I believe I can fly: la vita inattesa di Michael Jordan
Sul finire dei suoi primi dieci anni, qui compiamo una piccola rivoluzione, abbandonando il nostro formato classico – quello del magazine culturale a cadenza vagamente quotidiana – per presentare ogni mese un solo saggio e un solo racconto. Da queste pagine 24 autori ogni anno proporranno il loro filtro sul reale, manipolando inevitabilmente la personalità di Dude mag: ed è una cosa che ci rende enormemente curiosi.
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I believe I can fly: la vita inattesa di Michael Jordan

Negli ultimi anni le librerie sono state sommerse da biografie più o meno azzeccate: da Limonov ad Agassi passando per Pietro Maso, Corona e Tyson. Quella di Roland Lazenby sul cestista più famoso del mondo, Michael Jordan, Vite Inattese (in Italia per 66th and 2nd Edizioni) è forse la più completa e minuziosa, fatta di una […]

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Negli ultimi anni le librerie sono state sommerse da biografie più o meno azzeccate: da Limonov ad Agassi passando per Pietro Maso, Corona e Tyson.

Quella di Roland Lazenby sul cestista più famoso del mondo, Michael Jordan, Vite Inattese (in Italia per 66th and 2nd Edizioni) è forse la più completa e minuziosa, fatta di una ricerca al limite dell’ossessione.

Ha il merito di dipingere ogni aspetto della carriera del giocatore e soprattutto – spoiler! – non entra nel merito di alcune faccende personali di Jordan che ancora oggi sono un grande punto interrogativo per i più curiosi: le domande sui suoi enormi debiti di gioco, le connessioni con alcuni malavitosi e le circostanze che circondano l’assassinio di suo padre vengono esposte solo con alcuni dati oggettivi, che lasciano al lettore la possibilità di trarre le proprie conclusioni.

Quello che Lazenby racconta è la nascita e l’ascesa della leggenda che ancora oggi è MJ: il miglior giocatore di basket di tutti i tempi, l’ambasciatore per eccellenza di questo sport, uno dei primi sportivi-brand, l’eroe di milioni (miliardi?) di ragazzi sparsi in tutto il mondo.

Tutti conoscono la stella dei Bulls, probabilmente almeno metà della popolazione nata tra gli anni ottanta e novanta ha sentito parlare di lui almeno una volta, ammirato una sua schiacciata, adocchiato la sua ventitré in qualche negozio, visto Space Jam.

Questo non perché tutti seguano il basket, ma perché Michael è un’icona, il manifesto della notorietà a tutto tondo, la faccia che ha invaso tutti i negozi Nike, da Chicago fino a Roma, sale cinematografiche comprese.

Portava al trionfo le sue squadre e vendeva scarpe, magliette, polsini, poster: era l’uomo marketing perfetto. Il fardello della celebrità, che lo ha accompagnato dagli esordi universitari fino al ritiro, non lo ha mai trascinato a fondo – come è successo invece ad altri suoi colleghi – ma lo ha fatto librare sempre più in alto.

Chi come me ha avuto la fortuna di vederlo giocare – anche se non dal vivo – ha provato la stessa sensazione di quando si è di fronte ad un’opera d’arte.

È stato anche un grande provocatore, capace di trascinare dietro di sé sia orde di ragazzini adoranti sia haters.

«Ricordati di chi è il nome sulle tue scarpe», ha detto una volta Michael al fratello durante un “uno contro uno” e ancora: «durante i giochi Panamericani in Venezuela Jordan continuava ad usare il suo proverbiale trashtalking contro giocatori di madrelingua spagnola, giocatori che probabilmente non avevano idea di cosa stesse parlando».

«Ho sempre pensato prima a me stesso», ha riflettuto verso la fine della sua carriera, «poi alla squadra. Ho sempre voluto vincere, ma ho sempre voluto averne il merito».

Arrogante, sbruffone, uno che se avesse fallito avrebbe fatto una figura molto, molto meschina. Solo che a ogni provocazione, verbale e non, MJ ha sempre fatto seguire un gioco da tre punti, una schiacciata, un post, una stoppata. Sebbene Michael risultasse fastidioso in alcuni dei suoi atteggiamenti, coloro che lo odiavano erano in netta minoranza rispetto ai fan. Non era una questione di testa o di cuore, semplicemente di numeri.

Le giocate impossibili, la media punti altissima, il risolvere la partita in una frazione di secondo e l’aurea da campione che lo ha accompagnato in ogni palazzetto lo hanno sempre reso necessario in tutte le sue squadre, senza contare che in tutti e sei i campionati conquistati dai Bulls è stato nominato MVP. Anche per questo è stato il primo atleta di colore accolto a braccia aperte al Madison Avenue ed in tutto il panorama cestistico americano, anche per questo all’apice della sua celebrità il 40% del merchandise NBA era legato ai Chicago Bulls.

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È difficile descrivere appieno una persona che ha raggiunto il satori, cercando di spiegare una combinazione di grazia e forza, di tenacia e determinazione che solo un superuomo potrebbe avere. L
‘autore, che ha già raccontato le vite di Phil Jackson, Kobe Bryant e Jerry West, riesce a farlo parlando di Jordan a trecentosessanta gradi, in maniera esaustiva e con la giusta verve.

Ma quello che distingue il libro da altre biografie va oltre. Quando dico che Lazenby narra il giocatore a trecentosessanta gradi intendo che va ben oltre il diciassette febbraio sessantatre, giorno in cui Michael venne alla luce. Il libro inizia infatti nella countryside del Nord Carolina settant’anni prima della nascita di MJ, con un bel racconto sul bisnonno, sul suo carattere determinato e non arrendevole in anni difficili per la popolazione di colore.

Il lungo viaggio vale la pena di essere seguito perché spiega chiaramente dove affondano le radici dalle quali Michael ha preso la linfa che lo ha trasformato in leggenda. È un viaggio necessario, un viaggio nel quale incontriamo tutte le fasi essenziali nello sviluppo della personalità del giocatore: la faida con Isiah Thomas, il rispetto misto invidia che nella sua giovinezza ha provato per Magic Johnson, il disprezzo per il general manager dei Bulls Jerry Krause e il legame con Phil Jackson che li ha portati tutti e due al top della loro professione passando per la frustrazione per le sconfitte nelle finali NCAA e il rapporto con i genitori e i fratelli. Siamo praticamente davanti ad un’enciclopedia sul più grande giocatore di tutti i tempi.

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Personalmente ritengo che la parte più interessante sia quella che copre l’adolescenza di Michael, quella che vive ancora oggi di leggende orali, quella che lo vede inseguire un sogno come tanti altri suoi coetanei, quella che lo vede trasformare piano piano il sogno in realtà, quando da ragazzino gracile con il solo desiderio di crescere diventa il fenomeno precoce che durante un’estate riesce ad incantare un intero camp di basket, la stessa estate che Jordan ha dichiarato essere «il punto di svolta della mia vita», quando ha capito che il suo futuro non sarebbe stato nel baseball, bensì in un parquet.

«L’altezza ti sta indicando la tua strada», gli dirà poi la madre, figura sempre presente ma mai invasiva o iperprotettiva, donna che nonostante il rapporto difficile con il marito manda avanti la famiglia e segue il sogno di Michael dalla Costa est a quella ovest di un’America che partita dopo partita trasforma il Mike Jordan dei campetti nel Michael Jordan passato alla storia.

Lungo questo tragitto MJ viene dipinto come instancabile, determinato e spesso nervoso, ma c’è un punto all’inizio del libro che quasi commuove: in quelle righe un giovane Jordan chiede a se stesso «come sarà guardare indietro a tutto ciò, se sembrerà tutto vero». Una domanda che tutti a un certo punto della nostra esistenza ci facciamo, ma sicuramente più difficile per chi ha affrontato un cambiamento così radicale, passando da essere un timido bambino qualsiasi della Carolina del Nord a emblema universale di uno sport.

Vite inattese è un libro per nostalgici e sognatori, quelli che a ventisei anni sono alti poco meno di un metro ottanta e dopo averlo letto si accorgono improvvisamente che è un peccato che non diventeranno mai delle star NBA, e nemmeno del campetto, probabilmente anche perché di basket capiscono poco o nulla.

Ma questo libro è soprattutto un bel viaggio, di quelli che scorrono in maniera piacevole e vorresti non finissero mai, di quelli che raccontano un sogno che alla fine non va a sbattere contro la più dura realtà ma va a culminare nel Nirvana.

Durante queste settecento pagine vi si palesano nella mente le immagini più famose, riuscirete forse a capire perché c’è chi ancora oggi spende centinaia di euro per delle Air Jordan e come non esiste nessuno sport che si può racchiudere nella frase «è solo un gioco».

Sono pagine tutte da gustare anche perché in fondo non c’è niente di meglio che pensare che un uomo sia riuscito davvero a volare.

Samuele Maffizzoli
Nato a Verona nel 1988, vive tra Italia e UK. Ha tradotto per The Post Internazionale, collabora con Dude e Calciatori Brutti. Il resto sono speculazioni e bugie.
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