Ora che è morto siamo perlomeno sicuri che sia esistito davvero. Mai come per la vita di Eduard Limonov, iniziata in Ucraina 77 anni fa e terminata ieri, la definizione di «sopra le righe» non risulta esagerata. Se la sua storia è conosciuta anche al di fuori dell’Unione Sovietica non lo dobbiamo più di tanto alla sua carriera da scrittore e ai libri scritti da lui, quanto al libro scritto su di lui da Emmanuel Carrère, romanziere specialista in raccontare vite degli altri e talvolta nel riabilitarle.
Vi ricordate le classifiche dei libri più belli del decennio appena finito? Il libro di Carrère, che si intitola – con impeccabile essenzialità – semplicemente Limonov, c’era, in tutte quante, nonostante fosse sostanzialmente una biografia. Va da sé che la vita di Limonov, magari non invidiabile e di sicuro non esemplare, sia stata tutto tranne che banale.
Eduard Limonov è stato innanzitutto uno scrittore, benché – la citazione è di Carrère – «sapeva raccontare soltanto la sua vita, ma la sua vita era appassionante e lui la raccontava bene». Nella sua vita farà il sarto, il barbone, il guerrigliero in Jugoslavia, il gigolò di maschi e femmine. Sarà sostanzialmente cacciato dall’Unione Sovietica, diventerà star a New York e a Parigi. Il suo idolo è Johnny Rotten, il leader dei Sex Pistols. Tra i suoi amici, Lou Reed. Il libro con cui raggiunge il successo viene diffuso nel mondo con il titolo Il poeta russo preferisce i grandi negri. Dal punto di vista sessuale – si sarà capito – non si pone orizzonti.
La seconda parte della vita, invece, la dedica alla politica, ovviamente alla sua maniera. Combatte nei balcani a fianco dei nazionalisti serbi. E con la caduta del comunismo torna in patria, “annoiato” dalla perestrojka, per restaurare quei valori che da giovane ripudiava. È forse il capostipite dei rosso-bruni. Fonda un partito insieme ad Aleksandr Dugin – intellettuale putiniano poi dichiarato supporter anche di Salvini – e lo chiama “partito nazional-bolscevico”. Nome contraddittorio, all’apparenza, esattamente come lui.
Tutta la vita di Limonov non entra in un articolo solo. E del resto, tanto vale leggere il libro per chi è interessato a quest’uomo che sembra uscito dal testo dell’Avvelenata di Guccini: tutto, niente, stronzo ed ubriacone, poeta e buffone, anarchico e fascista. Può invece essere utile il giudizio che ne dà Carrère, che si è sempre detto disgustato da Limonov e ne detesta le idee. Perché allora ha voluto conoscerlo, passare delle settimane con lui e poi raccontare la sua vita?
La risposta sta in tutti i libri dello scrittore francese. Carrère è affascinato dalle storie degli altri e non a caso uno dei suoi libri più noti si chiama proprio Vite che non sono la mia. A un certo punto della sua carriera ha deciso che nei suoi romanzi non voleva più affidarsi alla fantasia. Da allora preferisce raccontare la vita di qualcun altro cercando poi i punti di contatto con la sua.
Il suo capolavoro, uscito dieci anni prima di Limonov, si intitola L’Avversario ed è la storia di un padre di famiglia modello, medico prestigioso e ricercatore dell’OMS, che un giorno uccide tutta la sua famiglia e tenta il suicidio, ma si salva. Durante le indagini successive alla strage, si scopre che non era un ricercatore né un medico. Nemmeno era laureato in medicina. Ma era riuscito a far credere a coloro che gli erano attorno al castello di bugie che aveva costruito. E quando stava per essere scoperto, invece di svelare la verità, li ha uccisi tutti. Trovare il punto di contatto tra la vita di quest’uomo e le nostre è l’ambizione di Carrère. Lo ha spiegato lui stesso in una recente intervista: «Dov’è l’universalità? Nel fatto che tutti, a livelli diversi siamo un bluff. Il protagonista de L’Avversario all’estremo, ma tutti, me compreso, abbiamo uno scarto tra immagine e realtà».
Svelare il nostro bluff. Questa è il principio che governa i libri di Carrère. Di conseguenza il lettore può approcciarsi ai suoi libri in due modi. Può leggere la storia di questi personaggi così lontani, come Romand (il medico omicida) o Limonov, e mantenerli a distanza di sicurezza dai propri impulsi. Oppure scavare più a fondo, compiere uno scatto in avanti e scoprire che se solo un evento della nostra vita fosse andato diversamente, se solo avessimo scelto un bivio anziché un altro, saremmo potuti essere, magari solo in parte, come i protagonisti di questi libri.
La letteratura era già l’indagine di noi stessi. Con Carrère diventa qualcos’altro: l’indagine di ciò che non siamo stati, ma di quanto ci siamo andati vicino.