Come gran parte dei miei contemporanei, lavoro al pc. Le mie giornate lavorative si svolgono interamente davanti a uno schermone e a una tastiera bluetooth, intorno ai quali orbitano facce piuttosto simpatiche, qualche caffè poco zuccherato e molte playlist disordinate che prima o poi sistemerò. Durante le mie otto ore tipo uso programmi, estensioni e strumenti online che mi aiutano a portare a termine tutto quanto nei tempi stabiliti, velocizzando e snellendo tutti quei procedimenti che non farebbero che frenare la tanto agognata produttività.
Nonostante questi e nonostante il fatto che non ci sia nessuno a farmi pressione più dello stretto indispensabile, sento di dover andare sempre di fretta. È una cosa che non riesco ancora a spiegarmi: perché ho fretta? Perché ho la costante sensazione di dover correre anche quando non ce n’è bisogno? I programmi e i tool super-mega-ultra avanzati non dovevano aiutarci ad avere più tempo per noi e per il nostro relax? E perché ci ritroviamo invece a sfruttare quelle stesse ore per fare il quadruplo di quanto veniva fatto cinquant’anni fa?
Presto è bene, prima è meglio
Quando apro gli occhi e posticipo la sveglia due o tre volte, ad esempio, sento già che sto perdendo del tempo che potrei sfruttare per prepararmi prima e arrivare in ufficio prima, così da uscire prima e tornare a casa prima — sempre che la metro o il trenino me lo permettano. Se il mezzo pubblico in questione impiega qualche minuto in più, poi, mi digievolvo in una di quelle persone che io stessa eviterei alla grande; innanzitutto sbuffo («a quest’ora potevo essere già alla prossima fermata») e, se noto di essere circondata da gente tutto sommato rilassata, mi infastidisco senza una vera ragione di fondo («certo, tranquilli, tanto mica avete qualcosa da fare»).
Perché tutta questa impazienza? Perché siamo diventati delle riproduzioni del Manifesto del Futurismo di Marinetti? Partendo dalle tesi sviluppate nel 2015 dal filosofo Jean Paul Galibert nel saggio I cronòfagi. I 7 principi dell’ipercapitalismo, Davide Mazzocco approfondisce la questione in Cronofagia. Come il capitalismo depreda il nostro tempo (D Editore, 2019), provando a rendere più chiare le dinamiche del presente che, ci piaccia o no, stiamo vivendo tutti. Più precisamente, Mazzocco ci sbatte in faccia uno dei problemi più irrisolti di sempre: il progressivo e crescente sgretolamento del tempo libero.
Il social che comincia con la effe
Quando parliamo di tempo libero intendiamo libero libero, senza impegni, fuori dai programmi, non occupato nemmeno dallo scrolling delle nostre varie timeline. Possiamo davvero parlare ancora di tempo libero, quindi? Forse no, e la colpa è dei capitalismi vecchi e nuovi che spesso non riusciamo più nemmeno a riconoscere.
Prendiamo “il poro” Zuckerberg, ad esempio, in jeans e maglietta grigina monocromo come una persona qualsiasi: può davvero essere considerato un capitalista? Zuckerberg caro che ci ha permesso di tappare tutti quei noiosissimi tempi morti, Zuckerberg che sempre sia lodato per tutte le volte che ci ha dato la possibilità di fare finta di essere concentrati su qualcosa per evitare di parlare con quello là, Zuckerberg che ci ha gentilmente portato in dono la prima cosa che guardiamo al mattino e l’ultima di sera? Ebbene sì, capitalista. Pure con la maglietta grigia monocromo in stile Decathlon, pure coi calzini Artengo e Kalenji. Capitalista. E noi, stanchi e impigriti, appena messo piede fuori dall’ufficio continuiamo a lavorare inconsapevolmente, regalando dati e informazioni personali di cui ci interessa poco o niente, senza chiedere rimborsi spese né buoni pasto; tipo volontari, insomma, ma molto più rincoglioniti.
Tutta la vita davanti
Una cosa durante la lettura di “Cronofagia” mi ha punto più nell’orgoglio: la consapevolezza del fatto che una volta facevo cose e adesso no. Ho l’età adatta per suonare, dipingere, disegnare, fare trekking, giocare a tennis e imparare il finlandese, potrei fare quello che mi pare e invece guardo meme, commento cose, rido, mi incazzo e metto pollicioni. Spero vivamente che la me del 2009 non venga mai a saperlo, perché l’unica risposta a qualsiasi scusa e argomentazione non potrebbe che essere questa.
Se fino a pochi anni fa dedicavo del tempo anche ai social, oggi mi risulta difficile dire quali sono i momenti in cui mi concentro su qualcosa che ritengo essere davvero utile e stimolante, che possa fare di me una persona vera e non un mezzo automa. Me ne sono accorta più o meno a metà lettura, quando ho pensato: «Sto leggendo questo libro sulla mancanza di tempo mentre non ho tempo, quindi in realtà ce l’ho». Così, de botto, senza senso.
I dodici capitoli di Mazzocco mi hanno spinto a riflettere un sacco, in un periodo storico in cui la riflessione e il mettersi in gioco sembrano solo uno sfizio, un lusso da radical chic sinistri sinistrati sinistroidi sinistrorsi con l’attico di proprietà a New York, come dicono quei tipi lì. Le soluzioni per non cadere nel vuoto più totale per nostra fortuna esistono già, basta conoscerle e riservare loro il giusto spazio mentale e la giusta energia fisica. E il giusto tempo, soprattutto, perché ce l’abbiamo, anche se non sembra.