Giovani, intellettuali e disagiati. Intervista a Raffaele Alberto Ventura a.k.a. Eschaton
Sul finire dei suoi primi dieci anni, qui compiamo una piccola rivoluzione, abbandonando il nostro formato classico – quello del magazine culturale a cadenza vagamente quotidiana – per presentare ogni mese un solo saggio e un solo racconto. Da queste pagine 24 autori ogni anno proporranno il loro filtro sul reale, manipolando inevitabilmente la personalità di Dude mag: ed è una cosa che ci rende enormemente curiosi.
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Giovani, intellettuali e disagiati. Intervista a Raffaele Alberto Ventura a.k.a. Eschaton

Un’analisi della crisi economica e degli effetti che questa ha su una generazione di giovani benestanti altamente istruiti che non riescono a trovare un lavoro all’altezza delle loro ambizioni.

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Raffaele Alberto Ventura ha 31 anni, vive a Parigi dove si occupa di marketing editoriale. Nel tempo libero è Eschaton, un blog che da più di dieci anni guarda la contemporaneità da prospettive inedite. Alcune delle sue riflessioni sono state riproposte da minima&moralia, Alfabeta2, Le parole e le cose e Nazione Indiana, altre sono state pubblicate in formato e-book e recensite sulla stampa nazionale.

Teoria della classe disagiata (in vendita su Amazon a 1,11€ n.d.r.) è il suo ultimo e-book, un’analisi della crisi economica e degli effetti che questa ha su una generazione di giovani benestanti altamente istruiti che non riescono a trovare un lavoro all’altezza delle loro ambizioni.

Noi di DUDE MAG, che ci sentiamo amaramente parte di questa classe disagiata, abbiamo mandato Alessandro Lolli a fargli qualche domanda.

 

Ciao Raffaele, come spiegheresti in poche parole la tua teoria della classe disagiata?

Naturalmente la chiamo “teoria” in maniera ironica, perché non ha assolutamente la solidità di un modello scientifico: è una specie di saggio di sociologia immersiva, sono io con una videocamera GoPro che mi avventuro nell’inconscio della piccola-media borghesia occidentale. Il punto di partenza consiste nell’accettare di riconoscerci come “classe agiata”, nel senso che dava Thorstein Veblen a quest’espressione: ovvero una classe che consuma una quantità enorme di risorse in quella che noi oggi chiameremo “cultura”. Il problema è che noi tendiamo a occultare questa dimensione economica, la dimensione dei “rapporti di produzione” da cui dipendiamo, come direbbe Marx. La classe agiata non accetta di riconoscersi come tale, anzi insiste per considerare come “diritti” universali quelli che sono semplicemente dei prodotti del lavoro (altrui). Oggi questa classe agiata è in crisi perché non sa più dove andare a recuperare queste risorse, questo lavoro altrui, questo plusvalore insomma… e per questo la chiamo “dis-agiata”. La mia “teoria” consiste in una critica di questa ideologia.

Partiamo dalla tua di ideologia. Leggo il tuo blog Eschaton da molti anni. Mi ha sempre colpito come dietro ogni intervento si intuisse un punto di vista solido e, contemporaneamente, fosse impossibile determinare quale fosse. A volte mi sembravi un marxista, altre volte un cattolico disinteressato dal mondo moderno, altre ancora un apologeta rassegnato del suddetto mondo moderno. Tu, oggi, come definiresti la tua posizione politico-filosofica?

Sai cosa? Sono domande che io stesso mi faccio continuamente. Per questo sono sempre curioso di vedere come reagiscono i lettori a quello che scrivo. Perché spero che in qualche modo mi aiutino a capire dove sto andando a parare. Anzi dove stiamo andando a parare tutti assieme: ho l’impressione di avere imbarcato un po’ di persone che condividono le stesse interrogazioni.

Sicuramente due poli ai quali mi sono avvicinato (a modo mio) in questi anni sono quello cristiano, non necessariamente cattolico tra l’altro, e quello marxista. Sono due paradigmi che hanno una loro coerenza interna. Nel marxismo e nell’economia classica ho trovato dei modelli di analisi delle crisi economiche che mi paiono ancora funzionanti, perlomeno sul piano discorsivo, e che aprono delle prospettive piuttosto originali. In particolare il marxismo ha sviluppato una critica efficace del pensiero keynesiano (penso innanzitutto alla brillante opera di Paul Mattick) che secondo me è il vero dogma del nostro tempo. Invece nel cristianesimo ho trovato un ricchissimo archivio di concetti, di figure, di punti di vista la cui razionalità intrinseca va sempre scovata al termine di uno sforzo di riflessione.

Il bello di Eschaton era che questi diversi approcci sembravano tutti lati della stessa figura, non si aveva mai l’impressione di avere a che fare con un postmoderno nichilista che recita la parte.

L’accusa di essere un provocatore postmoderno la ricevo abbastanza spesso. Ultimamente ho criticato: il sistema educativo, la libertà d’espressione, la protezione dei beni culturali, la società industriale e forse dimentico qualcos’altro. Praticamente un format! Capisco che qualcuno sollevi dei dubbi sulla mia sincerità. Stranamente, per quanti sforzi io faccia, nessuno vuol credere che io sia semplicemente un banale reazionario. Questo per me resta un mistero e apprezzo davvero l’indulgenza dei lettori ma anche di coloro che hanno pubblicato i miei articoli su rispettabili siti di sinistra. Banalmente, appartengo a una generazione che ha letto e studiato autori come Foucault: ci hanno insegnato a decostruire, a relativizzare: come volevi che finisse? Abbiamo finito per decostruire le cose che ci hanno insegnato e relativizzare anche i valori dell’illuminismo, della sinistra. E a furia di togliere abbiamo fatto il giro completo e ci siamo ritrovati ad analizzare in maniera veramente “laica” la religione, la tradizione… Scoprendo che non era tutto da buttare.

A me interessano soprattutto quelli che gli economisti chiamano “trade-off”, cioè le curve di relazione inversa tra diverse opzioni. Quali sono gli effetti reali di una certa politica? Quali sono i pro, quali sono i contro? Qual era la funzione di un certo ferrovecchio ideologico? Sicuramente c’è qualcosa di provocatorio e sostanzialmente “retorico” nel mio modo di presentare le cose e di dare l’impressione di prendere una posizione netta – abbasso la scuola! Restauriamo la legislazione di Enrico VIII! – ma l’obiettivo è più che altro quello di ampliare lo spettro delle opzioni sulle quali riflettere. E su queste opzioni io mi considero piuttosto neutrale, perlomeno fintanto che non mi si pone un problema pratico, incarnato, storicizzato.

Prima dicevi di concetti cristiani intellegibili anche per chi non ha fede, ci fai qualche esempio?

Quando sono accaduti i fatti di Charlie Hebdo ho scritto un articolo, peraltro ripreso anche da voi qui su DUDE MAG, nel quale analizzavo la funzione sociale degli interdetti sulla blasfemia, dall’Antico Testamento ad oggi. Qui credo che si capisca bene il mio metodo, che consiste nel partire da un certo interdetto che a noi moderni pare irrazionale, e di analizzarlo finché non ne colgo il senso, il contesto ed eventualmente l’attualità. Corrisponde a quello che Donald Davidson chiamava “principio di carità interpretativa”. Quando ero all’università ho fatto un lavoro piuttosto approfondito sulla credenza eucaristica, sulla sua storia e le sue trasformazioni, e sai cosa ne ho concluso? Che non c’è assolutamente nulla d’irrazionale nel credere che un pezzo di pane e del vino siano il corpo e il sangue di Gesù Cristo. E per dire questo, secondo me, non è necessario cadere nel relativismo spicciolo, nel “postmodernismo nichilista” di cui parlavamo sopra: non è la realtà ad essere soggettiva, sono i linguaggi che devono essere decifrati correttamente.

E come interagiscono questi linguaggi della tradizione col mondo secolare regolato dall’economia?

La prima cosa che mi viene in mente riguarda la morale sessuale, come discorso che ha una sua razionalità propria, che dipende da un certo tipo di realtà economica… E qui, come vedi, per essere cristiano torno marxista. Io non ti dico che bisogna sottomettersi necessariamente a quella morale lì, ma dico che quella morale aveva un senso in un certo contesto economico. Fin qui è abbastanza banale, ma io faccio un passo oltre: il problema è che non siamo mai sicuri di esserci lasciati quel contesto alle spalle, non siamo mai sicuri di avere chiuso con quella morale lì. La mia impressione è che il ritorno alla ribalta di certe faccende religiose sia appunto legato alla trasformazione del nostro contesto economico. È come quando devi fare il downgrade a una versione precedente di Windows perché il tuo computer non è abbastanza potente. Io credo che la morale “libertaria”, diciamo, abbia un difetto, un solo grandissimo difetto: è costosa. Costosa per la società, in un modo che non è sempre evidente ma che può essere calcolato. E quindi bisogna potersela permettere. Oppure bisogna andare di downgrade.

Parlando del lato propriamente economico, nella prima parte di Teoria della classe disagiata leggi l’economia attraverso opere di finzione, in questo caso teatrali: Shakespeare e Goldoni; ma in un altro saggio hai utilizzato anche i romanzi di Jane Austen. Come chiameresti quest’operazione? È solamente una metafora didattica o qualcosa di più?

Io parto da un mio limite: non sono un economista. Quindi cerco di misurarmi con una letteratura alla mia altezza: drammi teatrali, romanzi, eventualmente gli economisti classici. Questo è un limite ma anche una forza, perché mi permette di approcciarmi alle questioni con dei modelli di analisi più “maneggevoli”, più sintetici. E credo che sia proprio quello di cui abbiamo bisogno oggi. Quindi non è assolutamente una metafora didattica: si tratta proprio di strumenti conoscitivi, i quali peraltro sono stati per secoli lo “stato dell’arte” per la comprensione di certe dinamiche! Modelli che hanno dimostrato di funzionare; hanno permesso di capire (e trasformare) la società.

Nella seconda parte conduci questo discorso ad un settore che conosci sicuramente più da vicino: l’industria culturale. Alla base della sua crisi poni un eccesso di offerta, dovuto a un esubero di «intellettuali e pseudo-intellettuali, artisti della domenica full-time, scribacchini e burocrati della cultura» che nessuno può o vuole pagare. In questo contesto si inserisce il self-publishing e l’editoria digitale che è anche la strada che hai personalmente intrapreso con questo e altri testi. Pensi sia la scommessa giusta da fare, o almeno la più oculata? Perché non hai bussato alla porta di Derive e Approdi con questo saggio in mano?

No, non credo che sia la scelta “più giusta”: è davvero una scelta di ripiego. Con un po’ di editing sarebbe venuto un testo migliore e con un po’ di marketing avrei raggiunto sicuramente un pubblico più ampio. Io capisco perfettamente i discorsi di coloro che difendono l’editoria tradizionale, sono argomenti di buon senso: la qualità dell’intervento editoriale sul testo, il valore aggiunto del brand, la selezione, eccetera… Ma questi discorsi non hanno presa su tutti coloro che, in assenza di un contratto con un editore, scelgono la strada del self-publishing. C’è un’opportunità e la si coglie, e nessuno può davvero permettersi di fare la morale. Per questo gli editori tradizionali, pure avendo dalla loro il “buon senso”, soffriranno molto la rivoluzione del self-publishing. Tuttavia non credo che sia una questione di qualità intrinseca, come se il self-publishing fosse necessariamente una garanzia di cattiva qualità. Ci sono un sacco di cose interessanti che semplicemente non hanno il formato o il linguaggio adatto, o arrivano al momento sbagliato, o si rivolgono a un pubblico specifico, o l’autore manca della legittimità necessaria… Questo è un po’ il caso del mio ebook. Non credo che sarebbe stato adatto a Derive Approdi, e davvero non mi è venuto in mente nessun editore a cui proporlo. Quindi l’ho autopubblicato.

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Catch the Wormhole of 3:45 p.m di Eugenia Loli per la copertina di Teoria della classe disagiata

 

Seguendo il discorso che fai nella seconda parte, il self publishing è l’estrema nicchia di consumo, quella che ricopre i più piccoli interstizi lasciati dalla coda lunga dei consumi culturali. Credi che in futuro si creerà una possibilità di guadagno anche in questo spazio o è strutturalmente incapace di aggregare un pubblico abbastanza vasto?

Qui sta tutto l’inganno della coda lunga: no che non c’è guadagno! O meglio quel guadagno c’è per chi gestisce il flusso della coda, per Amazon insomma. Tutti gli altri faranno la fame, o si guadagneranno da vivere in qualche altro modo. Una volta ogni tanto, qualcuno avrà successo e la sua success story servirà a promuovere tutto il giochino, come in quell’episodio della serie tv Black Mirror: 15 milioni di celebrità.

Come una lotteria, ogni tanto qualcuno vince e invoglia migliaia di perdenti a partecipare.

È una lotteria, e nel mio ebook cerco appunto di fare un discorso sui rischi di questa lotteria, che tendiamo ad occultare. L’effetto di questo meccanismo è anche una specie di sdoppiamento. Uno sdoppiamento di personalità proprio come quello raccontato in Fight Club: per cui di giorno fai un lavoro noioso, poco gratificante, e invece di notte ti dedichi alla tua bella attività creativa, nella quale ti realizzi davvero… E magari hai pure qualche decina o centinaio o migliaia di persone che ti seguono e ti dicono che sei bravo. Questo modello ha le sue insidie: non è necessariamente un equilibrio sano. Uno non fa in tempo a dire “smetto quando voglio” che scopre di aver sacrificato la propria vita intera per inseguire delle illusioni. È la storia di Fight Club, appunto.

Parliamo proprio di queste illusioni non remunerate e di chi invece riesce a trarci un guadagno gestendole e producendole. La proposta della sinistra radicale e il mito del proletario cognitivo non ti convincono. Il collettivo Wu Ming appoggia la teoria del capitalismo cognitivo, paragona il lavorato intellettuale a quello manuale e sostiene che, in quanto prosumer, lavoriamo tutti gratis per Facebook, ma tu rispondi che «Wu Ming intende occultare il conflitto fondamentale tra chi produce hardware nelle fabbriche in Cina e chi lo consuma in Occidente. Si tratta di un esempio quasi letterale di quello che Marx chiamava ideologia».

Fermo restando che l’esempio di Facebook è un po’ farraginoso, non credi che fintanto in un settore produttivo esisteranno disuguaglianze economiche avrà senso una lotta per la redistribuzione dell’utile cioè una posizione di sinistra? Se il grande editore, il barone universitario, o il proprietario di un sito con milioni di accessi possono permettersi una villa in Costa Azzurra, non ha diritto l’ultimo dei suoi collaboratori a parte di quella ricchezza, a dirgli che il logo non glielo disegna gratis perché lui è #coglioneno?

Tu fai un errore di calcolo. Parti dal presupposto che c’è qualcuno che genera un bel bottino (il creatore di contenuti) e poi qualcun’altro glielo ruba e fa la bella vita (Amazon diciamo). Ma la bella vita non la fa col tuo bottino, la fa con la somma di tanti bottini infinitesimali! Quindi se tu recuperi quel plusvalore non ci fai proprio niente, sono davvero due soldi, ma nemmeno: dei quark di ricchezza, anzi delle superstringhe, delle unità di capitale così minuscole che in pratica sono teoriche. Alla fine quei due soldi glieli lasci perché in cambio ti viene dato un servizio cui evidentemente tieni di più che al miliardesimo di euro che (forse) ti spetta. Quindi ripeto: questa cosa che esisterebbe un bottino da prendere e da spartirsi… non esiste! Certo trovare un modo di far pagare le tasse a Facebook o Amazon non sarebbe certo una brutta idea, ma è una questione di dettaglio, non risolve il problema di fondo. È uno scontro tra produttori e consumatori. Produttori che vogliono essere pagati e consumatori che vogliono pagare sempre meno per avere sempre di più: un conflitto interiore, naturalmente, perché siamo tutti sia consumatori che produttori. La battaglia sui prezzi degli ebook è molto istruttiva in questo senso. Io tutto questo lo inquadro in un movimento di più lungo termine che ha a che vedere con le contraddizioni intrinseche del capitalismo industriale.

È arrivato il momento in cui ti chiederei: «che fare?», ma te lo chiedi già da solo all’interno del libro, precisamente alla fine della seconda parte ed ecco che inizia la terza: «Abbasso la scuola», un tuo saggio già pubblicato che propone una moderata descolarizzazione della società. Dobbiamo prenderlo come una risposta? Se l’offerta è troppa, facciamo sì che sempre meno individui abbiano le capacità per proporla?

Io mi pongo a un livello molto concreto, nel senso che il “che fare” lo rivolgo a me, a noi, alle nostre scelte di vita. Non parlo davvero di politica perché sono consapevole che non contano le intenzioni ma i risultati, e i risultati sono sempre imprevedibili. Quindi quello che cerco di fare ha a che vedere con la ricerca di una consapevolezza e magari anche di una serenità. Cercare di accettare una certa situazione, cercare di rendersi conto che certe aspirazioni erano forse fuori misura…

Detto questo, il capitolo si chiama Abbasso la scuola ma come accennavo sopra quello che m’interessa è il trade-off: c’è un primo livello di lettura in cui sembro criticare il sistema denunciando i suoi effetti, ma c’è un secondo livello in cui traspare tutt’altro punto di vista. E se queste apparenti disfunzioni in fin dei conti fossero funzionali? Se la classe disagiata fosse appunto destinata a impoverirsi ed estinguersi, per lasciare spazio alle nuove classi emergenti? Personalmente io vorrei evitare d’impoverirmi e di estinguermi, tuttavia non credo davvero di poter invertire la tendenza con la sola forza dei miei ebook.

Ma in Abbasso la scuola assumi il punto di vista di un ipotetico ministro dell’istruzione plenipotenziario, insomma un punto di vista politico dal quale dai consigli politici.

Faccio delle ipotesi. Dico che è inutile continuare a investire nel tentativo di rendere egualitario il sistema formativo, perché questo diventa tanto più inegualitario quando si tenta di renderlo egualitario. Quindi sì, c’è anche una posizione politica, o perlomeno individuo una priorità: fermare l’escalation formativa di cui già parlava Ivan Illich negli anni Sessanta. Un modo semplice sarebbe di permettere all’università di selezionare davvero, filtrare, insomma usare gli esami per quello a cui naturalmente servono. Ovvero contrastare il potere del censo, che permette ad alcuni di andare comunque avanti e costringe altri a fermarsi dove finiscono le risorse.

Esami posti a che punto del percorso?

Lì dove sono. Ma che filtrino davvero, che producano titoli spendibili sul mondo del lavoro. Se i titoli sono carta straccia, allora l’università è soltanto un lusso.

Questa mi sembra un po’ la posizione di Claudio Giunta quando parla di test di ingresso più severi nelle facoltà umanistiche. In Abbasso la scuola parli invece di ridurre gli anni della scuola dell’obbligo. Non mi sembra la stessa cosa perché da un lato c’è uno Stato che spinge i figli delle classi più povere a diventare subito meccanici di sedici anni, come era loro destino sin dall’inizio, dall’altro la scrematura verrà effettuata solo sul merito e i figli dei poveri potranno continuare a credere nell’ascensore sociale della cultura.

Parlo da una parte della scuola dell’obbligo e dall’altra dell’università, ma l’idea di fondo è sempre la stessa: restituire valore agli anni di studio neutralizzando l’escalation che porta chi se lo può permettere a “schiacciare” gli altri proseguendo più a lungo possibile. Per l’università ti ho detto come la penso: per quanto possibile prevedere, bisognerebbe evitare di distribuire titoli in sovrannumero rispetto alla capacità del mercato del lavoro di assorbire. Perché vuol dire penalizzare chi decide d’investire sulla formazione. Per la scuola dell’obbligo ci sono anche altre questioni in gioco, che hanno a che vedere con la formazione alla cittadinanza, con l’integrazione, eccetera. E qui torniamo al discorso che facevo prima sulla coerenza tra piano materiale, economico, e ideologia. L’età dell’obbligo si è adattata, nel corso degli anni, alle condizioni economiche di una società che s’imborghesiva. Non è qualcosa di assoluto che si debba andare a scuola fino a 16 anni, è il prodotto di una trasformazione economica. Quello che rilevo è che più spingi la gente a rimanere a scuola a lungo, più tendi a vanificare gli sforzi di chi, magari con poche risorse ma talento e forza di volontà, perdona la retorica, vorrebbe investire nella formazione.

Però, come dici tu, c’è uno sbilanciamento del piano ideologico: la cultura non è un investimento come un altro, è un bene democratico e spirituale, qualcosa che una potentissima retorica (in fondo millenaria nelle classi ricche) sostiene e diffonde in tutte le classi sociali. Pensi bisognerebbe cambiare questa mentalità? Dovremmo iniziare una battaglia culturale contro la cultura?

Sicuramente credo che bisognerebbe ridimensionare questo feticcio della cultura, che poi è qualcosa sempre di molto vago, di molto ideologico. Parlo qui di “cultura” nel senso dei consumi culturali, dell’arte e di tutte quelle cose, sempre più numerose, che s’includono nella categoria di “cultura” per legittimarle, o magari anche per ottenere finanziamenti. Io forse preferirei che questa parola, “cultura”, semplicemente non la si utilizzasse più, perché non vuol dire niente. Se invece parliamo di creazione, di espressione, di comunicazione, io credo che questa si realizzi spontaneamente, senza bisogno di musealizzarla da viva, probabilmente senza nemmeno bisogno di sovvenzionarla dall’altro. Poi certo, ci vogliono anche le risorse, una cultura fiorente è semplicemente l’effetto di una civiltà materialmente solida. Un altro problema oggi è che siamo circondati da pseudo-cultura, siamo tutti laureati,ma spesso la cultura che abbiamo è frammentaria, parziale. E non mi escludo certo da questa diagnosi.

Pensa, io sono laureato in filosofia e non ho mai letto Hegel.

Appunto! E anche chi lo ha letto, lo ha letto male. Siamo degli autodidatti che sono passati dall’università.

Tornando quindi al “che fare?” individuale e per individuale intendo nostro, di noi operatori “culturali” che siamo il gruppo sociale sul quale si focalizza il tuo libro, quel segmento di classe che fallisce nel modo più rocambolesco e rumoroso possibile. Credi davvero che la rassegnazione sia l’unica strada possibile? Quando ho intervistato Enrico Terrinoni per questa rivista, diceva dei traduttori che dovrebbero sviluppare una specie di coscienza di classe, smettere di giocare al ribasso e “fare cartello” contro chi gli dà lavoro, pretendere una cifra minima. Dici che in colossi come Amazon non esiste un plusvalore da ridistribuire, ma in tutte le situazioni intermedie?

Qui ritorno a quello che dicevo sopra: non è possibile fare cartello perché ci sono comunque troppe persone che hanno scelto queste carriere. Siamo troppi. Per cui ci sarà sempre un’armata di riserva di esclusi che, in fondo legittimamente, pur di guadagnarsi un piccolo posto al sole accetterà certe condizioni… Questa strada non è percorribile, e infatti tutti la evocano ma non si riesce mai a realizzarla. Questo problema tra l’altro va di pari passo con un altro: ovvero che molta gente intelligente e acculturata va a fare il traduttore, fa carriera accademica, e a fare politica o impresa, come si dice, in Italia ci vanno i peggiori. Ed è un peccato perché noi avremmo bisogno di una classe dirigente più che di traduttori, non trovi? Però allora bisogna accettare di “sporcarsi le mani”. Chiaramente è molto difficile, doloroso, per chi ha studiato cinque o dieci anni riprendere contatto col mondo reale e poi essere in grado di affrontarlo. Io da un certo punto di vista è quello che ho cercato di fare, tirandomi fuori molto rapidamente da un mondo universitario che mi sembrava irrimediabilmente gonfio, straripante, e accettando uno stabile lavoro d’ufficio. Ci sto riuscendo? Devo dire che continuo a sentirmi piuttosto inadeguato. E le difficoltà che ho provato nell’adattarmi a questa vita sono un po’ la benzina che ha alimentato la Teoria della Classe Disagiata: «Cerchiamo di trovare un senso, una logica a questa cosa». E la logica, alla fine, era che non c’era davvero un’altra possibilità. Ma d’altra parte il mondo che rimpiangiamo non è mai esistito! Voglio dire, sicuramente in passato c’era gente che viveva di scrittura, di arte, di ricerca, ma non erano certo le masse di disperati che vorrebbero farlo oggi. Se tutta questa gente crede, oggi, di avere una possibilità, o se crede che siano le trasformazioni tecnologiche che gliel’hanno tolta, dimentica che sono queste stesse trasformazioni ad avergli dato quest’illusione, questa possibilità. Per questo il lamento dell’aspirante traduttore mi tocca poco. Mi lamento forse, io? A dire il vero sì: passo il tempo a farlo. Però l’ho chiamata Teoria della Classe Disagiata, è il mio modo passivo-aggressivo di fare i conti con il disagio.

 

Copertina di Eugenia Loli.

Alessandro Lolli
Alessandro Lolli nasce a Roma nel 1989. Ha collaborato con Nuovi Argomenti, Polinice, Soft Revolution Zine, Crampi Sportivi e DUDE MAG. È laureato in filosofia. A tempo perso lavora in un centro scommesse sportive.
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