“Nerdopoli” — Intervista a Eleonora C. Caruso
Sul finire dei suoi primi dieci anni, qui compiamo una piccola rivoluzione, abbandonando il nostro formato classico – quello del magazine culturale a cadenza vagamente quotidiana – per presentare ogni mese un solo saggio e un solo racconto. Da queste pagine 24 autori ogni anno proporranno il loro filtro sul reale, manipolando inevitabilmente la personalità di Dude mag: ed è una cosa che ci rende enormemente curiosi.
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“Nerdopoli” — Intervista a Eleonora C. Caruso

Nerdopoli è un libro di cui certamente sentivamo la mancanza, là dove il plurale non allude soltanto a noi membri consapevoli della comunità nerd, ma a chiunque abbia sfiorato quello sterminato patrimonio che ormai viene etichettato come “nerd”.

Nerdopoli è un libro di cui certamente sentivamo la mancanza, là dove il plurale non allude soltanto a noi membri consapevoli della comunità nerd, ma a chiunque, con maggiore o minore passione, abbia sfiorato quello sterminato patrimonio che ormai, anche a livello di senso comune, viene etichettato come “nerd”. Si parla di manga, anime, letteratura fantasy, giochi di ruolo, serie tv a tema horror o fantascientifico e altro ancora; un panorama praticamente infinito che, in una certa misura, interessa tutti i lettori o gli spettatori. Chi non ha mai visto un cartone animato, o giocato a un videogioco, o guardato un film fantasy, o letto un manga? Naturalmente, sebbene siano esperienze condivise da miliardi di persone, non tutti si definiscono nerd, e il mondo racchiuso in questa parola è decisamente più complesso di quanto si possa credere.

Un tentativo di mappatura, allora, era assolutamente necessario, e Nerdopoli risponde perfettamente a questa esigenza proponendo una serie di saggi (sette, per la precisione, scritti con quella misura precisa e antipedantesca che caratterizza la collana Saggi Pop di Effequ in cui il libro è ospitato) che si muovono con grande libertà su temi diversi: dal fenomeno della fanfiction all’otaku, dalle evoluzioni nel modo di recepire e partecipare alle serie tv ai videogiochi ad altro ancora; il tutto puntando su un appropriato criterio di parzialità: quella degli autori dei testi, naturalmente, e dei singoli argomenti di volta in volta affrontati. Una metodologia che, se da un lato denuncia e accetta l’impossibilità di disegnare con assoluta e indiscutibile precisione la carta geografica dell’arcipelago nerd o di scrivere la “Storia dell’universo nerd”, come se si trattasse di un manuale scolastico, dall’altro, proprio in virtù della particolarità dei punti di vista raccolti, contribuisce una volta di più a restituire quella complessità di cui si parlava prima e a sottolineare l’importanza formativa, nella sfera privata delle esperienze personali, di determinate espressioni culturali (il che ci porta direttamente a un discorso generazionale: gli autori, non a caso, sono tutti nati tra il 1978 e il 1988, ovvero hanno vissuto le prime grandi ondate di videogiochi, manga, anime e internet in quei decenni tanto mitizzati come gli Ottanta e i Novanta, continuando ad osservarne gli sviluppi fino a oggi — e uno dei meriti del libro sta sicuramente nell’aggiornamento che offre al lettore: chi è rimasto indietro o completamente a digiuno di alcuni passaggi importanti negli anime o nei videogiochi, per esempio, può facilmente prendere spunto per ripartire o scoprire qualcosa di nuovo).

L’indicare, tra le righe, come la crescita dei bambini in quei due decenni sia passata anche e soprattutto per il dialogo con un certo tipo di prodotti (se è vero, come dice Matteo Grilli nel suo saggio sull’otaku, che «se eri un bambino negli anni Novanta le tue giornate prevedevano una formazione dove gli anime erano predominanti») permette anche di definire, o ridefinire, un canone di opere fondamentali per chi, al giorno d’oggi, una volta diventato adulto, non può fare a meno di confrontarsi con quel passato e con quanto di esso permanga nel presente.

Di tutto questo abbiamo parlato con la curatrice del libro, Eleonora C. Caruso, autrice del saggio sulla fanfiction, scrittrice di fanfiction, di romanzi (il suo ultimo è Le ferite originali, Mondadori 2018), e collaboratrice di diverse riviste e case editrici di fumetti.

Nerdopoli può essere letto a più livelli: è un implicito omaggio ai nerd, è una mappatura di alcuni dei punti su cui ruota un’ideale “cultura nerd” (che in fondo non può essere definita con reale precisione) ed è anche un insieme di testimonianze di diversi approcci a questa cultura; una varietà che contribuisce a dare un’idea di quanto sia complesso questo mondo, sebbene tutti credano di sapere perfettamente di cosa parliamo quando parliamo di nerd. Detto ciò, da dove nasce il desiderio di realizzare questo libro?

Direi che hai colto tu stesso il punto alla perfezione, quando lo definisci una “mappatura”. Quando parliamo di “cultura nerd” ormai lo facciamo sapendo benissimo che si tratta di un termine ombrello, che tiene sotto di sé tante cose, non sempre simili tra loro se non per la — chiamiamola così — qualità della passione che suscita in chi ne fruisce. Abbiamo quindi immaginato questa cultura come una sorta di vicinato, abitato da tante persone diverse che condividono, volenti o nolenti, lo stesso cortile. Il desiderio era proprio questo: mappare il vicinato, almeno un po’.

Una volta, e parliamo del 2003 o del 2004, qualcuno mi disse che se conoscevo il significato della parola nerd allora ero un nerd (una specie di “Primo teorema del nerd”). All’epoca non era un concetto sdoganato come oggi. In questi quindici anni ci sono stati successi planetari come i film del Signore degli anelli o di Harry Potter (oltre ai romanzi, per quest’ultimo) e una sitcom molto fortunata come The Big Bang Theory, ma al di là di questa “apertura” verso la massa (e di una complementare disponibilità della massa), da cosa dipende, secondo te, questo sdoganamento?

Credo che in gran parte dipenda molto semplicemente dal così detto “ricambio generazionale”, che è fisiologico, persino in un paese come l’Italia dove tutto è molto lento a cambiare. Noi ragazzini nerd, che ci siamo liberati più facilmente dello stigma grazie alla possibilità di condividere online le nostre passioni, siamo cresciuti e abbiamo portato quelle passioni con noi, nella nostra quotidianità, nei nostri lavori, ne abbiamo scritto creato e parlato, e questo è il risultato.

Se diamo un’occhiata alle date di nascita degli autori, vediamo che si copre un arco temporale che va dal 1978 al 1988, ovvero il libro riflette la sensibilità di persone che hanno vissuto l’infanzia tra gli anni Ottanta e i Novanta, due decenni che in questi ultimi anni stanno subendo un forte (e comprensibile) processo di mitizzazione nostalgica. Oltre ad aver messo a fuoco alcune questioni del cosiddetto universo nerd di cui stiamo parlando, mi sembra che uno degli effetti della lettura di Nerdopoli sia quello di restituire l’importanza formativa che un certo tipo di cultura, diciamo pure pop, ha rappresentato per i bambini di quei due decenni. Videogiochi, giochi di ruolo, serie tv, manga e anime: per noi, più che un semplice svago o una semplice fruizione di quanto passasse il convento, sono stati i primi incontri col mondo della finzione e non solo. Che ne pensi?

Anche in questo caso, mi hai tolto le parole di bocca! Come dicevo prima, credo che rispetto ai nostri “predecessori” noi abbiamo avuto almeno una grande fortuna, vale a dire la possibilità di condividere in rete l’importanza che hanno avuto per noi certe cose che venivano considerate, all’esterno, futili o infantili. Quando frequentavo le medie, per esempio, le mie amiche spesso si scocciavano di me perché preferivo restare a casa a giocare a Final Fantasy VII che non andare al bar del paese con loro. Intendiamoci, non sto dicendo che io fossi un genio e loro stupide, per questo. Semplicemente, io avevo altri interessi che loro non condividevano, e se ho potuto continuare a coltivarli con tanta assiduità è stato sicuramente merito della rete, che mi dava occasione di condividere quelle passioni per me così importanti con qualcuno. Se così non fosse stato, forse a un certo punto avrei ceduto alla solitudine, e sarei andata al bar. Chi lo sa? Inoltre, se oggi sono una scrittrice, io lo devo agli anime. La mia non era una famiglia di lettori, i primi libri entrati in casa nostra sono stati i miei, ed è attraverso i cartoni che ho compreso quanto intensamente amassi le storie, e che importanza avessero nella mia vita.

Andando oltre la eco infantile che arriva fino al nostro presente (perché quelle passioni sono tutt’altro che finite, ma anzi continuano ad occupare buona parte del tempo), che cosa ci affascina, secondo te, di questo variopinto mondo fatto di disegni, giochi, cartoni, eroi, trasformazioni, azione, avventura, amore, delusioni ecc.?

È la magia della trasfigurazione. In apparenza esci da te, ma in realtà ti stai esplorando, esplori il mondo che hai attorno. Ti mette in contatto con l’altro.  

Il tuo saggio sulla fanfiction mi ha molto interessato, sia perché non conoscevo bene questo universo, sia perché sottolinea un aspetto interessante: non si tratta solo, passivamente, di vedere cartoni o serie tv, o leggere libri fantasy, o manga, ma il vero appassionato è colui che “partecipa” manipolando e reinventando quella materia con cui dialoga quotidianamente. Lo scrittore di fanfiction si appropria di una storia preesistente per costruire lui stesso nuovi meccanismi narrativi; tu arrivi addirittura a mettere l’Orlando furioso, in quanto fondato sull’Orlando innamorato, come antenato delle fanfiction. Hai partecipato a questa esperienza che ha coinvolto decine di migliaia di persone solo in Italia: oltre al fatto che, immagino, sia stata un’ottima palestra di scrittura, da dove veniva il tuo bisogno di scrivere storie a partire da ossessioni come Final Fantasy VII o Neon Genesis Evangelion? Si trattava solo di sfogare una passione incontenibile o era anche un modo per confrontarsi con quelle passioni? (O entrambe le cose, naturalmente).

Entrambe le cose. Quando una storia è ricca e complessa, quella storia ha la virtù di uscire da se stessa. Ha una trama e dei personaggi, certo, ma la sua portata va oltre quella trama e quei personaggi. Una buona storia è qualcosa di vivo, che quando la tocchi cambia la sua forma; lei si adatta a te, e tu ti adatti a lei. Ci sono moltissime serie che ho amato, veri e propri capolavori, sulle quali non ho scritto un rigo, e serie invece più semplici o imperfette sulle quali invece ho scritto centinaia di pagine. Quello che hanno in comune tutte queste serie è di aver toccato qualcosa, dentro di me, che rientra nel campo delle cose in cui mi piace mettere le mani.

La fanfiction, da come la descrivi, è un percorso particolarmente spontaneo: chi lo fa segue unicamente la sua passione, cavalcando la “possibilità di riappropriarsi dell’immaginario”, lontano da logiche aziendali, o social, che sono, per esempio, alla base di una piattaforma “infernale” come Wattpad. Da questo punto di vista si pone come un’alternativa, quasi rivoluzionaria, rispetto al modo comune di intendere la scrittura, il ruolo dell’autore e quello del lettore o dello spettatore.

In un certo senso, scrivere fanfiction è un atto di umiltà, perché stai prendendo in prestito qualcosa sapendo che quel qualcosa non è tuo. Eppure, proprio per questo motivo, è anche un atto di vanità. Entrambe queste cose però sono intrinsecamente legati all’atto stesso di scrivere, no? C’è però una rinuncia, in una certa misura, all’autorialità personale, che sicuramente è molto lontana dalla scrittura tradizionale. In fondo, per quanto bella e intensa e azzeccata possa essere la tua fanfiction sui Cavalieri dello Zodiaco, I Cavalieri dello Zodiaco restano una proprietà intellettuale di Masami Kurumada. E va bene così. Per quanto mi riguarda, le fanfiction sono una palestra di scrittura incredibile, ti costringono a lavorare su una varietà infinita di cose spesso trascurate: punti di vista, varianti inattese, coerenza interna, personalità regolate da certe dinamiche non modificabili… è utile. Tuttavia, anche se molti autori di fanfiction finiscono per voler “tentare il salto” all’editoria tradizionale, il passaggio non è così immediato.

Tu segui ancora molto i manga e gli anime; a novembre, su Wired, hai anche scritto un articolo molto interessante sul prossimo arrivo di Neon Genesis Evangelion su Netflix. Alcuni nostri coetanei, così almeno mi capita di riscontrare, sembrano convinti che i cartoni giapponesi siano terminati con la fine della loro infanzia, quando l’offerta, al giorno d’oggi, è piuttosto valida: ci sono opere che ti hanno colpito particolarmente o di cui ti andrebbe di parlare?

È vero che attualmente l’industria giapponese sta affrontando una crisi dovuta al mercato del lavoro interno del settore, ma dagli anni Novanta in poi sono uscite un’infinità di serie eccezionali. Considerando solo questo decennio abbiamo avuto Madoka Magica, una destrutturazione terribile e brutale del genere delle “ragazze magiche”, Psycho Pass, tra i più raffinati sci-fi filosofici degli ultimi anni, il bel reboot Devilman: Crybaby, toccanti storie scolastiche da lacrimoni come Your Lie in April o il film di Makoto Shinkai Your Name, poi personalmente mi sono beccata una grave dipendenza dai nuotatori adolescenti di Free! … c’è persino troppa roba buona, non si sa quale guardare prima!

In un’intervista dell’aprile 2017 Vanni Santoni ha dichiarato che «i nerd hanno vinto». Che ne pensi?

Abbiamo vinto, sì. Ma da grandi poteri derivano grandi responsabilità.

Massimo Castiglioni
È nato a Roma nel 1988. Collabora con diverse riviste occupandosi prevalentemente di letteratura e cinema.
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