«Essere indispensabili per qualcuno è già una cura» — Intervista con Eleonora Tomassini
Sul finire dei suoi primi dieci anni, qui compiamo una piccola rivoluzione, abbandonando il nostro formato classico – quello del magazine culturale a cadenza vagamente quotidiana – per presentare ogni mese un solo saggio e un solo racconto. Da queste pagine 24 autori ogni anno proporranno il loro filtro sul reale, manipolando inevitabilmente la personalità di Dude mag: ed è una cosa che ci rende enormemente curiosi.
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«Essere indispensabili per qualcuno è già una cura» — Intervista con Eleonora Tomassini

Irmgard Keun (1905-1982) è una scrittrice già entrata nella leggenda per i particolari legati alla sua vita: ha inizialmente tentato la carriera d’attrice, salvo ripensarci quasi subito, nel 1929; ha stretto contatti con alcuni dei personaggi più interessanti della cultura tedesca del periodo (e proprio uno di loro, Alfred Döblin, l’ha spinta verso la scrittura); […]

Irmgard Keun (1905-1982) è una scrittrice già entrata nella leggenda per i particolari legati alla sua vita: ha inizialmente tentato la carriera d’attrice, salvo ripensarci quasi subito, nel 1929; ha stretto contatti con alcuni dei personaggi più interessanti della cultura tedesca del periodo (e proprio uno di loro, Alfred Döblin, l’ha spinta verso la scrittura); ha avuto una relazione con Joseph Roth; ha addirittura avuto il coraggio di citare il regime nazista per danni, dopo che alcuni suoi testi erano stati inseriti in una lista di libri nocivi nel 1933, per poi andare in esilio volontario tra il 1936 e il 1940 (anno in cui sceglie di rientrare in patria sotto falso nome). Una vita avventurosa come non mai segnata, in seguito, anche da crisi depressive e alcolismo.

In mezzo c’è stata una lunga fedeltà alla letteratura, con l’elaborazione di molti romanzi che, finora, non avevano trovato grande riscontro qui in Italia. Bisognava aspettare L’Orma e la sua sensibilità affinché la Keun si guadagnasse il suo posto nelle librerie: dopo Gilgi, una di noi (il romanzo d’esordio) e Doris, La ragazza misto seta, rispettivamente licenziati nel 2016 e 2017, ecco che sul finire del 2018 arriva Una bambina da non frequentare, tradotto egregiamente, per la prima volta in italiano, da Eleonora Tomassini ed Eusebio Trabucchi.

 

 

Pur essendo stato scritto nel 1936, l’autrice ha ambientato la storia nel 1918, nella familiare città di Colonia (vi ha vissuto a partire dal 1913), dove la bambina del titolo vive le sue birbonesche avventure che riescono ad accattivarle solo il disappunto delle persone che la circondano. Il contrasto tra il mondo infantile, che ci viene descritto in prima persona dagli occhi della protagonista, e quello adulto di una Germania messa in ginocchio sul finire della guerra (e in cui si intravedono i tratti del paese che, di lì a qualche anno, finirà in mano ai nazisti) costringe il lettore a un particolare effetto di straniamento, a osservare da un punto di vista diverso, e ormai dimenticato, le abitudini e le ipocrite convenzioni di quegli strani esseri che sono gli adulti, con i loro vizi e la loro mediocrità. La bambina segue il suo istinto proprio perché lontana dalla mentalità dei genitori, della maestra, della preside, di quelle figure autoritarie che impongono un loro modello puntualmente rovesciato di avventura in avventura.

La serialità della narrazione e il gusto per la beffa fanno di Una bambina da non frequentare un degno erede del romanzo picaresco; certo, rispetto agli antenati spagnoli, a Lazarillo o al Buscon di Quevedo (che nel corso della storia della letteratura hanno cambiato nome, forma e luogo, diventando di volta in volta Tom Jones, Huck Finn o Pinocchio), la bambina della Keun non soffre la povertà e non viene da genitori filibustieri, ma non meno di loro riesce a cacciarsi sistematicamente nei guai, a combinarne di tutti i colori e ad imparare a cavarsela in un mondo di cui (fortunatamente) non riesce ancora a capire le stranissime regole.

Del romanzo, di Irmgard Keun e di altro ancora abbiamo parlato con la traduttrice, Eleonora Tomassini.

Irmgard Keun è stata una scrittrice poco tradotta in Italia che ora sta vivendo un’importante fase di rilettura grazie a L’orma. A cosa era dovuta, secondo te, quella relativa indifferenza e da dove nasce questa fondamentale spinta di riscoperta?

Purtroppo a volte capita che dei testi bellissimi o degli autori interessanti passino in sordina, senza ottenere il successo che meriterebbero. Colpa dell’edizione forse, del target sbagliato, della traduzione, o magari dell’incapacità di suscitare il giusto interesse. Gilgi addirittura era uscito in un’edizione dimezzata dalla censura fascista. Per Una bambina da non frequentare si tratta invece della prima traduzione italiana. Il merito di aver riportato questa scrittrice in Italia va tutto alL’orma. È grazie alla cura con cui Marco Federici Solari e Lorenzo Flabbi selezionano i libri del catalogo e a quella con cui si lavora in redazione se la Keun è riuscita a conquistare anche i lettori italiani e a contribuire a far piazza pulita di alcuni pregiudizi sulla letteratura tedesca.

Cosa ti affascina della scrittura di questa autrice?

Prima della sua scrittura è stata la figura dell’autrice ad affascinarmi: donna e scrittrice libera e inarrestabile. All’inizio degli anni Trenta il suo primo romanzo, Gilgi una di noi, ha ottenuto un successo tale da far pensare ai lettori che non potesse esser frutto di una penna femminile. E poi il rogo dei libri da parte del regime nazista, l’esilio, e lei che continua a scrivere. Le sue protagoniste sono schiette e irriverenti, anche quest’ultima, più giovane, ma con le idee non meno chiare delle sorelle maggiori Gilgi e Doris. E persino la lingua è così, schietta e sferzante. Come si fa a non restarne affascinati?

Se ti va di raccontarcelo, hai incontrato difficoltà nella traduzione o la prosa della Keun si è dimostrata disponibile nei confronti del tuo lavoro?

Il fatto che la storia sia narrata in prima persona da una bambina di 10 anni fa sì che la lingua non risulti così complicata. Probabilmente la difficoltà più grande è stata quella di renderla il più colorata possibile e di dare il giusto tono a una bambina sempre con la risposta pronta. È uno di quei libri in cui il tono è tutto.

Il romanzo, narrato dal punto di vista della bambina, costringe a una sorta di straniamento, a guardare il mondo degli adulti da una prospettiva diversa che mette gambe all’aria quel mondo con tutte le sue contraddizioni. Un effetto che ha notevoli risvolti ironici, ma non solo.

Sì, è la vecchia idea del bambino che è il solo a vedere e dire che il re è nudo. Attraverso la sua protagonista, Keun racconta il mondo prima che prenda la forma dei pregiudizi degli adulti, ma sfrutta anche le incomprensioni e le ingenuità della “bambina da non frequentare” per suscitare irresistibili effetti comici. Il lettore rivive la libertà infantile e al contempo è chiamato a vedere il proprio mondo con occhi più freschi.

Tra le pp. 112-113 c’è questo passo interessante: «Hans Lachs sostiene che un bambino abbia il dovere di impedire ai genitori di frequentare certa gente. Parola d’onore se non è vero che i genitori ti proibiscono le cattive compagnie e poi loro ne hanno di ben peggiori. Noi giochiamo solo con bambini che non alzano le mani… gli altri, se se la cercano, li conciamo per le feste». Sono gli adulti che si prendono cura dei bambini o il contrario?

È un concetto bellissimo, questo. Sono i bambini a prendersi cura degli adulti, ne sono certa. Essere indispensabili per qualcuno è già una cura.

 

Il lettore adulto, a proposito dello straniamento di cui parlavamo prima, si trova in una curiosa posizione: non può non essere partecipe del punto di vista della bambina, ma inevitabilmente lui fa parte del mondo degli adulti, di quelli che spingono i bambini a giocare con altri bambini mai visti prima ma che non si metterebbero di certo «a parlare con gente sconosciuta nei locali». Traducendo e leggendo hai riscontrato una sensazione del genere?

A dir la verità, forse complice la mia giovane età, complice la voglia di rendere al meglio la traduzione, mentre ci lavoravo non ho provato questo senso di straniamento. Anzi, mi ha trasmesso una sorta di energia. Fin da subito mi sono immedesimata nella bambina, sono sempre stata dalla sua parte, mi sono vista farmi «dare una sistemata» ai vestiti in disordine e mi sono sentita dire di «camminare davanti» (ma questo è stato facile, mio padre lo fa ancora).

È un romanzo ambientato nel 1918, e riflette il clima drammatico della fine della guerra, ma l’autrice l’ha scritto durante un esilio olandese nel 1936 (e stiamo parlando di una donna che ha denunciato il regime nazista per danni a seguito delle censure); quanto c’è, nel libro, di quella Germania del 1936?

Questo è il terzo romanzo di Keun e il primo composto in esilio. La scelta di ambientarlo nel passato (a differenza di quasi tutti i suoi altri libri che raccontano sempre il presente in cui viveva) è forse dovuta in parte a un desiderio di fuga nei territori rassicuranti dell’infanzia (Keun stessa aveva 13 anni nel 1918), ma è di certo anche figlia del desiderio di narrare un’altra epoca di crisi della Germania e di tracciare dei parallelismi fra la traumatica fine della Prima guerra mondiale e la propria patria caduta in mano ai nazisti: la stessa ottusa piccola borghesia (irrisa, non senza intima partecipazione, in tanti, esilaranti capitoli), lo stesso odio insensato per gli stranieri (splendide sono le pagine in cui la bambina diventa amica di un soldato prigioniero per cui prova subito un’empatia naturale), la stessa malcelata crisi economica (e l’episodio dell’orso del circo così denutrito da soccombere all’assalto di una decenne vale quanto mille saggi sociologici).

Tu hai studiato letteratura tedesca e francese, ma nel lavoro di traduttrice, scusa se la domanda è banale, con quale delle due lingue e letterature ti senti più a tuo agio? E perché?

Finora ho avuto modo di lavorare solo con il tedesco, Una bambina da non frequentare è il primo romanzo che traduco. Però, se dovessi scegliere da un punto di vista prettamente linguistico, sarei costretta a rispondere il francese. È una lingua romanza, la sento più vicina e naturale, per me la comprensione e l’espressione sono, inevitabilmente, più immediate. Poi, comunque, quando mi cimenterò con questa lingua, ti saprò dire.

Progetti di traduzione futuri?

Sto per cominciare a tradurre un altro libro, un giallo, ma non potrei dirne di più perché non ne so molto nemmeno io. Stavolta mi toccherà mettere da parte i gessetti e le decalcomanie della Bambina. E poi qualche proposta nel cassetto…

Massimo Castiglioni
È nato a Roma nel 1988. Collabora con diverse riviste occupandosi prevalentemente di letteratura e cinema.
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