Cosa sto leggendo: Zeroville
Sul finire dei suoi primi dieci anni, qui compiamo una piccola rivoluzione, abbandonando il nostro formato classico – quello del magazine culturale a cadenza vagamente quotidiana – per presentare ogni mese un solo saggio e un solo racconto. Da queste pagine 24 autori ogni anno proporranno il loro filtro sul reale, manipolando inevitabilmente la personalità di Dude mag: ed è una cosa che ci rende enormemente curiosi.
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Cosa sto leggendo: Zeroville

Sarebbe facile dire che Zeroville è un romanzo sul cinema. Sarebbe troppo facile. Certo, il suo autore, Steve Erickson, è critico cinematografico e si guadagna da vivere con quel mestiere; i suoi romanzi sono talmente strani, ma talmente strani che non attirano poi tanti lettori, né in America né da noi. Sono sicuramente i soldi del Los Angeles Times a mantenere la famiglia. Però Zeroville è solo in parte un libro sul cinema.

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Sarebbe facile dire che Zeroville è un romanzo sul cinema. Sarebbe troppo facile. Certo, il suo autore, Steve Erickson, è critico cinematografico e si guadagna da vivere con quel mestiere; i suoi romanzi sono talmente strani, ma talmente strani che non attirano poi tanti lettori, né in America né da noi. Sono sicuramente i soldi del Los Angeles Times a mantenere la famiglia. Però Zeroville è solo in parte un libro sul cinema. È anche un gran libro sugli anni settanta – un decennio terribilmente cinematografico.
La storia: un tipo strano arriva a Hollywood alla fine degli anni Sessanta. Ha la testa rasata a zero, e sopra ci ha fatto tatuare Montgomery Clift e Liz Taylor, protagonisti del suo film preferito, Un posto al sole. Il tipo strano ha una specie di fede religiosa nel cinema. Avrebbe un nome, ma tutti lo chiamano Vikar. Lo prendono per matto, anche perché ha preso a cazzotti uno che ha osato dirgli che sulla testa s’era fatto tatuare James Dean e Natalie Wood (protagonisti di Gioventù bruciata). Però di gente normale a Hollywood non è che ce ne sia poi tanta, per cui non si può dire che Vikar spicchi più di tanto. Sono i giorni dopo la strage di Bel Air perpetrata dai seguaci di Charles Satana Manson. Gli Stati Uniti scaricano tonnellate di napalm su Vietnam e Laos. Tutti sono strafatto di acido, hashish, pasticche, eroina. Il presidente si chiama Nixon. Hanno appena sparato a Bob Kennedy e Martin Luther King. Cosa ci sarà di tanto speciale, in un posto e un momento del genere, in un tipo che va in giro con due attori tatuati sulla testa?
Vikar entra nel cinema. Diventa un montatore. Svolge un ruolo cruciale: è quello che fisicamente fa il film, incollando insieme i pezzi di pellicola delle varie sequenze. Spesso senza che il regista intervenga. Vikar è bravo, nel suo mestiere, anche se ha uno stile talmente strano che all’inizio lo prendono per matto (un’altra volta). Ma poi vince un premio a Cannes, e diventa Qualcuno.
Ma la sua vita non è per questo più semplice: ha avuto un’infanzia difficile con un padre maniaco religioso. Si è innamorato di una donna dalla vita complicata, Soledad, che lo considera uno psicopatico pericoloso, e magari pure mezzo pedofilo. Ha un sogno ricorrente, di un sacrificio antichissimo, e gli appare sempre una scritta incomprensibile in una lingua arcaica. Eppure Vikar riesce a navigare in quello strano mondo scombiccherato che è la Mecca del Cinema senza affondare, incontrando gente strampalata, e anche personaggi che in poco tempo diventeranno famosi (a un certo punto incrocia anche un Robert De Niro ancora sconosciuto che lo prenderà a modello quando reciterà in Taxi Driver…).
Nelle mani di Erickson il cinema diventa una metafora della vita, un’immagine del mondo. Come il teatro per Shakespeare. Ho detto Shakespeare? E perché no? Dentro questa storia che si snoda dagli anni Sessanta agli anni Ottanta mentre il cinema americano affronta una delle sue tante cataclismatiche metamorfosi, c’è anche tanto di classicamente letterario. Vikar è vergine, come Parsifal; e come Parsifal a un certo punto dovrà partire alla ricerca di un Graal di celluloide: la pellicola perduta della Passione di Giovanna d’Arco di Carl Theodor Dreyer (ennesimo artista visionario che crea un’opera suprema e rifiutata).
Forse il romanzo più riuscito, più compiuto, più ricco di Erickson; quello che raccomanderei a tutti di leggere per primo, nonostante sia uscito per ultimo. E un romanzo con pagine maledettamente spassose. Il finale, poi… vabbé, quello non ve lo posso rivelare. Ma garantisco che è veramente strano.
(Zeroville l’ha pubblicato da noi Bompiani nel 2008; sono stati svelti, negli Stati Uniti era uscito nel 2007. A tradurlo sono stati Simona Vinci e Andrea Bruni. Non garantisco: l’ho letto in originale. L’edizione italiana ve la portate a casa per euro 16,58 – chi invece si vuole cimentare con l’originale lo trova su Amazon.it a euro 10,48. Allora conviene veramente sapere l’inglese.).

Umberto Rossi
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