«Di chi sono i ricordi?» — Con Lorenzo Flabbi parliamo de “Il gatto di piazza Wagner”
Sul finire dei suoi primi dieci anni, qui compiamo una piccola rivoluzione, abbandonando il nostro formato classico – quello del magazine culturale a cadenza vagamente quotidiana – per presentare ogni mese un solo saggio e un solo racconto. Da queste pagine 24 autori ogni anno proporranno il loro filtro sul reale, manipolando inevitabilmente la personalità di Dude mag: ed è una cosa che ci rende enormemente curiosi.
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«Di chi sono i ricordi?» — Con Lorenzo Flabbi parliamo de “Il gatto di piazza Wagner”

Tra le uscite più interessanti di questo 2019, una posizione di primissimo piano la occupa “Il gatto di piazza Wagner” di Diego Lanza, sia perché tiene a battesimo una nuova collana delL’Orma Editore, sia per la sua straordinaria ricchezza.

Tra le uscite più interessanti di questo 2019, una posizione di primissimo piano la occupa  Il gatto di piazza Wagner di Diego Lanza (1937-2018), sia perché tiene a battesimo una nuova collana delL’Orma Editore, I Trabucchi, sia per la sua straordinaria ricchezza, ben visibile sotto l’apparenza di testo memorialistico con cui si presenta.

Già, perché chi pensasse di leggere banalmente l’autobiografia di un apprezzato uomo di cultura, docente di letteratura greca per moltissimi anni presso l’Università di Pavia, si troverebbe in errore fin dall’incipit: «Di chi sono i ricordi? So di ricordare cose che non ho mai visto, che non avrei mai potuto vedere, che si compirono prima, persino molto prima della mia nascita. Eppure anche questi ricordi mi appartengono, sono miei». Ad ossessionare Lanza non è tanto il resoconto più o meno fedele della sua infanzia, tra gli ultimi anni fascisti e la Seconda Guerra Mondiale, quando si alternano figure diverse a cominciare dalla più problematica, quella del padre, lo scrittore Giuseppe, attorno a cui si radunano personaggi di spicco della cultura milanese del periodo e amicizie di famiglia (sebbene questo sfondo di intellettuali e il gusto dell’aneddoto abbiano un certo valore nella narrazione); non è, dicevo, la cronaca di passaggi irripetibili visti dalla posizione dell’uomo ormai formato a muovere la scrittura, quanto piuttosto la ricerca del senso dei ricordi, delle modalità con cui si imprimono nella nostra memoria assecondando meccanismi insospettabili e contraddittori.

Non a caso, alla tentazione di assumere posizioni di ostentata sicurezza, o di raccontare una storia (la sua storia) dal pulpito di un’anzianità dove ci si illude di tenere sotto controllo il flusso della memoria, si preferisce un atteggiamento umilmente dubitativo, ben disposto a interrogare il passato, quanto di esso rimanga nel tempo, quanto si modifichi nelle rielaborazioni mentali successive, quali ricordi facciano veramente parte del vissuto biografico di una persona e quali crediamo nostri pur avendoli solo assimilati da chi ci è vicino. La narrazione spesso si interrompe lasciando spazio a riflessioni e domande, spie di questa disposizione dubitativa di cui sopra, di quel rifiutare pose asseverative e indiscutibili (buone solo a imporre l’Io) a favore di un’apertura alla ricerca, al dubbio, che può poggiarsi soltanto su una prosa semplice e densissima come quella di Lanza, per nulla incline a luoghi comuni, ad ammiccamenti o ad ostentate esagerazioni stilistiche che sarebbero state solo in contraddizione con lo spirito del libro.

Di Diego Lanza, dei Trabucchi, dei ricordi e di molto altro abbiamo parlato con Lorenzo Flabbi, direttore e fondatore, assieme a Marco Federici Solari, delL’Orma.

 

***

 

È il primo libro dei Trabucchi. Cosa rappresenta questa nuova collana e come mai proprio il libro di Diego Lanza?

All’origine delL’orma, quando con Marco Federici Solari discutevamo della forma che avrebbe assunto la casa editrice, abbiamo deciso di cominciare attingendo ai due grandi bacini delle letterature francese e tedesca, che erano le nostre specialità. Abbiamo preferito evitare l’ambito anglofono, perché era già ampiamente frequentato da altri editori.

Non escludevamo di pubblicare un giorno testi italiani, ma abbiamo rinviato la questione a un secondo momento, che ipotizzavamo sarebbe arrivato cinque anni dopo. Ma cinque anni sono passati in fretta, e ancora non sentivamo necessaria l’apertura di una collana dedicata agli autori italiani. Finché l’anno scorso non ci siamo imbattuti nel Gatto di piazza Wagner. Da poco era scomparso Diego Lanza, e dalle sue carte era venuto fuori questo testo iniziato nel 2007. Simone, il figlio e mio caro amico, mi ha chiesto di leggerlo per il piacere della condivisione e per chiedermi eventualmente qualche consiglio sul percorso editoriale più opportuno. Ho intrapreso la lettura con grande interesse, perché avevo conosciuto l’autore, lo stimavo non solo intellettualmente e sentivo dunque anche una partecipazione affettiva. Arrivato a pagina 23, mi sono fermato per segnare a margine: «Sì, va pubblicato». E già pensavo alle eventuali indicazioni sulle case editrici a cui proporlo. A pagina 55 avevo già cambiato idea: «Dobbiamo farlo noi». Appena finito il dattiloscritto l’ho passato subito a Marco, che era già molto incuriosito. Nemmeno lui ha avuto dubbi: era arrivato il momento di pubblicare il primo dei Trabucchi. Ne abbiamo parlato con la famiglia Lanza che ci ha accordato la sua fiducia con entusiasmo.

Diego Lanza (foto di Photoshow)

E che mi dici del nome della collana? Ovviamente, tutti abbiamo pensato al vostro Eusebio Trabucchi.

Nella fase embrionale delL’orma, quando Marco e io eravamo a Berlino nel 2010-11, molti aspetti della futura casa editrice erano già perfettamente definiti: pensa che avevamo già scelto la sede di via Annia 58. Ma ci mancava ancora il nome. Allora abbiamo fatto una sorta di primarie con gli amici e il vincitore è stato «L’orma». Un nome che rimanda alla tradizione ma rappresenta anche il segno che speriamo di lasciare, oltre a essere una fusione delle nostre prime sillabe. Anche per la collana italiana volevamo un nome dalla doppia valenza, per così dire pubblica e privata.

Quella pubblica si trova nella prima pagina del libro: «Un trabucco è una macchina da pesca che un uomo solo non basta a manovrare». Si immerge nell’acqua per riportare alla luce i frutti del mare come un editore deve immergersi nella contemporaneità. Ma per azionarlo è necessario un gruppo di persone, dunque una comunità, e dove c’è comunità c’è anche politica. E poi il mare richiama il motto meno pubblicizzato delL’orma: Mobilis in mobili, la divisa del Nautilus di Verne. Ci teniamo perché richiama un’esperienza culturale precedente, quella di «Sguardo Mobile», sito e poi collana dedicata alla letteratura comparata. Ma anche perché corrisponde bene alla nostra idea di intellettuale, immerso nell’elemento mutevole della realtà proprio come il sommergibile del capitano Nemo. L’intellettuale deve avere sguardo mobile — l’espressione è di Montaigne —, deve guardare al di là del proprio naso senza paura della complessità.

L’elemento privato allude invece al nostro traduttore e curatore fittizio Eusebio Trabucchi: è uno pseudonimo che io e Marco usiamo per i lavori fatti insieme, simbolo del nostro legame intellettuale nonché religiosa evocazione di un illustre sodalizio novecentesco, quello tra Montale e Contini (che nelle loro lettere si firmavano rispettivamente Eusebio e Trabucco). Contini intitolò Una lunga fedeltà la sua raccolta di studi su Montale: la stessa fedeltà che ci auguriamo Marco e io.

Anche questo nuovo libro mi sembra che confermi una tendenza della vostra casa editrice: l’attenzione a scritture (più che al romanzo o alla narrativa in senso stretto) che abbiano una semplicità e una ricercatezza che le tiene lontane da ogni tentazione di “piattume medio”. Il libro di Lanza è memorialistico, ma allo stesso tempo c’è l’atteggiamento del ricercatore che si pone moltissime domande (esplicitamente), concedendo qualcosina anche al romanzesco.

Hai colto nel segno. In effetti, nel processo di ricerca e selezione dei testi da pubblicare, la lingua è la nostra prima preoccupazione. La trama non è irrilevante, certo, ma la sostanza di cui si compone il libro sta nella lingua. È come il marmo per lo scultore, o il colore per il pittore. L’elemento della ricerca linguistica è per noi una condizione imprescindibile per considerare l’eventuale pubblicazione di un libro.

Nel caso di Lanza, a parte la precisione scientifica della prosa, abbiamo avuto subito l’impressione di avere a che fare con uno scrittore, non con un “semplice” intellettuale, o studioso. Uno scrittore che prima di tutto si interpella sulla natura del proprio rapporto con la memoria (vedi l’incipit: «Di chi sono i ricordi?»). Perché ricordiamo le cose vissute, ma anche quelle che ci vengono riferite, che finiscono per concorrere alla formazione dell’identità. Mi torna in mente un passaggio di un libro che amiamo molto, Gli anni di Annie Ernaux, in cui viene detto che nella memoria le immagini dei morti delle vecchie generazioni coesistono e si mescolano alle immagini dei vivi che sono nati troppo tardi per conoscerli: «E così un giorno saremo nei ricordi dei figli in mezzo a nipoti e a persone che non sono ancora nate». Il tentativo di Lanza, a mio parere splendidamente riuscito, è di non sovrapporre la percezione del mondo dell’Io scrivente o ricordante (un uomo anziano e ormai saggio) alla percezione del mondo del bambino che viene ricordato. A quel bambino non attribuisce mai i pensieri che avrebbe pensato solo anni dopo, divenuto uomo. Quando si sorprende a utilizzare un termine troppo dotto, Lanza specifica: «come avrei poi imparato a dire in seguito». È la formulazione epidermica di un criterio di onestà nella scrittura che non abbandona mai.

La lettura del Gatto di piazza Wagner mi ha procurato anche un altro genere di sollievo: quello di incontrare una figura di intellettuale serenamente consapevole di esserlo, senza nessuna storta rivendicazione, senza polemici rancori. Un rappresentante di quell’ossatura sana del paese di cui aveva fatto parte anche il padre Giuseppe, lungamente rievocato nel testo.

C’è poi un’aria di famiglia, oltre che con Ernaux, con un altro libro che abbiamo pubblicato poco prima del Gatto: l’Autobiografia di mio padre di Pierre Pachet. Non si assomigliano molto, eppure li accosto volentieri, perché da entrambi il lettore trarrà un’impressione duratura, perché in nessuno dei due troverà cedimenti al compiacimento.

C’è poi una certa umiltà nella sua scrittura. Il suo è un atteggiamento dubitativo. Il fare domande, il ricercare, non è la disposizione del professore spocchioso che pretende di rivendicare la sua esperienza o la sua grandezza; si tratta, più che altro, di una persona che cerca di capire dubitando, ponendo questioni.

In letteratura, è questo l’atteggiamento che mi interessa di più. Preferisco di gran lunga il carattere dubitativo di Lanza alle tendenze gnomiche e declamatorie di altri autori, che stabiliscono un ordine del mondo da trasmettere al lettore così com’è: insomma, un’opinione fatta e finita piuttosto che uno spunto problematico. Non credo che la grande letteratura nasca dalle certezze monolitiche, ma dalla modesta, quotidiana esperienza della riflessione, da una faticosa e costante riappropriazione del ricordo.

Dubitare dei propri ricordi, se è vero quello che diceva Marquez che «la vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda», è un atteggiamento particolarmente complesso e interessante. Chiedersi cosa sia la vita, se tu per primo arrivi a domandarti cosa siano i ricordi e se questi ricordi non siano per caso quelli di qualcun altro, si trasforma in una ricerca molto intensa.

La conoscenza non può che passare per l’interrogazione dell’identità. Senza l’elemento interrogativo, ci limiteremmo a riceverla come un’eredità. Mi viene in mente quello che diceva T.S. Eliot a proposito della tradizione letteraria: la tradizione non si eredita, piuttosto è qualcosa di cui ci si fa carico e che poi si indaga. Ad esempio, perché nella tradizione letteraria dello stesso Eliot, accanto ai canonici Omero, Dante e Shakespeare, compare a pieno titolo anche il più inaspettato John Donne?

Alla stessa maniera potremmo trattare l’eredità delle generazioni precedenti. Quando Lanza rievoca il ricordo del padre, ce lo raffigura al tempo stesso dal basso verso l’alto (il bambino che guarda l’adulto) e da pari a pari (da adulto ad adulto). Il profilo emerge come quello di un personaggio di finzione, eppure carico di un affetto così umano, così umile… come quando ce lo descrive mentre cucina: un uomo che sotto il regime fascista fa i salti mortali per continuare a lavorare nel mondo della cultura e intanto, visto che è vedovo, deve anche imparare a occuparsi di suo figlio. Il tutto pervaso da una straordinaria sanità morale e di intenti… come ti dicevo, leggerlo mi ha fatto un gran bene.

Abbiamo parlato di ricordi, il tema più evidente del libro, di avvicinamento ai meccanismi con cui i ricordi si installano nella nostra memoria, come se si volesse fotografare quell’istante. Che ruolo ha la letteratura in tutto questo?

Ti rispondo con le parole di Ernaux: «Salvare qualcosa del tempo in cui non saremo mai più». È la conclusione degli Anni. Riprende, in un certo senso, quella premessa iniziale di cui parlavo prima: «Svaniranno tutte in un colpo solo come sono svanite a milioni le immagini che erano dietro la fronte dei nonni morti da mezzo secolo, dei genitori morti anch’essi. Immagini in cui comparivamo anche noi, bambine, tra altri esseri scomparsi prima ancora che nascessimo, nella stessa maniera in cui ricordiamo i nostri figli piccoli assieme ai loro nonni già morti, ai nostri compagni di scuola». È un’altra declinazione di quello stesso interrogativo sull’identità e sulla memoria con cui Lanza comincia il suo libro.

La letteratura è anche un modo per ingannare la morte, in un certo senso?

Sicuramente. 

Quali prossimi libri aspettano i Trabucchi?

Faccio un po’ di fatica a risponderti. Come ti dicevo l’idea di pubblicare Il gatto di piazza Wagner è nata da una lettura quasi casuale. Non abbiamo avuto nessuna fretta legata a esigenze di mercato o di distribuzione. Sappiamo che per lanciare una collana sarebbe bene presentare più titoli in un breve lasso di tempo… ma per i Trabucchi, a differenza di Kreuzville, Kreuzville Aleph e Pacchetti, abbiamo deciso di non stabilire scadenze: quando i libri ci chiameranno, allora li faremo. È verosimile che non ne usciranno più di due all’anno, perché il lavoro dietro ogni titolo è molto. Pubblicarne di più significherebbe rinunciare alla cura che siamo abituati a dedicare a tutti i testi.

Massimo Castiglioni
È nato a Roma nel 1988. Collabora con diverse riviste occupandosi prevalentemente di letteratura e cinema.
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