Siamo ormai ad inizio ottobre e direi che l’estate è finita veramente. È tempo di riflessioni e anche, visto che varie riviste e blog hanno avuto la mia stessa idea, parlare di qualcosa che mi sta a cuore ma, al contempo, è diventato (quasi) un problema nazionale. Qualche giorno fa un mio amico mi ha detto che non è mai stato in Salento. Io gli ho risposto di prendere una Delorean, tornare a dieci anni fa, e poi andarci. Perché questa risposta? Perché in pochi anni il Salento come destinazione turistica è cambiato drasticamente, e non per forza in maniera positiva. In realtà basterebbe andare fuori stagione, giugno o settembre, per evitare situazioni alquanto spiacevoli e godere di sano relax; ma questa soluzione, in futuro, potrebbe non bastare.
Urgono delle precisazioni doverose: ogni critica mossa ha il fine di parlare di determinate criticità solo perché in realtà vorremmo che non esistessero. Sono salentino tanto quanto romano: tutta Italia vanta parentele al Sud, lo sappiamo tutti che in fondo in ogni famiglia c’è una zia Carmela di turno e teglie di leccornie dove l’olio è l’ingrediente principale in tavola ogni fine settimana. Insomma, siamo tutti terroni e io non faccio eccezione, “giù” mi ci hanno anche battezzato, facendomi fare il bagno nella cristallina acqua salentina per la prima volta (e a mia insaputa). Per quello che riguarda il turismo: ho due pezzi di carta che, invece di stare al bagno a svolgere la loro funzione naturale, sono incorniciati e appesi sulle pareti.
Nel periodo clou dell’italiano in vacanza, l’estate, il Salento è una delle mete più in voga. Vanta un rapporto qualità prezzo quasi imbattibile all’interno del portafoglio destinazioni nazionali, con una offerta variegata che attira segmenti differenti. Vanta tradizioni, storia e attrazioni culturali e naturalistiche unite al fatto che, più o meno ovunque nel suo territorio, si mangia e si beve in maniera clamorosa. È un luogo che ha ciclicamente attirato generazioni differenti, senza peraltro sfruttare enormi strumenti di marketing, a parte aver usato al meglio la Film Commission e i fondi dell’UE. L’elemento vincente è stato l’intramontabile strumento del passaparola: è un luogo talmente bello che si promuove da sé. Mi voglio soffermare sul luogo vicino alla mia seconda casa, protagonista del fenomeno di cui mi appresto a parlare: Gallipoli.
Per qualche scherzo del destino è Gallipoli la città salentina designata a “divertimentificio” di turno, per usare la terminologia cara a Marc Augè. Gallipoli si è trasformata in relativamente pochissimi anni, con un boom sotto gli occhi di tutti, che ha attirato la parte peggiore del turismo: quello di massa, composto in prevalenza da giovani in un periodo della vita in cui i neuroni si muovono alla velocità di un criceto che corre su una ruota e in cui l’interesse culturale è sostituito da: «Stasera andiamo a ballare e ci beviamo il mondo, figa!», e da occhiali a specchio. A settembre non c’era home di Facebook intasata di album fotografici intitolati «La mia estate a Gallipoliii!!1!!1». La località in questione, così come ogni tourism destination, dispone di punti di forza e criticità. Il punto di forza è la presenza di due golfi, a nord quello di Rivabella e a sud quello di Mancaversa (dove c’è la Sodoma di turno: Baia Verde) che garantiscono qualche km di spiagge riparate su un mare dai colori intensi che leva il respiro. La criticità è rappresentata dalla forma ad imbuto di Gallipoli, e dalle sue dimensioni. È una città di ventimila abitanti, e le strade per arrivare sulla costa sono, più o meno, due. Ed è qui, dove già da Maggio si può far finta di stare ai Tropici, che si è scelto di puntare sul segmento 4 S tourism: Sun, Sea, Sound and Sex. (accademicamente al posto di Sound c’era Sand, ma in questo caso la definizione è stata cambiata in relazione al modello di riferimento adottato dagli stakeholders locali). Proprio loro, gli imprenditori, sembrano non accorgersi del danno che stanno auto infliggendo al territorio che ha fatto la loro fortuna e al possibile destino al quale lo stanno condannando. Avete mai sentito parlare di turismo sostenibile? Avete presente Rimini, Cancun, Bali, Phuket? Ecco, lì non ne hanno sentito parlare e ora stanno messi malino: destinazioni in crisi, dove si sono create delle dinamiche distruttive del territorio e delle differenze sociali che hanno messo in crisi non solo il settore turistico, ma anche quello economico, culturale e ambientale, rischiando di fare uscire le suddette dai circuiti del turismo internazionale, for good. Tradotto, non ci vuole andare quasi nessuno e fra un po’ non ci mangiano più, mai più.
Non a caso a Rimini è comparso uno striscione con su scritto «Grazie Gallipoli per averci portato via i napoletani» (fonte la Repubblica del 25/08/13).
A Gallipoli e dintorni, in nome del dio Denaro si è scelto di aprire le porte (o le gabbie) e far venire quante più persone possibile, non tenendo conto di una cosa che si chiama “capacità di carico” della destinazione: un numero che stabilisce quante persone può ospitare, in termini di impatti, una determinata destinazione.
Il presidente del Silb (Assocazione Italiana Imprese di Intrattenimento da Ballo e di Spettacolo), Pasca, afferma: «Fino alla seconda metà di luglio è andato tutto bene, finché una città con 20mila posti letto è stata travolta da qualcosa come 300mila persone, secondo i numeri della stessa amministrazione comunale…quello che si è visto a Gallipoli non si può definire turismo, ma un ammasso di gente che si è prodotto in comportamenti indegni del genere umano, questi stupri appunto» (da la Repubblica del 25/08/13). Ma andiamo con ordine.
Va da sé che un surplus di presenze del 280% rispetto alla capacità delle strutture ricettive può creare qualche “piccolo” problemino.
L’effetto antropico sulla destinazione si vede in moltissime cose. La prima è l’inquinamento. Mi pare ovvio che una città con ventimila abitanti, con una capacità di carico di più di ventimila guests, faccia fatica a smaltire il surplus degli altri 260.000 che, come tutte le persone, mangiano, guidano, vanno al mare, consumano ed “espletano”.
Mangiano, appunto: considerate che il fish dependence day (ovvero il giorno in cui si comincia a dipendere dal pesce importato) in Italia per il 2013 è arrivato il 14 Aprile.
«In sostanza le scorte nazionali si esauriscono sempre prima, siamo a solo 104 giorni di “indipendenza ittica” l’anno ormai, costringendo materialmente i consumatori a dipendere dalle importazioni di pesce per il proprio fabbisogno. Una situazione che riguarda l’Italia e tutta la Ue» (da La Stampa del 14/04/13).
Secondo voi, quindi, ad Agosto c’è pesce fresco tutti i giorni per trecentomila persone?
Guidano, appunto: per i parcheggi non si rischia di avere nostalgia di Roma, dove se trovi un parcheggio esulti come Totti sotto la curva sud. Oltre ai parcheggi del Comune ci sono quelli privati, spuntati come funghi a discapito della macchia mediterranea, e c’è il sospetto che i cinque euro (sic) della tariffa finiscano nelle tasche della malavita: «Sabato 20 agosto, dopo uno stop durato poco più di 48 ore imposto dalla prefettura per gravi sospetti riguardo l’influenza della criminalità organizzata sulla cooperativa interessata, sono stati riaperti i parcheggi sulla litoranea sud con il servizio gestito da un’altra società» (da Piazzasalento del 22/08/13). Per non parlare degli ingorghi che si creano sulla litoranea che passa per Baia Verde, a senso unico, dove l’ambulanza, se qualcuno si sentisse male (ovvero tutti i giorni), farebbe prima ad arrivare dal mare. Unica nota positiva: essendo il problema circolazione talmente evidente in una città dove il trasporto pubblico praticamente non esiste (non ci sono neanche taxi comunali) qualcuno ha avuto la brillante idea di mettere centinaia di biciclette in affitto e, ad agosto, Gallipoli ha la stessa percentuale di bici di un qualsiasi paese olandese, e questo non può che far piacere. Solo che non lo si fa per modus vivendi, come gli olandesi, ma per business.
Vanno al mare, appunto: se siete appassionati di un grande gioco arcade come il Tetris, allora la spiaggia è il luogo per voi! Trovare uno spazio dove mettere il vostro asciugamano richiederà tutta la vostra abilità ma, una volta trovato, ecco rivelata la grande, giovane, bellezza.
Costumi a mutanda, sopracciglia rifatte che sembrano ali di gabbiano e sagre del tatuaggio brutto vi allieteranno insieme ad orde di Pr e gente che si muove in continuazione manco fossimo in un formicaio. E lì, in mezzo ad una spiaggia coperta di flyer abbandonati, dove la sabbia ha l’odore della nicotina, il disagio si completa col contrappasso dantesco destinato a tutti quelli che non hanno almeno venti euro al giorno da spendere per un lettino/ombrellone in uno stabilimento: ritrovarsi su striminzite spiagge libere destinati ad ascoltare un dj-set perennemente fuori sync.
Sul consumo il discorso si fa serio: l’impatto economico del turismo ha qui positivi ed evidenti effetti diretti, indiretti e indotti. Peccato per i modelli di riferimento, di cui parlavo in precedenza, che dettano l’orientamento dei consumi. I modelli in questione sono Rimini, Ibiza, Saint Tropez, ovvero la “movida”, quella cosa sbagliata sin dalla sua etimologia. È infatti qui che si concentrano la maggior parte delle discoteche e dei lidi che diventano discoteche per tutto il pomeriggio, tutti i pomeriggi; ma la club culture, quella vera, qui non sanno neanche cos’è. Dal punto di vista del marketing non posso che fare un’analisi cristallina: a domanda risponde offerta. Si è creata la domanda per musica brutta e alcool ventiquattro ore al giorno? Bene, tu offri quello e in quattro mesi guadagni per stare bene svariati anni. Chapeau. Peccato che il pubblico sia variegato e che ci sia una grandissima fetta di persone, inclusi molti locals, che si lamentano e che non solo evitano di tornarci, ma creano un danno d’immagine difficilmente quantificabile economicamente. Se chi gestisce i locali pensa che bastino le guest delle label techno più importanti per fare clubbing, non ha capito nulla. Servono persone preparate, che sappiano cosa voglia dire festa, techno, rispetto, che conoscano come comportarsi, chi suona e cosa, e che sappiano a chi rivolgersi. E questo riguarda sia il pubblico quanto i promoters. Che senso ha, infatti, fare feste dove i decibel sono limitati, così come l’orario? Nessuno, a parte l’incasso. L’imperativo comportamentale è l’apparire, sembra che si soffra di un senso di inferiorità verso quelle località, più emancipate, o di una nostalgia per quell’atmosfera propria del film Abbronzatissimi, che qui ancora rappresenta la scala di valori del turista medio: conta più prendere un tavolo o il famigerato privée, che stare in pista. Poco conta se questi stiano alle spalle della consolle, dove non ci sono casse. Paghi di più per stare dove non si sente nulla, l’importante è starci! E magari rimorchiarti l’indigena. Jerry Calà sarebbe fiero di te. Conta spendere trecento euro per una bottiglia che al massimo ne costa quaranta in un negozio, con la differenza che nel locale te la portano con un bengala, per far notare anche ai “distratti” che sei un gallo perché hai appena speso mezzo stipendio. E poi la door selection: in alcuni locali senza camicia bianca o celestino- ufficio e Hogan non entri, non importa che non c’è nessuna guest, devi essere uno giusto. Si punta sul riciclo dei turisti, che in genere si fermano poco tempo spendendo tutto in meno di una settimana, e quindi si riempie il calendario di eventi con nomi importanti a prezzi altrettanto importanti. La media è trenta euro a serata senza consumazione. Per carità, a me fa piacere avere una serata Cocoon heroes a due passi da casa, ma dentro poi chi trovo? Se volevo vedere The Walking Dead stavo a casa. E quei volumi? Cos’è, l’impianto della Chicco? E perché sul biglietto c’è scritto Kokun Iros? E se non bastasse metteteci un esercito di Pr impreparati con l’unico obiettivo di vendere prevendite interrompendo il relax ogni cinque fottuti minuti. Al tizio dal quale ho preso quella per la serata Cocoon ho chiesto se sapeva dirmi la line up, visto che tenevo a non perdermi Extrawelt: lui ha pensato che forse gli avessi detto una parolaccia in tedesco, a giudicare dalla faccia che ha fatto. Figuriamoci se poteva sapere a che ora suonava l’artista in questione uno che va in giro con la maglietta della suddetta serata! Scusa se ho chiesto, giovane amico barese. Per non parlare dei gemelli occhiale a specchio- maglietta di Seth Troxler che non sapevano neanche il costo della serata che vendevano, o di quella simpatica PR bionda che ha fatto diventare Carl Cox la nuova crossover della Chrysler: «Ragazzi stasera Car Cox?». Sul podio più alto però piazzo la Pr dello Smaila’s. Si, Umbertone nazionale Smaila ha aperto un localino giù a Gallipoli e manda in giro Pr che pensano che l’unico con in mano un libro in tutta la spiaggia possa essere interessato ad un locale di ultraquarantenni con la barca a noleggio. Le ho risposto male, i libri non li leggo sull’Ipad.
Lounge privée @ Baia Verde
«Il Salento è la nuova Saint Tropez, basterebbe spalmare meglio le presenze anche negli altri mesi dell’anno, come fanno in Francia» dice Umberto Smaila in una intervista al Quotidiano di Lecce del 23/08/13. Come dargli torto! Guarda quanti yacht! E quanti lounge!
I lidi discoteca poi meriterebbero un capitolo a parte. Ecco perchè Sound e non Sand. Ed è un sound pessimo, commerciale, randomico, ripetuto giorno e notte per persone uguali che vogliono bersi il mondo mentre si “geotaggano” sui social. Per qualche fenomeno antropologico sono tutti smodatamente felici e accettati all’interno del sistema beach party: o sei lì o sei fuori. O sei in piedi sul lettino. Questi simboli della catena di montaggio del divertimentificio giovane e autoreferenziale, dove in realtà nulla è veramente innovativo, sono macchine per soldi e sbronze in numero illimitato. Almeno tu, guru de noantri col microfono in mano, puoi fare un corso di dizione e smetterla di urlare parolacce unite a frasi improbabili mentre mi bevo il mio Mojito? Grazie.
Il risultato è tutto in questo titolo di Piazzasalento del 22/08/13: «Sacro Cuore, pensaci tu. Raffica di richieste di aiuto. Sotto stress pronto soccorso, 118 e consultorio».
Non c’è da stupirsi se Leo Palmisano, sociologo, afferma: «Ormai fra i giovani è diffusa l’equazione Gallipoli uguale luogo dello sballo h24. Effetto di aver voluto fare di questa città la Rimini del Sud senza però avere quell’organizzazione quasi manageriale che contraddistingue la riviera romagnola» (da la Repubblica del 25/08/13) o se i problemi che emergono sono «Abusivismo commerciale, appartamenti super affollati, decine e decine di tende accampate sul litorale, spiagge invivibili le prime ore del mattino, atti vandalici, una media di 80 interventi giornalieri del 118 solo per problemi legati all’abuso di alcol, violenze ambientali e non solo»(da Piazzasalento del 22/08/13).
Viene da sé che le persone che creano tutto questo non si preoccupano dei già citati impatti, né hanno cura dell’ambiente nel quale scelgono di passare le vacanze. Figuriamoci se pensano a gettare la spazzatura, raccogliere bottiglie, flyer e sigarette, per esempio. Tutto questo moltiplicato per centinaia di migliaia di persone, buona parte ubriaca.
L’impatto sul territorio, alla lunga, può distruggere i delicati equilibri che lo caratterizzano e andare ad avvelenare, come un virus, quei pull factor (fattori di attrattività) che in primo luogo hanno richiamato i turisti in un determinato luogo. Garantire un futuro al proprio territorio non è solo un atto di civiltà e maturità, ma anche una buona mossa commerciale. Se preservi quello che vendi, potrai continuare a venderlo, migliorandone la qualità e differenziandoti. Se invece fai tutto all’italiana, pensando al tuo portafoglio a breve termine, copiando male quello che fanno altri senza avere le stesse strutture, raccoglierai veleno e sarai responsabile del fallimento di tutto il sistema e non lascerai futuro, né lavoro, ai tuoi figli. Non mi sembra un ragionamento molto difficile da capire. Gallipoli è veramente la perla dello Jonio, perché trasformarla in pirla?
La colpa è di chi non considera i problemi prima che questi escano fuori (e sono problemi che si ripetono ogni estate) e di chi non fa nulla per contrastare le scelte sul come servire il target, le quali incidono poi sul territorio in maniera insostenibile. Il target giovane è privo di quell’educazione propria del turista responsabile, ed è ovviamente restio a spendere nel modo in cui lo farebbe un turista adulto o, meglio, una famiglia.
Mi fa un assist tale Federico, in una dichiarazione a Piazzasalento del 8/08/13: «Chi abita a Gallipoli ha tutto l’anno per dormire, noi siamo qui solo poche settimane e vogliamo divertirci tutta la notte senza pensare a niente. Alcuni nostri amici ci hanno riferito che questa è la città ideale per divertirci, conoscere gente nuova e fare tutto quello che vogliamo, senza alcun fastidio. Se avessimo voluto andare a letto a mezzanotte saremmo andati in vacanza da un’altra parte.» Grazie Federico, ora torna a correre sul tapis roulant di un episodio di Black Mirror.
Questo target non porta solo polemiche, ma anche fatti di cronaca. Oltre a quelli citati in precedenza posso citare un furto pittoresco in uno dei ristoranti più costosi di tutta Gallipoli: dei giovani hanno fatto una cena di pesce degna di un banchetto omerico, uscendo a fumare delle sigarette e lasciando, a riprova della loro buona fede, le borse all’interno del ristorante. Le borse erano piene di sassi, altro che Lupin! Oltre a questo episodio ce ne sono una miriade (tutti “effetti collaterali” da mettere in conto in base al target in questione), che hanno fatto partire il dibattito sui quotidiani locali, passando dalle dichiarazioni di Edoardo Winspeare, fino a quelle dell’assessore regionale alla Cultura Silvia Godelli che alla domanda sui lidi-discoteca ha dichiarato il 14 agosto 2013, vigilia di Ferragosto: «Innanzitutto bisognerebbe verificare se sono in regola con le leggi dello Stato. I Comuni lo fanno? Distruggono il vero turismo e la gente rischia di fuggire. Gallipoli che è un vero e proprio gioiello rischia di chiudere le sue attività produttive.» (da Quotidiano di Lecce del 14/08/13).
La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata una serie di denunce di stupri a causa di GHB, la droga dello stupro. Qualcuno ha visto una notte da leoni un po’ troppe volte, evidentemente. Ci sono stati quattro casi, due poi ritrattati, che hanno portato il prefetto di Lecce Giuliana Perrotta a convocare d’urgenza il comitato per l’ordine e la sicurezza, che ha stabilito «Lungo tutto il litorale di Gallipoli da ieri sino al termine della stagione sono vietati gli happy hour. Non si potranno vendere più superalcolici. Niente bottiglie e vietati anche quei cestelli da dieci litri di mojito con piantate dentro una trentina di cannucce. Ci sarà una riduzione di spettacoli e feste, che si potranno svolgere soltanto in un lido alla volta» (da la Repubblica del 24/08/13).
A queste dichiarazioni ha risposto il Sindaco di Gallipoli, Francesco Errico: «Ad agosto dopo la prima settimana la situazione ci è letteralmente sfuggita di mano: per il futuro sarà necessaria un’azione preventiva». Oltre al fatto che il divieto sia arrivato solo a fine agosto, è mai possibile che non si possa prevenire e pensare prima alle possibili conseguenze delle proprie scelte? Esiste una cosa che si chiama tourism destination management. La si usi.
Cosa ci si può aspettare poi dalle autorità? Repressione e divieti. E cosa portano i divieti oltre a mancati guadagni? Risalto sui media nazionali; i quali, a loro volta, portano cattiva reputazione. E quest’ultima? Quest’ultima è il male. Una volta creata una reputazione cattiva, questa si espande come l’aids in un posto dove non si vendono preservativi. Se poi si cambieranno le strategie, si provi pure a convincerle le famiglie che Gallipoli è un paradiso.
Foto di Lorenzo Coluccia.


