«C’è l’impressione che le cose stiano diventando weird» — Intervista con Gianluca Didino
Sul finire dei suoi primi dieci anni, qui compiamo una piccola rivoluzione, abbandonando il nostro formato classico – quello del magazine culturale a cadenza vagamente quotidiana – per presentare ogni mese un solo saggio e un solo racconto. Da queste pagine 24 autori ogni anno proporranno il loro filtro sul reale, manipolando inevitabilmente la personalità di Dude mag: ed è una cosa che ci rende enormemente curiosi.
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«C’è l’impressione che le cose stiano diventando weird» — Intervista con Gianluca Didino

Negli ultimi tempi, l’interesse per la letteratura fantastica, a cui oggi si preferisce l’etichetta forse più generica di weird, sembra essere aumentato vertiginosamente dalle nostre parti, da un lato grazie all’ottimo lavoro di alcuni giovani autori che, dialogando con modelli del passato e del presente (si pensi, per questi ultimi, a Michele Mari o Antonio […]

Negli ultimi tempi, l’interesse per la letteratura fantastica, a cui oggi si preferisce l’etichetta forse più generica di weird, sembra essere aumentato vertiginosamente dalle nostre parti, da un lato grazie all’ottimo lavoro di alcuni giovani autori che, dialogando con modelli del passato e del presente (si pensi, per questi ultimi, a Michele Mari o Antonio Moresco), si sono imposti proponendo un uso molto personale del materiale visionario, soprannaturale, insolito e deformante tipico del fantastico (giusto per fare dei nomi, assai diversi tra loro: Gregorio Magini, Veronica Raimo, Andrea Gentile — non a caso, Il Saggiatore, di cui è direttore editoriale vanta nel proprio catalogo personalità come Thomas Ligotti e Howard Philip Lovecraft —, Vanni Santoni e alcuni degli scrittori da lui presentati nella collana di narrativa di Tunué: Luciano Funetta, Orazio Labbate, Francesco D’Isa e Luca Bernardi); dall’altro con una risposta critica che ha dato più spazio al dibattito intorno agli sviluppi e alle possibilità di una letteratura che fa di quel materiale il suo pane quotidiano (vale la pena riportare qui due esempi molto importanti: l’articolo di Carlo Mazza Galanti, Il canone strano, uscito su Not, e “gli atti” dell’incontro Novo sconcertante italico. Ibridazioni tra fantastico e mainstream e i nuovi stilemi della letteratura contemporanea: dallo sdoganamento del fantasy al new weird, svoltosi a Firenze il 22 settembre 2018 nell’ambito del festival Firenze Rivista, recentemente riportati da Federico De Vita sull’Indiscreto).

In questo fertilissimo clima non poteva non arrivare anche in Italia un testo fondamentale come The Weird and the eerie — Lo strano e l’inquietante nel mondo contemporaneo dell’inglese Mark Fisher (Minimum Fax 2018, traduzione di Vincenzo Perna, postfazione di Gianluca Didino), originariamente licenziato nel dicembre del 2016, poco prima del suicidio dell’autore, appena quarantottenne.

 

 

Cosa si intende per weird e eerie? Nelle parole di Fisher il weird è «costituito da una presenza — la presenza di qualcosa che non è al suo posto», «l’eerie, per contrasto, è costituito da un fallimento di assenza o un fallimento di presenza. La sensazione di eerie si verifica quando c’è qualcosa dove non dovrebbe esserci niente, o quando non c’è niente dove invece dovrebbe esserci qualcosa». Bisogna precisare che si tratta di due sensazioni non limitate all’ambito della fruizione artistica ma ampiamente sperimentabili dal vivo delle nostre esperienze. Queste due categorie, separate anche a livello di impostazione del libro (con una parte di testi dedicati alla prima e un’altra alla seconda), sono in realtà più vicine di quanto sembri, come del resto accenna brevemente lo stesso autore. C’è sicuramente una radice comune, forse anche di più (non si può escludere che un racconto stimoli sensazioni sia weird che eerie), sebbene poi gli effetti e le situazioni distintive di ognuna vadano a sfociare in zone differenti: gli eccessi delle presenze weird sono diversi dagli inquietanti problemi posti dalla mancanza di spiegazioni, dall’ignoto, dal vuoto e dalla difficoltà di individuare un agente dietro determinate azioni tipici dell’eerie. Nell’affrontare questi nodi, i saggi ospitati dal libro (già pubblicati su blog o riviste) vanno dal cinema alla letteratura fino alla musica: da Lovecraft a Tarkovskij, da Dick a Fassbinder, da H. G Wells a Joan Lindsay, passando per Brian Eno, Nolan, Kubrick e altri ancora. Personaggi accomunati non tanto da somiglianze tematiche o ideologiche (ognuno insegue una sua personale visione delle cose), quanto da una disposizione a giocare con l’inquietudine, con lo shock provato di fronte a presenze terrificanti (ma non si parla solo di cinema o letteratura horror), con quell’affascinante senso di sbigottimento avvertito quando ci troviamo distanti dalle consuetudini che regolano la cosiddetta realtà; spunti che finiscono col catapultarci su domande concernenti la posizione dell’uomo in un mondo sempre più controllato da logiche invisibili (l’inconscio, certo, ma per il neomarxista Fisher anche il capitale, potentissima e devastante forza immateriale).

 

Lovecraft visto da Gustave Doré

 

Tra entità spaventose, fantascienza, mancanza di logica e “demondificazione” (l’allontanarsi dall’idea «che esista un qualsiasi livello ‘fondamentale’ che possa fungere da base o pietra di paragone, garantendo e autenticando ciò che è davvero reale»), apparentemente stiamo scappando verso le dimensioni più diverse, ma alla fine, immancabilmente, il discorso finisce col precipitare su questioni fondamentali che indagano il senso e la possibilità della presenza umana nel mondo contemporaneo, e non potrebbe essere altrimenti.

Di tutto ciò abbiamo parlato con Gianluca Didino, assiduo e prolifico collaboratore di moltissime testate (tra le tante: Internazionale, minima & moralia, Nuovi Argomenti e Il Tascabile), che dell’edizione italiana di The weird and the eerie ha scritto una notevole postfazione, necessaria per capire la complessità di Fisher e del clima in cui si è formato.

 

La tua postfazione è interessante non solo perché spiega alcuni aspetti della figura intellettuale di Fisher ma anche perché offre spunti di lettura importanti; peccato che molti dei testi che tu citi non siano stati tradotti in italiano.

The Weird and the Eerie è un libro molto bello ma anche più complesso di quello che sembra a una prima lettura, e può risultare un po’ ostico. Nella mia postfazione ho tentato di facilitare la lettura a chi non conosce Fisher o il contesto in cui si colloca il suo lavoro. Scrivendola non mi è stato difficile mettermi nei panni di un lettore che non conosce Fisher, perché anche io sono entrato in contatto con la sua opera attraverso la lettura di The Weird and the Eerie.

Mark Fisher era un intellettuale ben radicato nella moderna critica al capitale, però in questo libro, almeno apparentemente, sembra scostarsi da questa immagine di pensatore politico.

Una delle critiche che vengono mosse a Fisher, dall’interno di certi movimenti politici, è che non possedeva una filosofia politica strutturata. Rispetto a Realismo capitalista, il suo lavoro più politico, in The weird and the eerie si sente molto di più la sua formazione di critico culturale e di autore di testi brevi (la maggior parte dei saggi che compongono il libro sono usciti prima sul suo blog k-punk o su riviste accademiche). Inoltre, con The weird and the eerie Fisher torna alle sue origini, se pensi che la sua tesi di dottorato era dedicata alla letteratura gotica. A mio avviso la qualità migliore del suo lavoro sta nella capacità di prendere questi pezzi di testualità contemporanea e di leggerli attraverso la lente della propria individualità, che poi è quello che i bravi critici culturali dovrebbero fare. Nel momento in cui gli si chiede di essere un pensatore neomarxista puro, con una filosofia politica strutturata, ecco, quella secondo me non è la sua identità.

 

“Realismo Capitalista”, Mark Fisher (Not)

 

Weird e eerie li traduciamo come “strano” e “inquietante”, e nel libro queste due categorie vengono separate dall’autore in due parti distinte, anche se lui stesso accenna al fatto che non si tratta di concetti così lontani. In effetti, pensando proprio alle definizioni che vengono proposte di entrambi, non si può escludere che un testo weird possa avere anche effetti eerie, e penso a Lovecraft.

Sono d’accordo. Il libro comincia con una lettura critica del perturbante freudiano, ed è un punto di partenza che trovo corretto. Fisher riconosce l’origine psichica dei sentimenti di weird e eerie, e parte dal padre della psicanalisi per fare evolvere le sue categorie in una maniera che risuoni con il nostro presente. Quindi da un lato la matrice di entrambe va cercata sicuramente all’interno di una rilettura contemporanea — io nella postfazione ho detto ipermoderna — del perturbante. Detto questo, ci sono una serie di temi e termini che sono importanti negli ambienti intellettuali di cui Fisher faceva parte e da cui le categorie di weird e eerie in qualche modo derivano. Penso a termini come “demondificazione” – che Fisher usa nell’accezione di Heidegger – o “esterno”. Weird e eerie sono derivazioni di questi concetti, sono distinzioni di un’unica dimensione.

Demondificazione: il capitolo su Dick e Fassbinder è particolarmente interessante a tal proposito. Qualcuno, a volte, pensa che abbracciare il fantastico, il weird e il soprannaturale possa coincidere con un allontanamento dalla realtà, ma un capitolo del genere penso possa essere una valida risposta a questa obiezione. Fisher sembra che si allontani dalla realtà a favore di altri mondi, per poi tornare immancabilmente al ruolo dell’uomo nel mondo.

Quello del ruolo dell’uomo in un mondo in cui i soggetti non-umani hanno sempre più importanza è un tema centrale della filosofia dell’ultimo ventennio, e sicuramente si tratta di un discorso piuttosto complesso. Genericamente diciamo che questa filosofia a cui possiamo ricondurre Fisher, la CCRU o i realisti speculativi è una filosofia realista, c’è questa dimensione della realtà molto profonda e presente. Lo capiamo facilmente in maniera intuitiva, ma dal punto di vista filosofico definire in cosa consista questa “realtà” è problematico. Ad esempio negli ambienti letterari e filosofici dell’inizio degli anni Duemila si parlava moltissimo di “ritorno della realtà”: dopo l’11 settembre la realtà era tornata al centro dell’attenzione e sono tornati alla ribalta i discorsi sul realismo. In Italia abbiamo un esempio celebre di questa tendenza anche in campo filosofico con il Manifesto del nuovo realismo di Maurizio Ferraris. Il weird e l’eerie da un lato sembrano discostarsi da questo nuovo realismo nelle arti, facendo appello a dimensioni che associamo più facilmente al fantastico o al soprannaturale, ma questa assenza di realismo non significa che la realtà venga meno. Fisher, nel libro – e anche altrove -, usa spesso il termine Reale, riprendendo Lacan. Weird e eerie sono fenomeni che capitano davvero nel tessuto del Reale, non in qualche dimensione fantastica o onirica.

Perché ci interessano così tanto i mondi possibili? Perché passare per la fantascienza, ad esempio, per parlare di demondificazione? Cosa ci attrae?

Questa è una domanda enorme, direi che dipende da persona a persona. Io sono da sempre appassionato di fantascienza e di mondi possibili, e se penso ad alcuni dei miei autori preferiti, come Philip Dick o David Lynch, penso di condividere con loro quella che potrei chiamare una visione gnostica della realtà – la fascinazione per l’idea che il mondo che viviamo non è quello vero ma ce n’è uno più profondo che può tuttavia essere scoperto o disvelato. Nel caso specifico di Fisher il discorso sui mondi possibili contiene una dimensione politica molto forte. La sostanziale critica che lui fa al capitalismo neoliberista è che ha distrutto la possibilità di un’alternativa e di un futuro diverso dal capitalismo stesso. Per lui la dimensione dei mondi alternativi è anche la possibilità di ripensare politicamente il mondo, cosa che in un’epoca segnata dal realismo capitalista non sembra più possibile.

A livello politico, utilizzando la parola “esterno” che abbiamo chiamato in causa prima, è interessante osservare come Fisher interpreti il capitale come qualcosa di esterno, che agisce sul mondo avvolto dall’invisibilità, assumendo quindi connotati eerie. Più o meno alla maniera dell’inconscio che, pur essendo esterno alla coscienza e invisibile a sua volta, incide eccome sulla realtà. Se il fantastico ottocentesco raccoglieva istanze socialmente represse mascherandole dietro l’apparenza di creature soprannaturali (penso alla Creatura di Frankenstein o a Dracula o a Mr. Hyde), ora (ma forse non solo da ora) le letterature weird e eerie, diciamo le moderne declinazioni del fantastico, hanno connotati diversi: ciò che fa paura è soprattutto qualcosa di invisibile eppure di presente.

La lettura del capitale che dà Fisher come “fantasma” o come entità che si muove sopra le nostre teste è molto potente, anche se non del tutto originale nel senso che era già presente in Marx. Per quanto riguarda il weird e l’eerie, è chiaro che Fisher sviluppa queste dimensioni partendo da una base piuttosto canonica del fantastico: in qualche modo quello che tenta di fare è anche adattare le categorie del fantastico al tempo presente: il libro comincia parlando di perturbante ma avrebbe potuto tranquillamente iniziare anche con Frankenstein. La grande differenza, probabilmente, è che queste entità represse che non si esprimevano alla luce del giorno ma tornavano sotto forma di incubi nel fantastico tradizionale, nella nostra contemporaneità assumono un carattere più impersonale. L’aspetto più inquietante della lettura dell’eerie è proprio l’impersonalità, il suo riferirsi a entità che sono non-persone, non-umane. Se leggi Frankenstein puoi ricondurlo a una dimensione umana: il mostro creato da Victor Frankenstein è parzialmente umano, o meglio è umano e non lo è, è familiare e non lo è proprio nel senso che Freud avrebbe attribuito al concetto di perturbante. Le letture che dà Fisher dei fenomeni eerie coinvolgono quasi sempre un regno ormai completamente al di fuori del dominio dell’uomo. È una lettura tipica delle correnti di pensiero che vengono da quelli che un po’ genericamente sono chiamati posthuman studies.

 

 

Ultimamente si è parlato molto di weird, e la pubblicazione del libro di Fisher è un esempio dell’interesse per questo argomento. Secondo te da cosa dipende?

Di solito si parla di weird come categoria stilistica, letteraria o cinematografica, ma secondo me questa è solo una parte del discorso. Credo che la ragione di questo interesse derivi, banalmente, dal fatto che viviamo in tempi davvero strani. Succedono cose che non si potevano prevedere. Nessuno si aspettava la Brexit, o la vittoria di Trump alle elezioni, o un governo Lega-5 Stelle. Sembra ci sia una perdita di controllo sulla realtà, che sta andando in direzioni non preventivate e si manifesta in forme talvolta mostruose, talvolta assurde. Non si tratta solo della politica o necessariamente di cose brutte o spaventose: quando guardo i razzi mandati nello spazio da Elon Musk, che tornano indietro come in un film di fantascienza degli anni Cinquanta, mi sembra di essere in un racconto di Ray Bradbury, sembra impossibile che stia capitando davvero. L’intelligenza artificiale sta diventando qualcosa di veramente strano: parli con il computer e sembra che ti capisca. C’è l’impressione che le cose stiano diventando propriamente weird. La ragione per cui i due termini di Fisher funzionano così bene è che descrivono benissimo una realtà sempre più strana.

Viene in mente la distopia. Leggendo i classici del genere, Orwell, Huxley o Bradbury, si avverte chiaramente il fine etico-civile del loro lavoro (stanno capitando determinati orrori, se non facciamo qualcosa ecco cosa accadrà) però allo stesso tempo si può considerare anche una relativa distanza tra il presente in cui vivevano e l’assoluta durezza del futuro da loro immaginato. Adesso questa distanza sembra essersi ridotta. Come dicono in tanti, in maniera un po’ provocatoria, la fantascienza e la distopia passano ormai per una specie di realismo.

Sicuramente ci sono dimensioni, nella nostra contemporaneità, che sono distopie realizzate, ed è interessante notare, mi sembra, che, quando si realizza nella realtà, la distopia è sempre meno visibile o immediatamente riconoscibile di quando ci viene presentata dalla letteratura o dal cinema. Google sa sempre quello che fai, ti osserva ogni minuto, e questo ci porta parecchi step più vicini al controllo totale che immaginava Orwell, con il Grande Fratello che regola la vita fin nei più piccoli dettagli: il modo in cui interagiamo con le tecnologie, il fatto che ci vengano proposti certi annunci pubblicitari invece che altri, il fatto che vieni portato a fare certe scelte, di fatto regolano la vita in una maniera capillare, ma spesso non ce ne accorgiamo nemmeno. La distopia, se vogliamo dirla in un’altra maniera, è entrata nelle maglie della realtà quotidiana. Se esci fuori casa non ci sono i carri armati nazisti per strada e non scopri che sei stato selezionato per partecipare ai prossimi Hunger Games, però certe situazioni distopiche si avvertono chiaramente nella nostra quotidianità più banale, se ci si ferma a pensarci abbastanza a lungo.

A proposito della distanza dalla distopia di cui parliamo, basta pensare a una serie di successo come Black Mirror. Penso che quasi tutti, guardando qualche puntata, abbiamo pensato «be’ forse non siamo poi così lontani da questo».

Be’ sì, credo che proprio su questo si basi il successo della serie. Anche a me piace molto Black Mirror e le puntate che preferisco sono proprio quelle più sottilmente distopiche. Ad esempio la prima della terza stagione, Caduta libera (in originale Nosedive), dove tutti devono dare un voto con il cellulare alle persone con cui interagiscono: personalmente l’ho trovata davvero molto disturbante, perché è lo stesso genere di oppressione che vivo ogni giorno sui social media o quando devo dare 5 stelle all’autista di Uber perché anche lui mi dia 5 stelle e la prossima volta non rischio di rimanere a piedi.

 

 

Tornando al dibattito sul weird, anche l’Italia ha detto la sua. Su diverse riviste si è discusso molto di weird in merito alla letteratura italiana e basta pensare poi al successo di alcuni autori o di veri e propri progetti editoriali. Sembra che una parte degli scrittori si rivolga a orizzonti più deformanti e fantastici.

L’Italia ha un’importante tradizione fantastica, che viene spesso dimenticata dalle storie “ufficiali” della letteratura che subiscono ancora il peso di una tradizione accademica forte nella quale le alternative hanno fatto tradizionalmente fatica a imporsi. Ci sono casi unici come quello di Calvino, che rappresentava l’establishment letterario ma era anche uno scrittore di letteratura fantastica e talvolta persino weird, ma sono appunto casi unici. Dal punto di vista della derivazione letteraria c’è sicuramente un filo che attraversa la storia della nostra letteratura (pensiamo alla Scapigliatura, a Landolfi o a Buzzati, oltre che a Calvino) per arrivare a queste nuove forme di weirdness nelle giovani generazioni di scrittori. Gli autori che citi sono molto diversi tra di loro, hanno influenze e immaginari molto personali, eppure sono in qualche modo connessi: ad esempio difficilmente puoi mettere sulle stesso piano il fantasy o le esperienze dei rave e dei giochi di ruolo raccontate da Santoni e la cupezza di derivazione sudamericana dei romanzi di Funetta, ma il primo romanzo di Funetta è uscito per la collana di narrativa diretta da Santoni. Al Sud Italia si è imposta questa sorta di interessante versione del Southern Gothic in autori come Labbate. Insomma, ci sono declinazioni diverse che si innestano su una tradizione forte in Italia, ma concordo sul fatto che si sta formando una sorta di filone o di tradizione letteraria. La risposta al perché questo capiti penso vada ricercata in una dimensione più ampia di quella italiana. Penso sempre a quanto scrive Amitav Ghosh nella Grande cecità riguardo al fatto che la letteratura borghese si fondava su un’idea di mondo stabile, e che in un mondo dominato da questa idea di stabilità e controllo le tradizioni che invece percepiscono il mondo come un luogo magico o pauroso, o addirittura come un incubo, come il fantastico, l’horror o la fantascienza, sono state considerate per secoli marginali. Nel nostro mondo destabilizzato dal riscaldamento globale, però, in cui niente è stabile o controllabile, possiamo forse dire che la tradizione del romanzo borghese ci parla di una realtà che non esiste più, e semmai è la tradizione apocrifa a essere capace di raccontare la verità in maniera più accurata. Su questo discorso generale si innesta la specificità italiana, perché l’Italia sta attraversando un periodo molto complesso e sta toccando le sue vette di weird e forse pure di horror. Credo che questi romanzi sappiano cogliere la realtà del presente italiano meglio di quanto farebbe un romanzo di tradizione borghese come – per fare un esempio a caso – Jack Frusciante è uscito dal gruppo. E, se posso permettermi di dirlo, penso che sia una buona notizia per la letteratura.

Massimo Castiglioni
È nato a Roma nel 1988. Collabora con diverse riviste occupandosi prevalentemente di letteratura e cinema.
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