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Non leggo solo inglesi e americani. Leggo anche italiani, ma pochi, perché di buoni scrittori da noi non ce ne sono tanti. Quelli che ci sono, poi, è difficile trovarli; delle recensioni generalmente non è che ti puoi fidare, e il passaparola ha i suoi buchi. Un italiano che apprezzo sempre è Michele Mari. Non l’ho mai incontrato e non lo frequento, non siamo amici, per cui non è che ve ne parli perché la seria andiamo in trattoria insieme (sempre posto che a Roma si trovino ancora vere trattorie, ho seri dubbi). Michele Mari è uno stilista raffinato, un intellettuale di spessore, un grande conoscitore della letteratura italiana, in particolare del nostro sfigato Settecento. Insegna all’università di Milano. Ha scritto opere ponderose. Ma questo non basta per fare uno scrittore. Mari ha anche un’altra cosa, solo che ci ha messo del tempo per capirlo: ha il talento nativo del narratore. Come Stevenson. Come Defoe. Come Roth. Come Vollmann. Se attacca a raccontare, non puoi smettere di stargli appresso. È ipnotico.
All’inizio, diciamo la verità, l’uomo di lettere aveva il sopravvento sul narratore. I primi libri sono raffinati esercizi di stile. Mari ha dimostrato di saper scrivere come Céline (pare facile), come Gadda (difficile), come Leopardi (mostruoso). Poi, a un certo punto, come nella storia di Jeckyll, la sua seconda identità ha preso il sopravvento. È successo con un romanzo breve del quale si è parlato poco: Verderame. Lo raccomando, ma non è di quello che voglio parlare.
Il suo capolavoro, finora, è Rosso Floyd. Sì, bravi, l’avete capito. Parla dei Pink Floyd. No, aspettate. Non è il solito libro del solito sessantottino stagionato che vi deve convincere che solo la musica di quand’era giovane lui era fica, e che gruppi rock come quelli non ce ne saranno mai più. Se fosse un libro del genere, dove si scaricano sul lettore titoli di canzoni e nomi di bassisti e batteristi come fossero noccioline, non mi abbasserei a parlarne. No, è molto di più.
Il libro si apre con una lamentazione oltremondana. Qualcuno parla dei Pink Floyd, ma non fricchettoni invecchiati. Sembrano anime di defunti. Questo capitoletto iniziale resta enigmatico, ma dura poco. Subito dopo arriva la prima testimonianza. A parlare è Arnold Layne, che racconta il suo incontro con Syd Barrett, il mitico primo cantante e chitarrista dei Pink Floyd. Ma aspetta: Arnold Layne è in realtà il protagonista dell’omonima canzone, un signore inglese dall’apparenza rispettabile che però colleziona biancheria intima femminile, che ruba dai giardini delle tipiche casette britanniche. Non esiste. Ma Mari lo fa esistere e parlare, come se la canzone di Barrett fosse il ritratto di qualcuno veramente esistito. Ma forse è esistito; o forse no.
Non importa. Mari è partito; dopo Arnold Layne raccoglie altre testimonianze (trenta), come fosse un giudice istruttore che indaga su qualche delitto. Ma chi testimonia? Vivi, morti, personaggi immaginari. Anche Stanley Kubrick, anche Eric Clapton. Ognuno di loro aggiunge un tassello a un mosaico che ci dovrebbe rivelare cosa veramente erano i Pink Floyd e chi veramente era Syd Barrett; e pian piano dalla storia dei miti del rock si passa al mito, e dal mito al soprannaturale, e di lì si sprofonda in un mondo parallelo al nostro, accessibile (a proprio rischio e pericolo) tramite quelle canzoni e quella musica.
Siamo sconfinati nella fantasy? Non la fantasy stile Signore degli anelli, ma quella moderna, urbana, di Matheson, King, Bradbury?
Esatto. Proprio lì. Ai confini con la realtà. Michele Mari ha scritto, raccontando la storia di una celebre band britannica, un capolavoro del fantastico italiano. Scritto benissimo. Costruito magnificamente. E da leggere in otto ore. Anche sei, quante ce ne ho messe io. E provatevi a mollarlo dopo le prime dieci pagine.
(Rosso Floyd è uscito nel 2010; lo trovate ancora nelle librerie a 20 euro, ma certi siti internet lo vendono scontato. Ve lo danno nella tradizionale ed elegantissima copertina dei Supercoralli. Insomma è anche bello da vedere. Che volete di più?)