Mattone per mattone
Sul finire dei suoi primi dieci anni, qui compiamo una piccola rivoluzione, abbandonando il nostro formato classico – quello del magazine culturale a cadenza vagamente quotidiana – per presentare ogni mese un solo saggio e un solo racconto. Da queste pagine 24 autori ogni anno proporranno il loro filtro sul reale, manipolando inevitabilmente la personalità di Dude mag: ed è una cosa che ci rende enormemente curiosi.
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Mattone per mattone

Per prima cosa riempimmo i buchi, ognuno largo circa 9 mm. Il personale della manutenzione aveva gli attrezzi a portata di mano. Un po’ di stucco lisciato e sabbiato funzionò più che bene. Una mano di vernice fresca. C’era solo un problema, in certi punti la vernice sembrava diversa, dei quadrati lucidi di 30 cm […]

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Per prima cosa riempimmo i buchi, ognuno largo circa 9 mm. Il personale della manutenzione aveva gli attrezzi a portata di mano. Un po’ di stucco lisciato e sabbiato funzionò più che bene. Una mano di vernice fresca.

C’era solo un problema, in certi punti la vernice sembrava diversa, dei quadrati lucidi di 30 cm che (con la giusta luce) mostravano la precedente posizione dei buchi. I quadrati non si notavano tanto quanto i buchi, ma non potevamo fare a meno di notarli. Allora decidemmo di ridipingere i muri, da sopra a sotto, per dare un’uniformità perfetta. Fummo tutti contenti del risultato. Quelle aule ora sembravano nuove di zecca.

C’era solo un problema, quando ci spostavamo da una stanza all’altra riconoscevamo a colpo d’occhio quelle diverse, che erano state appena ridipinte, e ricordavamo, e ricontrollavamo da vicino i pezzi che avevamo stuccato. Allora ingaggiammo un gruppo di uomini in tuta bianca e ciabatte di stoffa per imbiancare tutta la scuola, muro per muro, e passare una seconda mano tanto per stare tranquilli. Quando finirono sembrava tutto così nuovo e pulito che non si capiva più quali stanze erano quelle con i buchi.

La scuola splendeva.

Splendeva così tanto in effetti che decidemmo di rifare anche i pavimenti, non coprendoli semplicemente con uno strato di linoleum come avevamo fatto nell’ultimo rinnovo, ma smantellandoli e rimpiazzandoli completamente perché adesso quei pavimenti erano la parte più vecchia, quella che suscitava più ricordi. Portammo via tutti i banchi, le mensole, l’arredamento dell’atrio e gli attrezzi sportivi rinchiusi in palestra. Portammo via le matite, i libri, i mappamondi (che non sembravano più girare come una volta) e mettemmo tutto in container temporanei dietro la scuola, impilati, riempiti e chiusi a chiave. I lavoratori lavorarono, dapprima rimuovendo gli strati del vecchio pavimento e colmando interi cassonetti di detriti, poi installando quello nuovo. E quando anche i pavimenti furono completati, sembrava davvero un posto completamente diverso. Quasi non lo riconoscevamo. L’intero edificio puzzava di vernice fresca e poliuretano.

Vernice, poliuretano e qualcos’altro. Forse cordite? Oppure piccole particelle di polvere nera bruciata che si spostava ancora nel condotto, che non era stata filtrata del tutto? La puzza cresceva di giorno in giorno, prendeva il sopravvento, risaltando più dei muri appena sbiancati e del pavimento appena rimpiazzato. Non riuscivamo a svuotare i container sul retro. Tutti i libri, le cartine e la strumentazione audiovisiva sembravano stare meglio dov’erano. Aprimmo le finestre e la puzza si affievolì un po’, ma non quanto speravamo. Provammo ad ignorarla, ma quella puzza era reale e presente e sembrava non voler andare via.

Poi realizzammo che avremmo potuto cambiare i filtri nel sistema di aerazione, una soluzione facile, come stuccare un buco.

C’era solo un problema, era troppo facile, o sbaglio? Aprire una finestra, cambiare un filtro. I filtri filtrarono la puzza e non potemmo più sentirla, ma questo non impediva alla puzza di esistere. Era ancora lì, da qualche parte, non respirata, che si muoveva attraverso i condotti e le ventole. Ed avremmo potuto cambiare di nuovo i filtri, certo, affinché rimanesse ancora meno puzza; ma meno non era abbastanza. Anche se avessimo cambiato i filtri cinquecento volte, anche se avessimo lasciato le finestre spalancate giorno e notte, l’aria sarebbe mai stata filtrata completamente? Come avrebbe potuto? Ci trovavamo nel bel mezzo di un paradosso di Zenone, le particelle d’aria diminuivano sempre di più ma non sarebbero mai sparite del tutto. Allora per alzata di mano decidemmo all’unanimità di rimpiazzare l’intero sistema di aerazione, anche se sembrava avere al massimo cinque o sei anni. Lo estraemmo interamente, non solo il motore che pompava l’aria dalla sala manutenzione ma anche i condotti. Questo significava dover sfondare i muri appena ridipinti e parte del soffitto, ma andava fatto.

Naturalmente abbiamo dovuto dipingere di nuovo, una volta installati i nuovi condotti (condotti che non avevano mai contenuto quell’invisibile puzza – di qualsiasi cosa fosse – o le esalazioni di cartoncino e colla vinilica, o il respiro dei nostri bambini). Gli imbiancatori imbiancarono, ricoprendo i muri con un altro paio di strati – qualche mano in più tra il passato ed il presente. E tra l’arredamento spostato all’esterno, l’aria nuova e la vernice nuova, sembrava aver funzionato, era come se finalmente tutto potesse tornare alla normalità.

Ma quando arrivò il momento, non riuscimmo a svuotare i contenitori sul retro. Aprirli sembrava pericoloso. Ad alcuni di noi sembrava di non sapere più cosa ci fosse al loro interno. Avevamo liste dettagliate di cosa c’era e dove, ma eravamo veramente stati attenti ai dettagli, quando li avevamo messi da parte? Forse quella puzza-fantasma non aveva impregnato solo l’edificio, ma anche gli arredi. Oppure c’era qualcos’altro che non avevamo calcolato, qualche sorpresa peggiore, una macchia o un buco sperduto che non avevamo notato, dato che eravamo così concentrati sui muri. Molti non sarebbero sopravvissuti alla vista di un altro buco. Alcuni ammisero che gli stessi banchi, con o senza buchi, erano un peso troppo grande da sopportare. Altri avrebbero preferito che non aggiustassimo nulla sin dal principio e che tirassimo giù tutto, mattone per mattone, liberandoci così per sempre dei buchi.

Ad ogni modo eravamo tutti giunti alla conclusione che era troppo presto per svuotare i container sul retro, o per far tornare i bambini. Perché chiunque si sarebbe accorto di tutto solo a guardare quelle finestre, palesemente vecchie, ora che tutto intorno a loro era stato rifatto. E il tetto? Quel tetto era una tragedia. E come avevamo potuto non notare il prato, sia di fronte che sul retro? Nessuna persona responsabile avrebbe lasciato quelle aiuole com’erano. Nessuna persona con un po’ di cuore si sarebbe fermata prima di aver sradicato fino all’ultimo filo d’erba.

Materiale d’importazione è una rubrica curata da Daniele Zinni.

La traduzione di questo racconto è stata realizzata da Daniele Testini.

Illustrazione di Alberto Fiocco.

Racconto pubblicato originariamente su Tin House con il titolo Brick By Brick.

Mika Taylor
Vive a Willimantic, Connecticut, con suo marito, lo scrittore PR Griffis, e Petunia von Scampers, il loro cane investigatore. Altri racconti di Mika sono usciti di recente su The Kenyon Review Online, The Collagist e Guernica.
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