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Se una volta provavi a consigliare uno scrittore di fantascienza a qualcuno che non leggeva abitualmente fantascienza, erano situazioni imbarazzanti. «A me la fantascienza non piace.» «Be’, ma questo parla di politica,» provavi a obiettare, «sociologia, e questo e quello, insomma non è mica una scemenza.». «Ma questa mica è fantascienza» era l’irritante risposta. Insomma, se ti piaceva la fantascienza eri un cretino perché ti piacevano cretinate. Ma se dimostravi che quelle che leggevi non erano cretinate, ti insegnavano che allora non era fantascienza. Mah.
Altri tempi. Abbiamo avuto la nobilitazione di Ballard, abbiamo avuto la canonizzazione di Dick, e ora non ci si vergogna più tanto neanche di Bradbury, che nei favolosi anni Sessanta fu malamente maltrattato addirittura da Umberto Eco. Ora stanno tutti (meno Ballard) nella Letteratura americana dal 1900 a oggi, uscita quest’anno per i tipi di Einaudi e curata da Mattia Carratello e Luca Briasco, due dei consulenti editoriali più stimati per quel che riguarda la letteratura statunitense. Ma non è di questo volumetto color pistacchio che voglio parlare, e neanche di un americano.
Ho in mente un inglese che da noi lo conoscono solo quattro vecchi appassionati di fantascienza (da noi il genere che si è spesso, anche se non sempre, occupato del futuro, ha degli aficionados piuttosto attempati; ironie della sorte!). Si chiama Ian Watson, ed è inglese. Meriterebbe di essere riscoperto. Prendiamo per esempio il suo romanzo The Embedding, del 1973, che da noi è uscito l’ultima volta col fuorviante titolo Riflusso e l’altrettanto sviante sottotitolo Il grande anello. “Embedding” in realtà vorrebbe dire “inclusione”, ed è una cosa che si ritrova in certe lingue, dove dentro una frase se ne ficca un’altra e dentro quella un’altra ancora, e così via all’infinito, costruendo frasi grammaticalmente corrette ma che nessuno potrebbe mai capire veramente a causa dei limiti della nostra memoria a breve termine. È una cosa studiata da linguisti importanti, e deve aver colpito Watson al punto di costruirci sopra un romanzo.
Riflusso non ha una sola trama, ma ben tre, abilmente intrecciate insieme. In una c’è Chris Sole, un linguista inglese che in apparenza lavora in un ospedale specializzato nel trattamento dei bambini con seri problemi di linguaggio. In realtà Sole lavora in un’ala chiusa al pubblico dell’ospedale, l’Unità, dove è in corso un progetto segreto nel quale si insegnano, a orfani di guerra cresciuti nel più totale isolamento, dei linguaggi artificiali basati sull’inclusione. A quale scopo, però?
Bella domanda, e di non facile soluzione. In un’altra trama, ambientata nella foresta amazzonica, un antropologo francese di nome Pierre Darriand è alle prese con una tribù di indios, gli Xemahoa, le cui terre stanno per essere allagate dalle acque di un enorme bacino artificiale realizzato dal governo brasiliano. Darriand è ossessionato da una strana poesia scritta decine d’anni prima da un altro francese, un surrealista di nome Raymond Roussel, una poesia d’avanguardia intitolata Nuove impressioni dell’Africa (che esiste veramente, non se l’è inventata Watson), basata sull’inclusione; e Darriand sospetta che lo stregone degli Xhemahoa, quando prende una certa sostanza allucinogena, attacchi a parlare una lingua stranissima che è costruita a inclusione, con lunghissime frasi fatte di embedding a catena.
E poi c’è la terza trama, della quale è protagonista uno scienziato americano, Tom Zwingler, che un bel giorno si presenta da Sole e si capisce che gode di appoggi politici potentissimi, dato che l’inglese riceve l’ordine perentorio di spiegare all’americano tutto quel che si sta facendo nel quadro del segretissimo progetto svolto nell’Unità. A Zwingler la cosa interessa perché, ed eccoci nella fantascienza, gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica (allora c’era ancora) hanno cominciato a captare messaggi provenienti da un punto nello spazio in una lingua che non è di questa terra, ma potrebbe somigliare alle strane lingue artificiali che Sole sta insegnando ai bambini dell’Unità.
Mi fermo qui. C’è ovviamente una connessione tra le tre trame. C’è una spiegazione – una specie. E pure un finale, straziante e commovente. Ma quel che è interessante è che Watson, quando sposta la sua narrazione in Sud America, non dipinge un fondale da quattro soldi, no, ti ci porta sul serio. E sul tappeto butta il problema (attuale oggi come nel 1976) del rapporto tra il nord ricco e il sud povero del pianeta, la relazione tra i cosiddetti popoli in via di sviluppo e quelli che decidono da che parte deve andare lo sviluppo. Nonché una conoscenza tutt’altro che superficiale di antropologia e linguistica, e mettiamoci pure quella cosa elusiva che chiamiamo «natura umana».
«Ma questa mica è fantascienza!» Ah no? Be’, neanche è Pippo, Pluto e Paperino. Si tratta semplicemente di un romanzo scritto tremendamente bene da uno scrittore talmente originale e talmente intelligente che ancora stenta a trovare i suoi lettori. Ma ci scommetto che piano piano li incontrerà: e potreste essere proprio voi che mi leggete.
Triste a dirsi, The Embedding è fuori stampa pure nel Regno Unito. Però su Amazon se ne trovano copie a pochi centesimi, metteteci pure le spese di spedizione, non andrete comunque in rovina. Se invece lo volete in italiano, cercate la traduzione della Nord, risale al 1999, ha ancora il prezzo in lire, 22.000 – e sul sito IBS lo si trova stile remainder a soli euro 5,68. Non so però come sia la traduzione; Watson ha uno stile ricco e complesso tutt’altro che facile da rendere.