Veronica Raimo è nata a Roma nel 1978. Ha pubblicato il suo romanzo di esordio Il dolore secondo Matteo per Minimum Fax nel 2007, e il suo secondo romanzo Tutte le feste di domani per Rizzoli nel 2013. Nel 2012 ha scritto la sceneggiatura del film Bella addormentata di Marco Bellocchio.
Insonnia è un racconto inedito che pubblichiamo per gentile concessione dell’autrice, intervistata per l’ultima uscita di Mr. Writer.
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A un certo punto ho deciso di darmi all’insonnia.
Ci sono ragazze che decidono altre cose, come perdere peso. Controllano allo specchio i risultati del loro progresso: le ossa che sporgono (soprattutto quelle del bacino danno grandi soddisfazioni nel momento in cui cominciano ad affiorare in superficie), il viso emaciato. Si guardano e hanno la prova che stanno andando nella direzione giusta. Poi sorgono controindicazioni non previste. La peggiore sono i peli. Le anoressiche cominciano a coprirsi di peluria, uno squilibrio ormonale, credo, e tutta quella tensione verso la bellezza va a farsi fottere così, per dei baffi involontari, dei peli ispidi, brutti, come quelli dei vecchi.
Io invece guardavo allo specchio le mie occhiaie. Ogni mattina più intense. Non dei cerchi intorno agli occhi, ma delle zone fuori controllo. Il nero che prende possesso della pelle. S’insinua ai bordi del naso, dilaga fino agli gli zigomi. È un cono d’ombra, non è un cerchio. È un luogo oscuro. Non interiore. Una volta tanto esteriore, visibile.
Quando stava per arrivare la notte, mi preparavo alla mia veglia piena di speranza. Un’altra notte senza dormire. Non vedevo l’ora che arrivasse quel momento, il letto pronto da una parte, io dall’altra. Sto per restare sveglia un’altra notte. Posso sdraiarmi. Posso accasciarmi sul cuscino. Cambiare posizione. Di schiena, di pancia, fetale, in pieno raccoglimento. Chiudere gli occhi, e poi riaprirli, con un sorriso sgangherato, gli occhi che scattano a comando, occhi sbarrati. Tutta la notte sbarrati. Anche in quella ridicola posizione fetale di pieno raccoglimento. Gli occhi sbarrati.
La luce arriva molto prima di quanto ti aspetti, l’alba ti sorprende. O l’aurora. Non ricordo mai quale venga prima. Non c’è bisogno del sole. Anche in questi cieli del nord basta un grigio di una tonalità più chiara della notte e puoi già dire che sia mattina. È arrivato il giorno e tu non hai dormito. Trionfo. Segni un’altra x mentale, poi pensi che potresti segnarla davvero. Sopra un foglio. È la settima notte che passi insonne.
Le anoressiche devono vedersela con i peli; io dovevo scontrarmi con il torpore del giorno. Avevo sonno. Potrei appisolarmi un attimo, pensavo. Poi la sola parola mi faceva orrore. Appisolarsi, pisolino, riposino, sonnellino, dormitina, siesta. Esistono solo modi volgari e puerili per parlare del sonno diurno. Il contrario dell’abbandono. Non potevo schiacciare un pisolino e poi pensare di affrontare la notte con la prodezza che andavo agognando. Immaginavo quel buio derisorio di fronte al mio sonnellino delle due di pomeriggio, un rivolo di bava che avrei cercato di dissimulare, un russare profondo ma composto. Non ho ceduto. Ma ho imparato un trucco. Dormire ad occhi aperti. Un’altra espressione poco dignitosa, una frase fatta da un certo punto di vista; ma se la prendete per quello che è, letteralmente, è accettabile. Dormivo ad occhi aperti davanti alla gente che mi parlava. A volte potevo dare l’impressione di essermi incantata, ma molto più spesso riuscivo a mantenere uno sguardo se non vitale quantomeno vigile. Eppure stavo dormendo. Poi potevano accadere dei piccoli incidenti, ma recuperabili. Mi cadeva una tazza di mano, la bici, la sigaretta, un accendino, qualsiasi cosa. E allora mi ridestavo. Non capisco come sia successo, dicevo. Di fronte alla chiazza di caffè sul tavolo, o sui miei pantaloni, il liquido bollente che mi ustionava una gamba, io mi meravigliavo, esattamente come il mio attonito compagno di conversazione, che avevo ascoltato fino ad allora dormendo ad occhi aperti. Ma poi quando arrivava la notte, non avevo nulla di cui vergognarmi. Non avevo schiacciato nessun pisolino. Avevo solo lasciato che un oggetto mi cadesse dalle mani. Una macchia rossa sulla coscia. Una bruciatura sulla manica della camicia. Ma ero sveglia. Insonne. Pronta per la prossima x da mettere sul foglio.
Poi è arrivata la chimica. No, prima della chimica la natura.
Tisane della notte. Melatonina. Valeriana. Le prendevo in ordine. Una brodaglia insapore che sapeva di erba marcia. Piccole pasticche bianche che avrei dovuto assumere un’ora prima di coricarmi (quanti pronostici ci chiede la natura), e poi una pillola più grossa, scura, mezz’ora prima. Andavo a letto. Provavo a leggere qualcosa. Mi annoiavo. Non riuscivo a seguire nemmeno il più demente dei racconti non perché avessi sonno, ma perché c’era nulla che potesse interessarmi se non i miei pensieri. E i miei pensieri vorticavano felici, orgogliosi, verso un unico orizzonte: «non prenderai mai sonno». Li seguivo, accodata come un voyeur discreto, mi mettevo in fila dietro di loro, mentre procedevano spediti verso quella linea netta. Arrivavano lì e si dissolvevano. Le pecore saltano la staccionata. I miei pensieri si disperdevano nel nulla.
Poi è arrivata la chimica.
Una boccetta di sonnifero. Avevo qualcosa da fare nelle ore di insonnia. Controllare su internet gli effetti nocivi dei componenti. C’erano tutti. Qualsiasi forma di morte, di arresto, di resa, che avresti voluto scegliere nella tua vita, potevi farlo con un effetto collaterale a caso. Era bello contare le gocce. Le pecore che saltano la staccionata, le gocce che finiscono nel bicchiere.
Amavo la solidarietà degli altri insonni, degli ansiosi, di chi aveva bisogno di dormire perché aveva una ragione valida per svegliarsi la mattina. Di chi aveva bisogno di sentirsi riposato. Prova questo. Prova questo. Prova questo. Ma non sarai ubriaca stasera? Altrimenti è meglio di no.
Nella bustina dei filtri con cui rollavo le sigarette avevo infilato tutte le pastiglie che mi sono state donate per dormire. Ero diventata una questuante dei rimedi. Era il mio modo per approcciarmi agli altri. Il mio modo per rimorchiare, se volete. Io non dormo da settimane, dicevo. Nei cessi dei locali, ai concerti, in metro, alle feste, dopo uno spettacolo teatrale inutilmente narcolettico. Con questa devi dormire per forza. Non avrai mica bevuto stasera? Se hai bevuto, magari prendi solo mezza pasticca.
Nel cuore della notte spedivo messaggi per dire: sono sveglia! Non ha funzionato. Sono ancora sveglia! Non mi rispondeva nessuno. Solo la mattina arrivava la saggezza premurosa dopo il rimedio sbrigativo: forse dovresti consultare un dottore.
Ho consultato il dottore. Da quanto tempo ha l’impressione di non dormire? Mi ha chiesto. Con chi pensava di avere a che fare? Io non avevo nessuna impressione. Io ho sempre odiato la gente con le impressioni. Con le sensazioni. Io non dormivo e basta. Io non dormivo perché non volevo dormire. Sono tornata a casa con altre gocce. Mi raccomando, mi faccia sapere.
Ho spedito un messaggio al dottore di notte. Sono sveglia. Non mi ha risposto. Mi raccomando un cazzo, ho pensato.
Il giorno continuavo a rovesciare gli oggetti. Sentivo la mandibola allentarsi in una smorfia ebete. Lo sguardo, però, ancora sintonizzato su quell’espressione vigile che ero riuscita a mettere a punto. Le occhiaie che crescevano di vita propria, come muschio sulla faccia. Le gambe cedevoli. I muscoli sfibrati, ragnatele pieni di buchi. Sul foglio le x erano diventate 27. Ho sempre amato i numeri dispari. Il 27 si potrebbe dire sia il mio numero preferito, anche se mi fa paura. Posso smetterla, ho pensato.
Ho deciso di smetterla con l’insonnia.
Sono andata a letto e non sono riuscita a dormire.
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Illustrazione di Alfredo Chirizzi