Avete trent’anni, vi siete laureati e avete seguito un percorso formativo ben definito. Nonostante tutto, nonostante gli sforzi e l’impegno, non riuscite a trasformare tutto questo in qualcosa che vi appaghi, non riuscite a trovare la vostra strada, il vostro posto nel mondo, qualcosa che vi faccia capire che non è stato tutto vano. Allora cambiate nazione, lasciate il paese di appartenenza per un futuro in un posto lontano che non sapete come sarà, che diventerà la vostra nuova casa non essendo mai più la vostra casa.
Tutto questo — e molto altro — viene affrontato da Cecilia Ghidotti nel suo esordio letterario, Il pieno di felicità (Minimum Fax), dove l’autrice mette sé stessa e la sua vita tra le pagine di un memorial impreziosito da diverse citazioni cinematografiche e musicali e dall’alternanza di dialoghi scritti in lingua inglese, che catapultano il lettore nel mondo bilingue di chi vive in un paese straniero.
Abbiamo intervistato Cecilia per scoprire cosa c’è dietro e dentro al libro, le motivazioni che l’hanno portata a scriverlo, ciò che l’ha influenzata, come è nato e cosa può significare il suo lavoro per questa e le prossime generazioni.
Partiamo con una domanda standard, giusto per scaldarci un po’: io adoro gli unicorni, quindi immaginerai il mio apprezzamento per la cover del tuo libro, che ha oltretutto dei richiami decisamente pop; come mai questa scelta?
All’inizio, le bozze del libro si chiamavano “Unicorni”. Non so se esistano là fuori studi sulla diffusione degli unicorni nella cultura pop, ma senza dubbio ultimamente gli unicorni sono ovunque: così rosa e plasticosi, mi sembra contengano una sorta di “promessa di carineria” diffusa nei nostri consumi quotidiani, nelle immagini e nell’immaginario. Riguardo la copertina, arrivò a un certo punto da Minimum Fax questa proposta che tiene insieme una dimensione molto pop e leggera e una nota molto più cupa — l’unicorno è decapitato, quasi fosse una natura morta. Io ne sono stata subito entusiasta perché secondo me rende molto bene il contenuto del libro senza essere didascalica, e per questa acutezza dello sguardo devo ringraziare Patrizio Marini e Agnese Pagliarini, autori del progetto grafico. L’unicorno è infine, nell’economia del libro, presente in forma di un’intervista a Matt Berninger dei National in cui sostiene che fare qualcosa di artistico è come piantare un corno in fronte a una capra: per alcuni sarà sempre e solo una capra mentre per altri un dannato unicorno. Lui usa l’unicorno/capra come metafora del fare artistico, ma di un “fare artistico” non semplice, che passa attraverso numerosi tentativi e spesso sfocia nel fallimento; questo è un tema che nel libro è presente.
Come è nato il tuo lavoro? Quando hai cominciato a scrivere della tua esperienza avevi già pianificato la costruzione di un romanzo?
Quando nel 2010 sono arrivata a Coventry per la prima volta sono stata subito colpita dall’aspetto di questa città che, col suo centro storico distrutto e ricostruito in cemento armato, era così diversa dai centri storici carini cui siamo abituati da italiani e da subito ho pensato di raccontarla. Il passo successivo fu un racconto che scrissi nel 2012 per 8×8, un concorso letterario organizzato da Leonardo Luccone di Oblique, e in quell’occasione cominciai a costruire un primo nucleo di quello che oggi è Il pieno di felicità. Anni dopo, quando l’esperienza del vivere in Inghilterra era diventata più ricca e stratificata, si era quindi codificata in una vera e propria storia di emigrazione, sono tornata a lavorarci sopra in maniera molto più serrata, soprattutto nel corso dell’ultimo anno.
Il tuo è un romanzo autobiografico, ma racconta inevitabilmente la storia di molti giovani che, dopo la laurea, non riescono a trovare subito la propria strada o non ne hanno la possibilità nel paese di appartenenza; volevi fosse così?
Non sono partita con il desiderio di scrivere un romanzo generazionale, anche perché il racconto è talmente soggettivo e talmente virato sull’io che il noi appare, secondo me, come il risultato della triangolazione che fa il lettore tra quello che c’è scritto nel testo, la realtà e la realtà di chi sta sperimentando esperienze simili alla mia. Chiaramente, la storia che ho raccontato io è una delle tante possibili.
Nel 2013, il blog de Il Corriere della Sera pubblicò l’intervento di una studentessa di ingegneria di nome Maddalena che, dopo la laurea, si trasferì subito in Inghilterra. Maddalena racconta al quotidiano gli ostacoli che si frapposero tra lei e i suoi obiettivi, messi insieme poi dalla frustrazione causata da un Paese che «non fa nulla per convincere i giovani a tornare». Quando sei partita ti sei sentita anche tu così?
No. Esiste quasi un “genere letterario” legato al concetto “vado via perché questo posto non mi merita, perché l’altrove sarà migliore”. Dalla crisi del 2008 si è verificato un boom nel numero di giovani che hanno lasciato l’Italia, verso l’Inghilterra e la Germania soprattutto. Questa emigrazione spesso viene raccontata come quella di chi, rifiutato dal proprio paese, va cercare fortuna all’estero e all’estero si realizza. Questa è una narrazione molto radicata e spesso presuppone che basti la sola volontà per riuscire a scrollarsi di dosso tutto ciò che nella vita italiana non funzionava, mentre non tiene assolutamente in considerazione altre forme di privilegio di partenza che permettono, a volte, di riuscire. Io sono molto lontana da questo tipo di retorica. Sono andata via dall’Italia senza l’idea dell’”ora ve la faccio vedere io!”. Tra l’altro spostandomi qui non ho compiuto un balzo verso una società migliore, verso una società nella quale tutto funziona o verso “il paradiso della meritocrazia”, come molti sostengono; quello che ho trovato è stata una società turbocapitalista e neoliberale, con differenze di classe estremamente radicate e nella quale anche le minime tutele dello stato sociale che noi siamo abituati a considerare normali, come la scuola pubblica, o le tasse universitarie relativamente basse, non sono tali. Di conseguenza, sono sempre molto restia a inquadrare il mio processo in questo tipo di “retorica del rifiuto”.
Il pieno di felicità è il tuo esordio letterario ma, come tu stessa racconti all’interno del romanzo, hai una formazione classica e hai frequentato la scuola Holden: la passione per la scrittura quando è nata? Ricordi un momento particolare o è stato un processo graduale?
Il pieno di felicità è la strofa di una canzone de Lo Zecchino d’Oro del 1991; è facile per me ricondurre la passione per la scrittura a un amore radicatissimo per la lettura che avevo fin da bambina. Se devo andare alla ricerca del momento originario, sta nella lettura di Ascolta il mio cuore di Bianca Pitzorno e nel fatto che, all’interno di questo libro, la protagonista scrive delle storie: la gioia nel leggere era tale che intravedevo anche il desiderio di poter un giorno restituire lo stesso tipo di gioia, scrivendo. Poi ci son voluti quasi trent’anni e un percorso tutt’altro che lineare per tirare fuori un libro da questo desiderio.
Ci sono degli autori o delle autrici che ti hanno influenzata durante la stesura del romanzo? Se sì, chi sono?
Le influenze sono tante, perché ovviamente mentre scrivi continui anche a leggere. All’inizio del mio libro c’è una citazione di Caitlin Moran; lei è stata sicuramente una grande influenza sia per la possibilità di scrivere che per l’attitudine nel farlo in un certo modo. Moran è una giornalista che è cresciuta a Wolverhampton, una cittadina depressissima e molto povera poco distante da Coventry, per cui mi interessava il suo sguardo sul territorio delle Midlands che è pochissimo raccontato, quasi per nulla (Coe con Middle England l’ha fatto di recente). Moran, negli anni Novanta ha avuto una carriera fulminante nel mondo del giornalismo musicale: a sedici anni si è trovata a intervistare gruppi musicali del calibro degli Oasis o di Bjork. Anni dopo, ha tratto da queste sue esperienze How to build a girl e How to be famous, romanzi di formazione semiautobiografici da cui ho preso molta della spinta che ci è voluta per mettermi nella posizione di vulnerabilità e di assenza di cinismo che mi ha poi consentito di scrivere. Non stiamo certamente parlando di alta letteratura, ma di romanzi di consumo, però mi hanno sostenuta.
Altre influenze sono arrivate da Zadie Smith con Denti bianchi, NW e Swing Time, principalmente per la costruzione romanzesca e per come rende le classi sociali. Non che io riesca a replicarla.
O ancora, da Americanah di Chimamanda Ngozi Adichie, un meraviglioso romanzo di formazione e di spostamenti geografici e identitari. Ultimamente, come molti, sono impazzita per Sally Rooney, un’autrice che mentre leggi ti vien da pensare: «vabbè addio, scrivi tu».
Infine, c’è questo libro di Luca Rastello, Piove all’insù, dedicato al racconto degli anni Settanta italiani, che tenta di rispondere alla domanda «che cosa è andato storto nell’esperienza della mia generazione?». La narrazione di Rastello alterna continuamente tra passato e presente, e ad un certo punto io mi sono resa conto che stavo facendo qualcosa di simile, in termini di struttura.
Hai già dei progetti editoriali futuri?
Ora che sono riuscita a portare la mia scrittura a un livello tale da trasformare il mio lavoro in un libro ho capito che sono davvero in grado di farlo, quindi sicuramente è una strada che voglio continuare a percorrere. Se ho già un romanzo pronto nel cassetto? No, e sicuramente ci vorrà ancora molto tempo.