Le cose semplici e lievi non esistono
Sul finire dei suoi primi dieci anni, qui compiamo una piccola rivoluzione, abbandonando il nostro formato classico – quello del magazine culturale a cadenza vagamente quotidiana – per presentare ogni mese un solo saggio e un solo racconto. Da queste pagine 24 autori ogni anno proporranno il loro filtro sul reale, manipolando inevitabilmente la personalità di Dude mag: ed è una cosa che ci rende enormemente curiosi.
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Le cose semplici e lievi non esistono

  Invece nella mia mente ogni cosa sopravvive ma fa un rumore fragoroso e costante. Il silenzio è uno spreco che non mi posso permettere, ho costruito dentro di me una civiltà dove non regna mai una vera e propria pace e non c’è mai tregua. Mi trascino tutto dietro, compresa la parte destra del […]

 

Invece nella mia mente ogni cosa sopravvive ma fa un rumore fragoroso e costante. Il silenzio è uno spreco che non mi posso permettere, ho costruito dentro di me una civiltà dove non regna mai una vera e propria pace e non c’è mai tregua. Mi trascino tutto dietro, compresa la parte destra del mio corpo che oramai è franata su se stessa e non cessa mai di crearmi qualche tipo di problema. Dovessi svegliarmi con dei dolori, stanne pur certa, proverranno dalla parte destra del mio corpo: oggi è il turno della pianta del piede destro, della caviglia destra, del ginocchio destro, della scapola destra, dell’occhio destro o dell’emisfero destro del cervello? Che poi mi dicono essere quello da dove provengono l’istinto, la creatività, da dove provengono i sogni, la sintesi, la spiritualità, la percezione, il pensiero olistico, la comunicazione emozionale, insomma da dove proviene tutto ciò che non è razionale e ragionato e che richiederebbe il silenzio che non ho, da dove proviene tutto quel che sollecito ed esaspero ogni giorno, proprio come accade con ciò che amo. Anche se, devo dirtelo: non scrivo una parola da tempo immemore, non pubblico un articolo e non mi pagano da mesi. Anche se, devo dirtelo: non mi esce una lacrima da non so più quanto. Anche se, devo dirtelo: faccio dei sogni terribili, con i bambini morti e le case allagate. Ma di questo non ne faccio parola con la strizzacervelli, sono troppo impegnato ad assumere posizioni plastiche e a fare gesti sinuosi come se fossi dentro a un film ed ho solo un’ora di tempo per esibirmi in tutto il mio repertorio, inoltre devo cercare di farla parlare il meno possibile, interromperla, contraddirla, non posso mettermi anche a raccontare i miei sogni, si capisce.

Non preoccuparti se senti una certa tensione quando ti avvicini, è la mia lotta contro la cicatrizzazione. Ho calcolato che con il giusto tipo di attenzione è percepibile già da tre centimetri di distanza dal mio costato: se mi guardi bene la pelle, riesci a vedere dei lembi che tendono verso il loro unico scopo cieco e ostinato di cicatrizzarmi. Non accadrà mai, è la prima cosa che ti ho promesso. Anche se, devo dirtelo: ho lasciato il costato e la spina dorsale appesi a una lampada in una stanza di Roma Nord e ora sono oggetto di studi freddi e scientifici che mi auguro di cuore possano portare ai più brillanti e insperati risultati.

Ci sono le ossa rotte e c’è la riabilitazione. Bisogna risolvere un problema per volta. Io invece risolvo il minimo indispensabile, possibilmente la parte più semplice da risolvere e poi basta, ho la coscienza pulita e poco tempo da perdere, esco, mi tolgo le bende e vado a farmi un giro ed è così che ho allevato il disastro stratificato come solo i millenni possono fare, non sono nemmeno più in grado di quantificarlo. Questo anche perché non ho un elicottero per sorvolare su tutta l’immensità del mio male e avere una visione panoramica dei danni, dei morti e dei feriti, dei crateri, delle voragini e delle crepe su di me. Quando ti ho detto che non permetterò mai a nessuno di cicatrizzarmi, tu mi hai detto che lo vedi bene che ci faccio passare le montagne tra le ferite e mi hai detto «io sono una montagna». Questo è tutto da dimostrare, vacci piano con le parole. Mi hai detto che lo vedi bene il mio corpo santo percosso dai vulcani in eruzione e dalle ere glaciali, mi hai detto: se cicatrizzi, muori divorato da dentro, mi sta bene se non cicatrizzi mai. Non cicatrizzare mai mi hai detto e io ti ho promesso che non cicatrizzo mai. Ma è una promessa falsa come tutte le promesse, una volta ho promesso che non sarei morto mai e invece eccomi qua.

Quando mi hai incontrato non dormivo da tre settimane, le giornate erano un unico e protratto attacco di panico e avevo le solite allucinazioni ai lati degli occhi, ero convinto di immaginare buona parte di quello che mi accadeva, a tal proposito ho preso degli appunti, un elenco di episodi che non posso affermare con certezza di aver vissuto realmente:

 

– la ragazza che cammina al centro di via Merulana cantando nel traffico, che mi passa di fronte nel preciso momento in cui si accendono i lampioni;

– la cartomante che mi strattona in una piazza di Trastevere dove mi ero perso e che mi regala la carta del Carro con scritto sostare nelle reti del mio sogno e divenirne partecipi;

– l’insegnante di yoga con le sopracciglia verdi che mi spiega il significato di un mantra per liberare la felicità che non ricordo più, e a cui ho risposto «non me ne frega un cazzo di quello che stai dicendo»;

– la bionda seduta tutti i giorni al tavolo di fronte al mio durante la pausa pranzo, che mi  è venuta incontro mentre ero in fila per il bagno una di queste notti sovrapposte e che mi ha detto «ti riconosco, sei quello che non si toglie mai gli occhiali da sole, è la prima volta che ti vedo senza gli occhiali da sole».

 

E sarò sincero, credevo che fossi un’allucinazione anche tu quando sei arrivata, credevo che fossero un disturbo della percezione le tue gambe che sono più lunghe delle rotaie che ti hanno portato fino a qui assieme ai tuoi discorsi sui Tindersticks e su Cioran, per dirmi che ho gli occhi stanchi. Io ho pensato: sei il momento giusto, sei il posto giusto, io sono stanco morto. Ho appena raso al suolo grattacieli lungo trenta ettari di cuore e ci ho piantato un albero di limone.

Ho pensato: sono quasi morto in una tranquilla città svizzera da cui sono stato bandito e ripudiato e le mie statue sono state tirate giù nottetempo assieme ai ponti e a tutte le vie di comunicazione, come posso sperare di sopravvivere se mi metto a vagabondare in uno Stato americano con la pena di morte in vigore, se il mio sguardo perso nel vuoto è diventato leggendario e non ascolto la voce del tabaccaio che mi porge il resto. Come posso sperare di sopravvivere con un nuovo trasloco addosso, come posso sperare di cavarmela semplicemente comprando un’altra agenda o iniettandomi un nuovo tatuaggio auspicando che almeno perforandomi la pelle possa crearsi una via d’uscita che mandi fuori la caligine che si è addensata attorno alla mia anima.

Se penso alla fatica che ho fatto per riuscire a cambiare telefono, come posso sperare di sopravvivere? Ho impiegato mesi e mesi per abituarmi all’idea, solo perché non potevo immaginarmi con un altro telefono tra le mani e di dovermi svegliare con il senso di estraneità inesorabile ogni giorno, anche se il vecchio modello era ormai tutto rotto e non funzionava più, io gli volevo un gran bene anche coi suoi difetti, anche se ci volevano dieci minuti per accenderlo, quello era il mio telefono, con l’adesivo sbiadito dietro, le ammaccature, il tasto che non funziona, le foto di pessima qualità, non potevo farne a meno all’improvviso. Come posso sperare di sopravvivere se mi chiedi di riuscire a cambiare all’improvviso gli occhi, il naso, l’ombelico, le ginocchia, la fronte, il mento, le sopracciglia, i nei, le dita, gli zigomi, le vertebre, i capelli da baciare?

Edoardo Vitale
Scrive di musica, cinema e attualità su vari magazine.
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