Quasi non vado alla lettura del testamento di mio nonno, ma mia sorella ci tiene.
Il notaio legge il mio nome e aggiunge «Lavoro d’intaglio, uno» e con entrambe le mani mi passa la scultura di un corno di caribù, non di un maschio grosso ma di femmina, più semplice. Passando il dito sul simil-avorio, mi accorgo che la curvatura del corno si è formata in modo naturale, senza dover essere scolpita. E alla base le sue lisce bolle allungate vanno a finire nella conchiglia forellata di un dollaro della sabbia.
Mio nonno cacciò megattere per sei mesi, al largo della costa ovest dell’isola di Vancouver – un anno dopo la moratoria del ’68 – e ammazzava la maggior parte del tempo oziando nelle acque internazionali, dal momento che tutto sembrava morto già da un po’. C’era un vuoto, nella mutevolezza dell’oceano, che una volta aveva provato a spiegarmi. C’entrava il modo in cui, in pochi giorni, aveva notato un’assenza tra le onde e aveva capito che lì non c’era più niente.
Il corno in realtà non è che una vertebra di balena, tagliata a metà all’altezza del canale spinale. Ma devono esserci voluti mesi per ricavare quel tanto di osso.
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Sistemo il corno-di-balena in cima alla libreria. Nel paio di mesi successivi provo a spostarlo in altri punti: il tavolo della cucina, la mia scrivania, la cassetta del water, ma sembra troppo vistoso ovunque e mi fa sentire in imbarazzo, perché quando mi domandano se è un corno vero non correggo mai nessuno. Ritorna sulla libreria.
Il mese dopo vado a prendere mia sorella all’ospedale universitario ma sono in anticipo di mezz’ora, perciò pago due dollari per il museo nel seminterrato dell’edificio di biologia. Fluttuando tra isole di frammenti animali, noto una vetrina che custodisce un teschio di alce con le lamine cerebrali colorate come un arcobaleno.
E il cartellino sotto, non più grande di una scapola, spiega che la configurazione del teschio è correlata con quella del teschio della megattera, dimostrando che le balene discendono da un piccolo cervo e che la loro somiglianza con gli ungulati dalle dita pari è possibile solo a partire da un antenato comune.
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Se in pochi giorni si era accorto che l’oceano era stato setacciato, perché restò per sei mesi? Le onde sconfitte che alzano le spalle, l’impugnatura ruvida di un coltello, la segatura del calcio. Un dolore sordo nella sua schiena.
E quello che mi tiene sveglio la notte, a guardare le orbite oculari planetarie di un procione al di là dei lampioni, è la vaga percezione che tutto ha la propria forma, interamente sua; e la mia mano intuisce fluidamente la maniera di sorreggere i loro corpi, come se li conoscessi da sempre.
Materiale d’importazione è una rubrica curata da Daniele Zinni.
La traduzione di questo racconto è stata realizzata da Audrey Quinto.
Illustrazione di Alberto Fiocco.
Racconto pubblicato originariamente su Tin House con il titolo Bones.