VIDEO
Lo so, probabilmente avete già sentito parlare di Philip Kindred Dick (NON Kendred, per favore!). Blade runner… Minority report… Atto di forza… Un oscuro scrutare… certo, certo. Quello scrittore con cinque mogli e tre figli da tre donne diverse che a un certo punto della sua vita prendeva anfetamine a manciate, che è finito in una comunità di recupero per tossicodipendenti dopo un tentato suicidio, che era scappato in Canada perché gli avevano svaligiato casa e lui pensava che era l’FBI che ce l’aveva con lui (o le pantere nere, o neonazisti americani); lui, Philip K. Dick, quello che quando sembrava che la vita stava tornando normale ha visto Dio sotto forma di raggio di luce rosa che gli ha rivelato cose sbalorditive. Tanto sbalorditive che gli ultimi anni della sua vita li ha passati a scrivere appunti e note per cercare di chiarirsi le idee, e alla fine, poco prima di morire per un infarto a cinquantadue anni, s’è reso conto che non ci avrebbe mai capito niente. Ora hanno pubblicato anche gli appunti, la temibile Esegesi di Dick, forse le farneticazioni di un pazzo, forse le intuizioni di un genio. Quello lì, Philip K. Dick, che amava il rock psichedelico (specie se a cantare erano belle donne more come Grace Slick e Linda Ronstadt) ma anche Bach e John Dowland, quello che diceva di sapere il tedesco e i critici letterari dubitavano e poi s’è scoperto che lo sapeva veramente. Quel Philip K. Dick che non usciva più di casa e se lo andavi a trovare finiva che chiamava il ristorante cinese e faceva portare la cena a casa sua; soffriva di agorafobia. Questo però non gli impedì di comprarsi – lui, americano, californiano – una FIAT X 1/9. Insomma, avrete capito che era un tipo strano, ma cavolo se aveva trovate geniali: come il nome di uno dei suoi gatti (andava matto per i felini), che battezzò Magnificat.
Ora, non ho affatto intenzione di parlarvi dei suoi romanzi di fantascienza. Se ne è parlato già anche troppo, non perché non ci sia niente da dire, ma perché ne ha parlato parecchia gente che non ne capisce niente. Se volete sapere come sono i suoi romanzi leggete La macchina della paranoia di Antonio Caronia e Domenico Gallo, oppure L’oscuro scrutare di Philip K. Dick di Gabriele Frasca. Quelli sì che ne capiscono. Il resto, incluse le postfazioni di Cofferati alle edizioni Fanucci dei romanzi di Dick, potete anche lasciarlo stare (però le introduzioni di Carlo Pagetti vale la pena di leggerle: lui è il decano della critica dickiana in Italia, se non fosse per lui non saremmo qui a parlare).
Di un romanzo poco noto vi voglio parlare. Si chiama In questo piccolo mondo. Uscì da noi nel 2003; ma in America era già stato pubblicato nel 1985. Ora, dato che Dick passò a miglior vita nel 1982, pare ovvio che sia stato dato alle stampe postumo. Il perché è presto detto: nessun editore di quelli ai quali era stato proposto dall’agente letterario di Dick s’era degnato di comprarlo. Era rimasto allo stadio di manoscritto tra le carte di Dick e alla fine lui l’aveva regalato all’Università della California a Fullerton. Solo dopo la sua morte si decisero a darlo alle stampe: e per fortuna.
Il romanzo inizia nel 1944. Virginia Watson e Roger Lindahl s’incontrano a Washington. Nonostante lei sia di una famiglia relativamente benestante del New England e lui sia di origini proletarie, è un colpo di fulmine. Appena sposati vanno in California, dove assumono operai nelle fabbriche aeronautiche dove si costruiscono gli aerei che radono al suolo le città italiane, tedesche e giapponesi. Con i soldi messi da parte in tempo di guerra Roger apre un laboratorio di riparazioni radio. Roger è un tipo sveglio, ed è un bravo elettrotecnico. Ha capito che l’era della radio sta per finire, e che il futuro è la televisione. Ma gli mancano i capitali per fare il colpo grosso, il salto di qualità; il suo negozio l’ha aperto anche grazie ai soldi della suocera, che glieli ha dati obtorto collo per evitare che Virginia finisca in miseria…
Passa qualche anno: nel 1953 il boom della televisione è cosa fatta, ma Roger ha ancora solo il suo negozietto. Decide, spinto dalla moglie, di iscrivere il figlio a una scuola modello (ma costosetta) nell’entroterra di Los Angeles. Lì i due conoscono un’altra coppia: Chic Bonner e sua moglie Liz. Nasce un rapporto quadrangolare. Liz è piuttosto svelta e disinibita: tra lei e Roger s’intreccia una tresca che va avanti di sotterfugio in sotterfugio. Virginia e Chic invece scoprono di intendersi sul versante affaristico: hanno tutti e due le idee chiare su come si fanno i soldi (in special modo lui, che ha un’attività commerciale molto più fruttuosa del negozietto di Roger).
Insomma, ci sono tutti i materiali per una classica storia di quadrilatero sentimentale, ma un quadrilatero decisamente asimmetrico. Inoltre, tutto questo all’ombra della televisione, che sta cominciando a radicarsi nella società americana, e non solo in quella. Dick gioca la partita magistralmente, fino al finale decisamente cupo e amaro (sorprendentemente prossimo alle storie raccontate da Richard Yates). Ma con almeno una sorpresa.
Per concludere: non era solo a suo agio tra androidi, universi paralleli e divine invasioni, Philip Kindred Dick. Se la cavava altrettanto bene con l’adulterio e quei bei televisori a valvole degli anni Cinquanta. E se quelli ora sono vintage, è vintage (e di gran classe) anche questo romanzo che rischiavamo di non poter leggere per niente.
In questo piccolo mondo l’ha tradotto Simona Fefè, e l’ha tradotto bene. Lo trovate ancora in stampa per i tipi di Fanucci. Su Amazon.it ve lo prendete a euro 10,12 – finché c’è l’euro. Poi, non so cosa ci dovremo inventare.