«Il mio è un teatro di denuncia, l’unico teatro possibile» | Intervista con Ulderico Pesce
Sul finire dei suoi primi dieci anni, qui compiamo una piccola rivoluzione, abbandonando il nostro formato classico – quello del magazine culturale a cadenza vagamente quotidiana – per presentare ogni mese un solo saggio e un solo racconto. Da queste pagine 24 autori ogni anno proporranno il loro filtro sul reale, manipolando inevitabilmente la personalità di Dude mag: ed è una cosa che ci rende enormemente curiosi.
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«Il mio è un teatro di denuncia, l’unico teatro possibile» | Intervista con Ulderico Pesce

In questi giorni l’autore lucano sta riproponendo nei teatri italiani “Asso di monnezza”, incentrato sugli affari illeciti che ruotano attorno allo smaltimento dei rifiuti. Lo abbiamo raggiunto telefonicamente e ne è venuta fuori una lunga chiacchierata.

San Paolo Albanese è il comune più piccolo della Basilicata: 280 abitanti adagiati sul fianco del monte Carnara tra fitti boschi, prati di banxhurne (peonie peregrine, rarissime), pecore al pascolo e vicoli di pietra millenari. Qui vive Ulderico Biagio Franco Pesce, Ulderico per gli amici, fra gli autori più originali e scomodi del panorama teatrale italiano. Sempre qui, nel cuore antico del parco nazionale del Pollino, l’autore lucano classe ’63 dirige il Centro per la Creatività Val Sarmento, presidio culturale permanente infarcito di tradizioni greco-bizantine e arbëreshë, le popolazioni albanesi che in questi luoghi si insediarono a partire dal ‘400 per sfuggire alla minaccia turca. L’autore di lavori come Asso di monnezza, FIATo sul collo, A come…amianto, Storie di scorie e Il triangolo degli schiavi (giusto per citarne alcuni) oggi vive in pianta stabile nella sua terra, in campagna, ulivi e pecore tutto intorno, comunque lontano dal caos di una Roma che lo ha ospitato per tanti anni. «Ho comunque una casa a San Lorenzo, dove ho abitato per tanto tempo. A volte torno per ragioni di lavoro, o anche più semplicemente quando sento il desiderio di avere la grande città attorno».

Ultimamente deve succedergli molto meno, di desiderare la grande città ma per uno come Pesce, dei trascorsi artistici che gli hanno dato la possibilità di conoscere e lavorare con gente come Giorgio Albertazzi, Carmelo Bene, Anatolij Vassil’ev, Luca Ronconi e Gabriele Lavia, un percorso formativo che lo ha visto diplomarsi attore all’Istituto del Dramma Antico di Siracusa, poi regista all’Accademia d’Arte Drammatica di Mosca, una laurea  in Lettere moderne, indirizzo Musica e Spettacolo alla Sapienza di Roma (110 e lode); ecco, a uno con il curriculum di Ulderico Pesce, malgrado una certa attitudine localista e identitaria, la definizione di “artista globale” finisce per calzare in modo più appropriato.

In questi giorni l’autore lucano sta riproponendo nei teatri italiani (recentemente Roma e Civitavecchia) uno dei cavalli di battaglia, Asso di monnezza, spettacolo duro, vero, incentrato sugli affari illeciti che ruotano attorno allo smaltimento dei rifiuti. Lo abbiamo raggiunto telefonicamente e ne è venuta fuori una lunga e cordiale chiacchierata.

 

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Cominciamo da Asso di Monnezza: di cosa parla lo spettacolo?

«Parla di territori che sono teatro di disastri ambientali. Malagrotta, Casal di Principe, Casale Monferrato, Taranto, Crotone, Cremona, Valle del Sacco, il Lambro. Luoghi violentati, capoluoghi di crimini efferati, territori lontani ma intimamente legati da un destino nefasto. In Asso di monnezza racconto una verità: la monnezza è diventata un business e attorno alle discariche, spesso abusive, si annida un universo fatto di interessi e, ovviamente, soldi, tanti soldi».

Per raccontare queste storie – storie di soprusi, di ingiustizie, di un lavoro che non nobilita nessuno ma, spesso, uccide – ci vuole la passione di un uomo che sa stare sul palcoscenico da solo, convinto che una rivoluzione, culturale prima che politica, possa partire dalle mura di un teatro e andare a contaminare la società come un virus benigno: una rivoluzione di verità e coscienza. Come descrive il suo modo di fare teatro?

«Il mio è un teatro di denuncia e credo che questo sia l’unico teatro possibile. Il resto o è intrattenimento, quindi un’arma di distrazione di massa, oppure un teatro sperimentale che non vuol dire un cazzo e che trova il favore della solita cerchia di critici compiacenti il cui unico scopo è quello di dare un senso a ciò che un senso non ha. Poi ci sono quelli che mettono su gli spettacoli soltanto per prendere i finanziamenti del ministero. Ma la sostanza non cambia. Purtroppo oggi il teatro in Italia è morto. Anche in questo ambiente c’è clientelismo, favori, scarsa qualità e malaffare. Sono davvero in pochi quelli che possono fregiarsi del titolo di artisti veri di teatro. Il mio teatro, quello di impegno civile, è l’unico teatro possibile al giorno d’oggi, un teatro in grado di creare, attraverso le emozioni e la riflessione, un cortocircuito e smuovere le coscienze».

Come valuta invece il teatro di intrattenimento?

«Dal mio punto di vista il teatro deve servire a reagire, può essere usato per cambiare la società. Personalmente non ho mai creduto in un teatro che intrattenga. L’intrattenimento è totalmente al servizio delle politiche distruttive dello Stato. “Io ti intrattengo per non farti ragionare sulle cose che contano. Ti intrattengo per fregarti”. Io credo esclusivamente nell’informazione. Informare, informarsi, reagire».

Un registro che si piazza a metà strada tra narrazione e cronaca giornalistica. Quello di Pesce è un teatro dell’informazione che sa emozionare, dello stacco emotivo che informa formando. La brillantezza dell’attore si fonde alla perfezione con la forza dei numeri, delle statistiche, dei nomi (dei cognomi) di chi commette i reati. Una miscela appassionata e appassionante di rabbia e ironia. Perché sì – e questo è uno dei messaggi più dirompenti di Pesce – nel dramma bisogna saper sorridere. Cadi, sorridi, rialzati, sorridi ancora, reagisci.

Come definisce il suo teatro? È giornalismo? Può essere assimilato al lavoro giornalistico? Come sta il giornalismo oggi in Italia?

«Il mio è un teatro di informazione ed emozione. Non sono un giornalista anche se quando faccio uno spettacolo sono solito documentarmi molto bene affinché quella che passi sia un’informazione più accurata possibile. Se si considera il mio teatro come un mezzo per mettere in allerta e svegliare le coscienze allora sì, il mio teatro può essere assimilato un certo giornalismo d’inchiesta. Però, ripeto, non sono un giornalista ma un artista. Il 99% dei mezzi di informazione che abbiamo oggi in Italia sono in mano ai poteri forti, ai grandi potentati economici e ai maggiori centri di potere. Come fa un giornalismo del genere – penso a giornali come Corriere della Sera, Repubblica, Stampa, Giornale, Messaggero – rendere un servizio utile al cittadino-lettore?».

Quando ha capito che il teatro sarebbe stato tutta la sua vita? Ci sono stati dei momenti specifici che hanno rappresentato una presa di coscienza?

«Sono due gli episodi che associo al maturare della mia passione per il teatro. Il primo è legato a mio nonno. Faceva l’arrotino. Girava per i paesi della Basilicata, della Calabria, della Puglia e di parte della Campania. “Ammolava” coltelli e mentre era impegnato in questa attività raccontava storie di anarchici, antifascisti, operai, braccianti e altro. Ho seguito mio nonno nell’infanzia e mi ricordo che si piazzava davanti alle macellerie e parlava, parlava, parlava. Il tono era forte e tutti stavano lì ad ascoltare. Raccontava le cose che vedeva o quelle che suo padre gli aveva raccontato. Era buono, onesto, simpatico. Era socialista. L’altro episodio che collego all’amore che poi ebbi per il teatro risale anch’esso alla mia infanzia. Ero qui dove sono ora, a San Paolo Albanese, e vidi il montaggio di un sipario. Ricordo molto bene che fui colpito da questa stoffa pesante rossa assicurata al palco con del fil di ferro attorcigliato tutto attorno. Ho questa immagine fissa nella mente e una sensazione di mistero ammaliante. Ricordo di aver fatto resistenza a chi mi voleva portar via da quella scena. Penso sia stato il primo contatto, magico, con ciò che è l’essenza del teatro».

Lei fa un teatro per smuovere le coscienze, svegliare il dormiente, un teatro di impegno civile che dovrebbe avere come primo pubblico i giovani. Ragionando sui grandi numeri, come si spiega il calo d’interesse, la disaffezione, lo scollamento nei confronti dell’esperienza teatrale. Perché i giovani non vanno più a teatro?

«Quando mi si chiede perché i giovani non vadano più a teatro, rispondo con un’altra domanda: non sarà forse che il teatro non è capace di attirare i giovani? Il problema è a monte e la risposta è che il teatro, inteso come laboratorio dove si fa informazione e cultura, è morto. Ma il discorso è più ampio. Culturalmente l’Italia è un paese finito. Cosa abbiamo prodotto dopo Pasolini? Niente! Dal ’78, dalla morte di Moro, la fine del compromesso storico, l’Italia non è stata più in grado di rinnovarsi, crescere, cambiare. Questo è valso per tutto, dalla politica alla scuola, dall’editoria al cinema alla letteratura Ovviamente il teatro non fa eccezione. Oggi il teatro è morto, fa schifo. Quindi per tornare alla domanda sui giovani, dico che è meglio così, che i giovani non vadano a teatro. Il teatro di denuncia è ovviamente un’eccezione».

Lei non è uno che non le manda a dire. Nel corso dei suoi spettacoli fa spesso nomi e cognomi: le capita mai di avere paura per la sua incolumità?

«Paura nel senso letterale del termine no. Certo, mi hanno rotto due macchine, hanno bruciato un mio campo di ulivi, sono stato messo sotto sorveglianza armata per un anno, la Digos viene a filmare i miei spettacoli. A parte questo…(ride), tutto ok».

Obiettivo della sua denuncia è l’illegalità, che essenzialmente è un comportamento umano. Come si pone invece di fronte a un’ingiustizia come il terremoto e altri disastri naturali?

«Vengo da una terra, la Basilicata, che storicamente ha sempre tremato. Ho vissuto i terremoti dell’’80 e del ’98, sono cresciuto con la certezza che non esiste stabilità. La terra è dinamica per definizione. Il terremoto fa parte del dna italiano. È un dato di fatto. Vedere la distruzione ad Amatrice è stato terribile ma quello che fa più arrabbiare è l’atteggiamento di chi sul terremoto vuole lucrare. Dovremmo affidare la ricostruzione ai giapponesi, oppure ai tedeschi, sono sicuro che un tedesco o un giapponese sia molto più affidabile di noi italiani, che non siamo capaci di gestire le emergenze, le ricostruzioni».

Il Sud, gli Appennini, le isole, alcune aree alpine di montagna. Che ne pensa della fuga da particolari zone del nostro stivale? Auspica un ritorno nei piccoli centri?

«Vivo nel comune più piccolo della Basilicata, San Paolo Albanese, 10 abitanti a chilometro quadrato, e penso che tutti i piccoli centri siano realtà dove c’è più libertà, più movimento, più capacità critica. È nei piccoli centri, nei paesi e nelle zone lontane dalle rotte principali che può proliferare il germe del rinnovamento. Certamente auspico un ripopolamento dei centri del Sud e dell’Appennino, un ritorno che sia però virtuoso, che abbia un senso, un significato, e che non scada nella solita dinamica italiana in cui tutto viene fatto per arricchire qualcuno a scapito di altri. Da questo punto di vista penso che i profughi e i richiedenti asilo che fuggono dalla morte e dalle guerre rappresentino per l’Italia una possibilità di arricchimento».

Parla spesso di Basilicata immateriale, beni immateriali. A cosa si riferisce esattamente quando usa questa espressione?

«Sono i valori, le tradizioni, le abitudini di una volta. Da qui bisogna ripartire, è l’unica alternativa possibile. La ricchezza dei popoli non è nei giacimenti petroliferi ma in quel sistema di idee che tutte le genti hanno, che vanno riscoperte, tramandate, valorizzate e tenute in vita. L’Italia da questo punto di vista è un paradiso di particolarismi sul quale dovremmo costruire un certo tipo di discorso legato al turismo. Ci sono tedeschi, danesi, inglesi, francesi e russi che muoiono dalla voglia di assaggiare cibi genuini e fatti in casa, ascoltare i nostri canti popolari, godere dei monumenti, architettonici e naturali, dei posti fuori dagli itinerari classici e di massa. Dobbiamo essere bravi a valorizzare questo tipo di turismo anche se, ripeto, gli italiani mi mettono tanta paura perché spesso riescono a fare male anche le cose belle».

 

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In Moro: i 55 giorni che cambiarono l’Italia ricostruisce una delle pagine più tristi della nostra storia. Un lavoro forte e come sempre molto documentato, anche grazie alle testimonianze del giudice titolare dei primi processi sul caso, Ferdinando Imposimato. Oggi in Italia ha ancora senso parlare di terrorismo? Il terrorismo islamico cosa ha in comune con quel terrorismo che abbiamo conosciuto noi?

«Da bambino e da ragazzo il terrorismo della prima ora, quello di Renato Curcio per intenderci, costituiva un impianto di idee che innegabilmente esercitava su di me un certo fascino. È indubbio però che poi, con il passare degli anni, penso alle fasi dei vari Moretti, Lojacono, Bonisoli, Gallinari, Maccari, Balzerani e Casimirri, il terrorismo della prima ora si sia trasformato in qualcosa di diverso, avvicinandosi sempre di più ai servizi segreti e all’eversione di destra. Oggi in Italia il terrorismo di matrice politica non esiste più, sono cambiate tante cose, magari assume altre forme ma non hanno la carica ideologica e rivoluzionaria di allora. Il terrorismo internazionale, quello che i media descrivono come terrorismo islamico, non penso abbia una matrice politica o religiosa. C’è la violenza, certo, ma spesso sono gli apparati statali a foraggiare alcune dinamiche per distogliere l’attenzione, confondere, insomma fregarci. Ferma la condanna per qualsiasi gesto che attenti alla vita di chiunque, ritengo che alla radice del “terrorismo” di oggi ci siano motivi essenzialmente legati ai soldi e ai soliti deprecabili interessi egoistici».

Vede nel Movimento 5 Stelle un vero soggetto di opposizione e di rottura? C’è una critica produttiva, creatrice nella sua azione politica?

«Un Movimento che si affida in un modo così acritico e totale al web non potrà mai godere della mia fiducia. Riconosco il potenziale e il valore intrinseco della tecnologia e di Internet, ma quando la rete diventa l’unico riferimento, l’unica piazza “reale”, allora c’è qualcosa che non va. Nonostante i recenti tentativi di ammorbidire questa linea, il Movimento 5 Stelle bypassa totalmente il territorio e a me questa cosa non convince. Gli intenti sono condivisibili, non tutti, ma io sono più legato all’idea di una sezione che apre le porte alle persone, dove ci si guarda negli occhi per assumere le decisioni».

All’inizio degli anni Novanta ha vissuto in Russia, dove seguì l’Accademia di Arte Drammatica per prendere il diploma di regista teatrale. Cosa ricorda di quegli anni e cosa le hanno lasciato?

«Fu un’esperienza fondamentale per il mio percorso di crescita e maturazione professionale. Rimasi a Mosca tre anni, tra il 1990 e il 1993. Erano gli anni della fine del comunismo. Di quel periodo, di quella città, di quei luoghi ricordo l’atmosfera di tensione e umanità allo stesso tempo. C’era violenza ma anche un grande senso di forza e dignità. Ricordo un giorno in cui stavo pranzando in una mensa popolare. Il mio sguardo rimase colpito da un uomo che passava per i tavoli a raccogliere gli avanzi lasciati dagli altri avventori. Alla fine aveva rimediato un piatto di ossa di pollo, che stava rosicchiando. Mi avvicinai e gli chiesi se potevo offrirgli un piatto di pollo. Si offese tantissimo e rifiutò in modo categorico. Voleva mangiare le sue ossa, non aveva bisogno del mio aiuto. In Russia in quegli anni imparai una cosa fondamentale per il lavoro in teatro: l’importanza delle proprie radici e della propria identità».

Quali sono, se ne ha, i suoi riferimenti musicali?

«Amo la musica etnica e popolare, non solo italiana. È difficile dire quali siano i miei riferimenti musicali. Mi vengono in mente artisti come Enzo Del Re, Giuseppe Salamone e Leonardo Riccardi. Musicisti e autori fenomenali ma che però non sono molto conosciuti. Oltre loro, ascolto ovviamente musica arbëreshë, greco-bizantina, i canti dei monaci. E Bach, adoro i Concerti brandeburghesi».

E quelli letterari?

«Dostoevskij, Cechov, Pasolini, Fenoglio, Bassani, Ginzburg. Leggo molto, nei grandi romanzi c’è tutto l’essere umano. In generale penso però che la produzione letteraria italiana che va dagli anni Sessanta ai Settanta sia rimasta insuperata quanto a forza espressiva e narrativa».

Vincenzo Sori
Vincenzo Sori nasce a Roma nel 1982, dove si laurea in Relazioni Internazionali. Appassionato di letteratura, musica e arte in genere, dal 2008 collabora con Il Messaggero e altre riviste. Giornalista professionista, prova come meglio può a raccontare quello che gli capita attorno e nella testa. Con risultati in questo secondo caso tra il catastrofico e il grottesco.
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