Ho frequentato un corso di spagnolo all’Istituto Cervantes di Roma dal 18 al 29 luglio 2011. Delle due settimane di corso conservo un ricordo nitido, in particolare quello della professionalità dell’insegnate e della simpatia degli altri allievi; ma ora vorrei parlare di un episodio significativo. Durante una delle prime lezioni, io e i miei compagni di corso abbiamo dovuto svolgere un’esercitazione sul lessico spagnolo; in sostanza, il compito prescriveva di abbinare il nome di un oggetto all’immagine dell’oggetto stesso. Correggendo i nostri errori e suggerendo il significato dei termini, l’insegnante ci ha illustrato il caso particolare della doppia traduzione del termine ‘macchina’ nella lingua spagnola: nella Penisola Iberica macchina si dice coche, mentre nell’America centrale e meridionale carro. Di questo esempio mi ha sorpreso la variabile storico-geografica, ossia l’aver confrontato l’uso della lingua spagnola in Spagna, stato europeo ed ex impero coloniale, e il corrispettivo nei paesi americani, ovviamente appartenenti a un altro continente e, soprattutto, ex colonie della Spagna.
Nelle lezioni di linguistica generale e di storia della lingua italiana che avevo seguito all’università, i docenti mi avevano sensibilizzato alla variazione diatopica – cioè alla modificazione dei tratti fonetici, lessicali e sintattici di una lingua dipesa dalle diverse aree geografiche dei parlanti –, però mi avevano insegnato a verificare gli effetti del fattore diatopico sulla lingua italiana nei diversi usi delle regioni dell’Italia (per esempio, nel Lazio si sfrutta il passato prossimo dell’indicativo per riferirsi a qualsiasi evento del passato, mentre in Sicilia si fa la stessa cosa con il passato remoto), non nelle differenze tra l’italiano parlato in Italia e quello utilizzato, benché in percentuali irrisorie, nelle ex colonie italiane (Eritrea, Somalia, Libia ed Etiopia).
Il mio stupore di fronte alla spiegazione dell’insegnate di spagnolo e l’atteggiamento dei miei professori sono sintomatici della difficoltà della cultura italiana di rapportarsi al proprio passato coloniale, da un lato, e ai territori e alle popolazioni ora non più soggetti alla dominazione italiana, dall’altro. La stessa incapacità non appartiene a Igiaba Scego, nata in Italia da genitori somali e autrice del racconto Dismatria, inserito nella raccolta Pecore nere. Racconti (2005) curata da Flavia Capitani ed Emanuele Coen per gli Editori Laterza.
Il concetto di dismatria richiamato nel titolo del racconto deriva da quello di matria, che la scrittrice Tiziana Colusso, nella prefazione alla seconda edizione del volume La quarta sponda. Scrittrici in viaggio dall’Africa coloniale all’Italia di oggi di Daniele Comberiati – nel quale si può leggere un’intervista rilasciata all’autore da Scego –, ha definito come un completamento del significato dell’idea di patria. Colusso, infatti, ha chiarito che l’elaborazione della nozione di matria serve a rivendicare il ruolo e la specificità delle donne (corporale, intellettuale, sociale, ecc.) nella costruzione di una comunità nazionale e nella valorizzazione del senso di appartenenza ad essa e, soprattutto, ha notato che per le scrittrici come Scego, sospese tra la cultura italiana e quella delle ex colonie, il dominio esemplare di tale rivendicazione è naturalmente la letteratura. Tuttavia, alla matria, intesa come la traccia e il risultato del legame peculiare delle donne con un paese, Scego ha aggiunto la dismatria, che, invece, in assonanza con il termine ‘espatrio’, coglie la difficoltà delle donne di identificarsi con la nazione d’origine e, al tempo stesso, con quella in cui sono immigrate.
In effetti, la famiglia descritta nel testo di Scego, composta di cinque donne e un bambino, lasciò la Somalia nel 1969 a causa della guerra civile e ora si trova a Roma. Dalla prospettiva di una delle cinque donne, la voce narrante del racconto, Scego ha rappresentato il doppio vincolo di questo nucleo familiare con la Somalia e l’Italia, il quale è simboleggiato dalle valigie e da un armadio.
Ogni membro della famiglia possiede una o più valigie in cui riporre le proprie cose, come se tutti fossero pronti a partire improvvisamente per la Somalia. Quindi, avere sempre le valigie pronte equivale a essere in perenne attesa del ritorno alla terra d’origine. Invece, di un diverso tipo di attesa parla la voce narrante, l’unica che desidera sostituire le valigie con un armadio. Un armadio, infatti, rientra in una complessa rete di associazioni: un armadio implica una casa in cui metterlo, la quale a sua volta racchiude in sé il bisogno di sicurezza e stabilità, che di conseguenza comportano la rinuncia alle valigie e la fine dell’attesa infinita del ritorno, le quali, infine, vogliono dire rimanere in Italia. Insomma, valigie/Somalia e armadio/Italia: due modi apparentemente discordanti di esplicitare l’appartenenza a un luogo, ma sicuramente concordi nell’eleggere come terra promessa due realtà, quella somala e quella italiana, nelle quali o non si può tornare, perché ci si sente comunque uniti a un altro posto, o non si può stare, perché si è ancora legati a quello precedente. Scego ha risolto il dilemma rovesciando la scelta tra due opposti nella compresenza di due fattori: «(…) sentirsi italiani non significava tradire la Somalia» e, aggiungo io, essere qualcos’altro non significa tradire l’Italia.
Simone Di Brango
BOOKSKYWALKER: Come Lukeskywalker cerca di sollevare l’astronave dalla palude di un pianeta sconosciuto, Bookskywalker cerca di sollevare la letteratura dalla vischiosa melma che è la vita, in un pianeta sconosciuto che è il nostro. In questa rubrica per DUDE si occuperà di racconti (sconosciuti, famosi o famosissimi) e li proporrà come fascinosa alternativa alle nottate alcoliche e alle droghe sintetiche.
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