“Soul” è un film scorretto dall’inizio alla fine
Sul finire dei suoi primi dieci anni, qui compiamo una piccola rivoluzione, abbandonando il nostro formato classico – quello del magazine culturale a cadenza vagamente quotidiana – per presentare ogni mese un solo saggio e un solo racconto. Da queste pagine 24 autori ogni anno proporranno il loro filtro sul reale, manipolando inevitabilmente la personalità di Dude mag: ed è una cosa che ci rende enormemente curiosi.
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“Soul” è un film scorretto dall’inizio alla fine

Un cartone animato che prova a risultare virtuoso ovunque, fallendo però sui fronti più delicati ed importanti.

Soul è stato ovunque nelle ultime settimane. Il mio feed online, la mia bolla, composta per la maggior parte da persone devote alla musica in un modo o nell’altro, è diventata monotematica per giorni. Succede ormai sempre più sistematicamente con prodotti culturali di questa portata, che “assorbono” o toccano sfere tematiche più meno sensibili e le rielaborano in chiave pop. Un’attitudine critica cannibale, piatta, che consuma un argomento in poche settimane o addirittura giorni vomitando una quantità bulimica di contenuti di ogni tipo, tutti contemporaneamente (articoli, discussioni online, video, recensioni, chi ne ha più ne metta) per poi relegare tutto subito nel dimenticatoio. Pronti per la prossima vittima, schiumanti bava e con le dita pronte su mouse e tastiera. È incredibile che a questo sistema, a elaborare un’opinione in un quarto d’ora, si siano adeguati praticamente tutti — anche chi non è costretto a farlo per lavoro.

Come se non bastasse, l’algoritmo, che ormai ha assorbito le mie tendenze culturali online, per settimane mi ha proposto banner pubblicitari in continuazione, senza soluzione di continuità. Mentre aspettavo che passasse la tempesta ho iniziato a notare la curiosa assenza di critiche negative — anche da parte di individui che solitamente avrebbero da ridire sulla foto di due gattini. Ho raccolto qualche tiepido commento di persone che semplicemente preferivano altre produzioni Disney Pixar, nulla più. Anche gli amici stretti, dai più disparati mondi, ognuno mi ripeteva di quanto fosse incredibile, commovente. Assolutamente da vedere soprattutto per chi vive con e di musica — ovviamente ancor più nello specifico musica jazz. Per questo sono rimasto esterrefatto, sentendomi quasi in colpa, quando, dopo averlo finalmente visto, mi sono ritrovato a constatare che non solo non mi fosse piaciuto particolarmente. A distanza di giorni e rimuginandoci sopra mi sono reso conto che mi ha fatto proprio incazzare. 

Soul è un film scorretto dall’inizio alla fine. Non mi esprimo sull’aspetto puramente cinematografico che non mi compete e che non ho grandi conoscenze per giudicare. Anzi, da quel punto di vista mi è anche piaciuto: l’attenzione al realismo dei dettagli è a tratti quasi disturbante, la creatività nella rappresentazione del mondo dai tratti onirici è godibilissima e ricercata senza diventare una masturbazione degli animatori. La colonna sonora è di alto livello grazie alla musica di Trent Reznor, Atticuss Ross e Jean Baptiste. Ma che i movimenti di un musicista jazz siano riprodotti con cura maniacale credo sia tutto meno che importante per un film d’animazione per adulti il cui intento è sicuramente un altro, come da tradizione Pixar. È infatti la famosa “morale” ad essere confusa, se si vuole essere buoni, disonesta se si vuole essere realisti. 

Joe Gardner è un insegnante di musica all’incirca di mezza età, insoddisfatto ai limiti della depressione; ha sempre sognato di diventare un grande della musica jazz fallendo puntualmente. La sua grande occasione si presenta nella forma di una inaspettata esibizione insieme al gruppo di una grande musicista, Dorothea Williams. Un’occasione che può finalmente spalancargli le porte del professionismo e proiettarlo nel mondo che ha sempre sognato. A causa di un incidente mortale però Joe sembra subito sul punto di perdere il treno, salvo poi, dopo inenarrabili fatiche, riuscire a portare a termine la “missione” — lottando letteralmente tra la vita e la morte, sotto forma di anima senza corpo in un Oltremondo fantastico. Il dramma è che raggiunto l’obiettivo, e riacquisendo il proprio corpo, Joe si trova al punto di partenza in termini di soddisfazione personale. Grazie alla co-protagonista del film, l’anima 22, «una donna bianca di mezza età» come viene definita nel film (la quale prende il controllo del corpo di Joe per sbaglio, mentre lui finisce in quello di un gatto), giunge alla conclusione che nella vita a contare non può essere solo la passione più bruciante che abbiamo: questa non ci definisce completamente in quanto essere umani e anzi rischia di trasformarsi in un’ossessione che ci isola e fa perdere il contatto con tutto il resto.

Insomma la morale del film in qualche modo poggia sulla zona grigia che separa la passione dal diventare un’ossessione. Alla fine sembra spingersi ancor più in là, negando le sue stesse premesse, suggerendo come anche con la completa assenza di una passione specifica la vita possa comunque essere piena di gioia e valida di essere vissuta. Ad un primo superficiale sguardo sembra tutto condivisibile e in perfetto spirito Disney/Pixar: una morale scontata e inoffensiva, infiocchettata meno bene che in altre produzioni, ma come da tradizione. In realtà c’è molto che non torna. 

Partiamo dalla stessa scelta del jazz come strumento per trasmettere la parabola. La storia e la mitologia del jazz non potrebbero essere più in contrasto con ciò che il film vuole trasmettere. Anzi peggio, è la stessa pellicola che si approfitta e usa la narrazione reale, salvo poi semplificarla e rinnegarla al momento di dover risolvere la trama — per altro in modo estremamente banale. I più grandi jazzisti della storia sono stati individui colmi di uno straordinario talento innato, talento a cui per tutti (nessuno escluso), si univa una capacità di studio e una dedizione altrettanto fuori dal comune. A volte superiore al talento stesso. Non avremmo i capolavori di Coltrane se il sassofonista non avesse passato le sue giornate chiuso in casa a studiare, senza mangiare, senza dormire, spingendosi in territori allucinati ed alienandosi dagli affetti e dalla società. Un aneddoto racconta di come prima di un’esibizione francese il suo quartetto andò a fare una passeggiata sulla spiaggia per rilassarsi, mentre lui rimase in albergo ad esercitarsi. Perse la cognizione del tempo e l’esibizione saltò. Un’altra volta dietro le quinte di uno show non la smetteva di suonare ed esercitarsi, al punto che Miles Davis lo schiaffeggiò per farlo rinsavire. All’apice della sua carriera Sonny Rollins sparì dalle scene, ritirandosi a vita privata per lavorare sulla sua arte; passò i successivi tre anni suonando tra le quindici e le sedici ore al giorno, da solo e all’aperto (sul ponte di Williamsburg) perché non aveva uno spazio al chiuso da poter utilizzare. Charles Mingus ha raccontato in prima persona della sua infanzia ed adolescenza passate a studiare ossessivamente, trascurando tutto il resto, prima di sentirsi anche solo vagamente pronto ad affrontare il mondo jazzistico. Charlie Parker una volta disse che «devi esercitarti, esercitarti, esercitarti. E poi, quando finalmente sei sul palco, dimentica tutto ciò che hai studiato e urla.» Un concetto simile a quello espresso da Miles Davis «devi suonare veramente a lungo per arrivare a suonare come te stesso». Avete idea di quanto tempo, studio e pratica siano richiesti per raggiungere un livello, una consapevolezza del genere? E soprattutto di quali elementi razziali e sociali sistemici contribuissero (e contribuiscono) a far sì che i migliori jazzisti afroamericani sentissero questo peso enorme, questa spinta incontrollabile a spingersi sempre più avanti? 

La sola ragione per cui Joe riesce ad ottenere la sua occasione è proprio perché (come è lo stesso film a raccontare) ha condotto la sua vita in questo modo, dedicandosi anima e corpo alla sua passione, migliorando al punto tale da riuscire a “conversare” ai livelli più alti senza essere fuori posto. Naturalmente nel farlo è arrivato anche ad abbruttirsi, deprimersi, a veder tradite le sue aspettative e sentirsi inadatto. La domanda è, ci sarebbe stato un altro modo? Il film prova a dirci che rendersi conto della bellezza intrinseca al solo esistere in quanto esseri umani dovrebbe funzionare come il contraltare per evitare questo tipo di situazione, per “staccare la spina” in tempo. Molto comodamente però lo fa solo alla fine, quando tutto è già successo e le fatiche sono state premiate. Il percorso di un jazzista, di un musicista, di un creativo, è alimentato anche da emozioni e sentimenti profondamente negativi, che se a volte rischiano di paralizzare sono anche una delle ragioni per cui quel fuoco non si spegne mai, anzi, è sempre lì a bruciare, a far andare avanti tra gioia e dolore. Non basta rendersi conto della poesia di una foglia che cade da un albero o della goduria sensoriale nell assaporare una pizza — veri momenti topici utilizzati dal film. E soprattutto è estremamente scorretto e semplicistico applicare un ragionamento del genere a fatti compiuti. 

Condurre la propria vita con una vocazione così pressante e forte non vuol dire sperimentare un’esistenza senza felicità, anzi. In questo difficile percorso gioia e soddisfazione sono già presenti, seppur ad ondate; il viaggio è importante almeno quanto la meta finale, anche se questa potrebbe non essere mai raggiunta. Per capirlo basta rivolgersi nuovamente alle reali biografie dei più grandi della musica jazz. Ma possiamo andare oltre ed applicare lo stesso ragionamento alle più disparate forme d’arte. Specifico forme d’arte dal momento che, in modo molto americano, il film non lo fa: essere consumati dall’urgenza espressiva associabile a una qualunque forma d’arte è assimilabile al voler realizzarsi come broker finanziario — anche questo esempio presente nel film. Il che ci suggerisce senza molti dubbi che in fondo la realizzazione a cui pensa il film è principalmente quella economica: come appunto da tradizione americana. Sfido a non abbrutirsi durante una ricerca del genere, soprattutto all’interno di un sistema costruito per mettere i bastoni fra le ruote a tutti e specialmente a coloro che non hanno la pelle bianca. 

Nel mondo tra la vita e la morte in cui Joe finisce, in cui si è anime senza corpo, chi viene sopraffatto dalla sua passione degenerata in ossessione viene rappresentato come un mostro aggressivo che vaga senza meta. Un mostro da “curare” e che al suo interno contiene l’Io originario della persona. Gli altri invece (presumibilmente quindi quelli che riescono a non farsi toccare da sentimenti negativi) sono proiettati in un’estasi divina, in diretta comunicazione con un mondo che supera quello materiale e terrestre. Non esiste una distinzione così netta. Ognuno si troverà tanto nella bolla fluttuante, tanto sotto forma di mostro inavvicinabile: potrebbe succedere a distanza di anni, di mesi; potrebbe anche succedere all’interno della stessa giornata.

Questa ricerca sfiancante di un equilibrio da ottenere a tutti i costi diventa offensiva, castrante, impone uno standard assolutamente irraggiungibile e diventa a sua volta un’ossessione. Invece di accettare la naturale oscillazione tra un picco positivo ed uno negativo (e tutti i gradi che esistono in mezzo) a cui si espone chi si dedica a qualcosa con tutto se stesso, questa ricerca impossibile finisce per colpevolizzare ulteriormente. Così i momenti di benessere diventano “scontati”, quelli di malessere un vero e proprio inferno. È una vera e propria forma di violenza, una specie di trovata di marketing. D’altronde la vendita di questo “equilibrio” psicofisico artificiale è sempre più una tendenza contemporanea, un’offerta fornita alla domanda dalla stessa società di consumo in cui viviamo, questa sì che ci stritola e rende genericamente infelici sempre di più. I media tradizionali, ma soprattutto i social media (che permettono una narrazione in prima persona e senza filtri) sono pieni di influencer che provano a dirci quanto, se le nostre vite fanno schifo, è perchè non abbiamo abbastanza equilibrio: non mangiamo bene, non ci alleniamo abbastanza, non apprezziamo le piccole cose, non coltiviamo i rapporti personali nel modo giusto e soprattutto non utilizziamo i prodotti giusti. Insomma l’equilibrio diventa qualcosa che a detta loro possiamo comprare. Non importa chi siamo, quale sia la nostra professione, etnia, classe sociale, genere, stato di salute e via dicendo: se non potete raggiungere il vostro obiettivo e realizzarvi personalmente potete almeno comprarvi una sorta di equilibrio in scatola. 

Soul sembra poggiare su questo meccanismo, e per di più lo fa appropriandosi e distorcendo una narrativa complessa e stratificata come quella jazzistica, una forma d’arte storicamente afroamericana — Joe Gardner è il primo “eroe” nero dell’universo Disney-Pixar. Anche qui il rapporto è controverso. Lo fa ben notare Namwali Serpell sul New Yorker. Ci sono elementi inediti in un film d’animazione così importante per dimensioni ed investimenti. Lo studio ha addirittura assunto dei consulenti afromericani per cercare di rendere al meglio situazioni e scene come quella nel negozio del  barbiere, della sartoria o le interazioni tra musicisti; piccoli tocchi come quello di Joe che chiede a Ventidue, mentre questa abita il suo corpo, di spalmare un po’ di “lotion” sul suo corpo dopo che ha finito di farsi la doccia. Ma al netto di questa attenzione voyeuristica alla rappresentazione di elementi pratici della vita afroamericana, il film perde completamente per strada i temi importanti. Seppur teoricamente un’anima “pura”, Ventidue è interpretata e rappresentata come una donna bianca di mezza età, Tina Fey. Pur non avendo mai avuto esperienza terrena, è lei che abitando il corpo di Joe (anche questo non un problema da poco) manifesta qualità razziali storicamente fatte percepire come “bianche” (sensibilità, assennatezza, senso di praticità) opponendole al modo in cui Joe ha vissuto fino a quel momento, evidenziando quanto fosse sbagliato – e torniamo alla comodità di farlo notare solo alla fine. Nelle parole di Serpell: «la donna bianca e depressa insegna all’uomo nero, nevrotico e brillante come smetterla di star inutilmente male pensando alla propria ambizione e coltivare invece gratitudine per quello che si ha e basta. Non solo Ventidue usa Joe come veicolo, ma il film si spinge nel fare l’affermazione grandiosa e grottesca che lui ha imparato a vivere attraverso di lei». Altro tratto interessante è la manipolazione della parola e del concetto di Soul. Gli autori ovviamente si appoggiano al termine giocando sull’ambivalenza semantica tra il genere musicale ed entità spirituale di una persona, bypassando completamente l’uso che storicamente ne ha fatto la comunità afroamericana, un uso vivo e vegeto ancora oggi e particolarmente significativo nel mondo artistico e musicale: 

«L’errore artistico più lampante in “Soul” è il suo errore di valutazione — la sua elisione, in realtà — di ciò che l’anima significa per la cultura nera. La parola è usata per indicare non solo un’unità individuale ma anche un substrato indivisibile, un’energia comune, un’atmosfera. […] Uno degli aspetti più strani del film è che, sebbene Joe abbia una madre, un tenue interesse amoroso, studenti dolci e pigri e conoscenti dal barbiere, in realtà non ha persone. La sua epifania, congiunta con quella di Ventidue, è solitaria: il seme nel palmo, la comunione di un individuo con la vasta natura. Allo stesso modo, ogni anima defunta, una volta liberata dal suo corpo terreno, spara da sola in una macchia di bianchezza accecante. Nella cultura nera americana, un funerale viene detto ‘homegoing’, in parte a causa di una sincretica fusione dell’aldilà con l’Africa, la libertà originaria. Attraversare il confine tra vita e morte è attraversare di nuovo il mare [ndr. l’Atlantico, verso l’Africa], che, a proposito, è probabilmente l’origine della parola inglese anima, dal proto-germanico saiwaz. L’idea è che l’acqua, non l’aria, ad essere dimora delle anime. Alla fine del viaggio verso casa non c’è quindi una scintilla di luce bianca brillante ma la tua gente, che ti dà il benvenuto a terra.»

Soul prova a risultare virtuoso ovunque, fallendo sui fronti più delicati ed importanti. La famosa morale Pixar è un pasticcio: un agglomerato di banalità populiste e parziali, sottilmente classiste e castranti. Aggravate inoltre da uno sguardo che prova a fare di tutto per essere woke dal punto di vista razziale ma che finisce per legittimare in modo “raffinato” lo stesso sistema di pensiero che sarebbe, finalmente, da cancellare una volta per tutte.

Giulio Pecci
Classe ‘96, studia Lettere e Musica a La Sapienza di Roma. Scrive di musica e cultura, organizza concerti Jazz e cerca di trovare il tempo di suonare la chitarra. Alla costante ricerca del decimo a calcetto.
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