Cosa ne pensa dell’attuale condizione del teatro italiano?
Penso che in questo momento il teatro italiana sia totalmente agonizzante. Se ne è perso il senso. Ormai il teatro è visto solo come un mezzo per evadere, e questo è il contrario dell’arte. L’obiettivo dell’arte non è l’evasione ma, semmai, l’invasione. Quando il teatro diventa schiavo del mercato, schiavo delle cose facili, schiavo dei teatri pieni a tutti i costi, è naturale che poi si sia disposti a vedere e fare qualsiasi cosa. Diciamo che in questo momento in giro c’è più il brutto che il bello, più l’inganno che la verità.
Da quello che ho potuto capire indagando un po’ sul web, lei non è molto presente sui social network. Perché questa scelta? Cosa ne pensa della tecnologia e di Internet in particolare?
La tecnologia non è cattiva per definizione ma non mi interessa quel tipo di relazione, mi complica la vita, non mi piace. Uso la tecnologia per quello che mi può servire ma lì dentro credo ci sia ben poco di vero, c’è troppa confusione, troppa superficialità. Quando qualcosa diventa di massa, ognuno la usa secondo il proprio essere, quindi in definitiva dipende da chi la usa.
Crede in dio?
Noooo… (risata, per la quale subito si scusa, ndc).
Cosa consiglia ai giovani che intendono avvicinarsi al teatro, magari per farne nel futuro la loro professione?
Dipende da cosa vogliono. Non penso che i giovani siano tutti uguali. C’è molta confusione anche nei loro desideri. Nove ragazzi su dieci vogliono fare gli attori, solo che ognuno di loro ha un’idea diversa su cosa significhi fare l’attore. Oggi purtroppo fare l’attore significa tutto, attore è chiunque compare, apre la bocca ed emette dei suoni. Fare l’attore è un lavoro durissimo, faticoso, di ricerca, studio, cultura, curiosità; ha davvero poco a che fare con quello che si vede oggi in giro.
Che libro sta leggendo in questo momento?
Sto leggendo Amos Oz e mi sta piacendo molto. I racconti di Lucia Berlin è invece l’ultima cosa che ho finito di leggere.
Progetti futuri?
Adesso devo fare uno spettacolo su Sarah Bernhardt, un altro lavoro in cui si parla di teatro, un’attrice e questo suo amore per il teatro che più che altro è un’ossessione. Per quanto riguarda il cinema, sto lavorando su alcuni progetti ma non ne parlo perché, si sa, il cinema è sempre un settore nel quale si rimanda in continuazione e non c’è nulla di certo.
Illustrazione a cura di Angelo Montanari