L’uomo è un adolescente minorato.
Michel Houellebecq
Ho acquistato il primo libro di Michel Houellebecq nell’estate del 2000, avevo 15 anni, ed era il tempo in cui per la prima volta il mio status privilegiato di figlia di un padre con professione intellettuale e madre avida lettrice veniva fatto fuori dal libero arbitrio. Iniziavo a scegliere le mie letture con tutta l’inconsapevolezza del caso e senza più attingere soltanto dalla grande libreria di famiglia, erano le prime volte in cui mi capitava di comprare libri con i pochi soldi che mi mettevo appositamente da parte: leggevo su un giornale che esisteva un autore e mi incuriosivo, scoprivo che una band che mi piaceva si era ispirata a quell’altra band degli anni ’70 e finivo col comprare il peggiore album che questa avesse mai pubblicato perché magari in negozio, in provincia, avevano quello soltanto.
Era tutto nuovo e senza regole, del tutto privo di sovrastrutture, non avevo conoscenze approfondite su libri e musica e non ero bombardata dalle maniacali classifiche da era del web né dalle opinioni martellanti di troppe persone; ancora oggi spesso penso a quel periodo come il più libero della mia vita, qualcosa di destinato a non ripetersi mai più con la medesima purezza.
Nel mese di luglio mi imbattei in Michel Houellebecq e lessi Le particelle elementari (Bompiani, 1999), ricordo le lunghe ore postprandiali seduta e poi sdraiata sul letto senza mai staccare gli occhi dal libro, in un tempo in cui niente mi separava da ciò che stavo facendo, ben poco riusciva a deconcentrarmi, specie dalla lettura – avevo un telefono cellulare da un mese dotato di una particolarità: non poter fare quasi nulla, ad esempio quando arrivava un sms alla voce mittente risultava solo il numero, niente nome, anche se il nome era stato aggiunto in rubrica.
Ho amato molto quel romanzo, un’opera in grado di sconvolgermi in modo quasi originario, di offrirmi i primi turbamenti narrativi dopo quelli, molto diversi, delle fiabe dell’infanzia, con quel suo sadomasochismo iperborghese, violentissimo e desolante. Non avevo mai letto nulla in cui si raccontasse nitidamente il sesso, avevo 15 anni e del sesso – e tutte le altre cose che quel libro racconta – non sapevo praticamente niente. Durante il mese di agosto andai in vacanza a Parigi e mi portai Estensione del dominio della lotta (Bompiani, 2000), se solo sapessi disegnare potrei tracciare a mano libera e occhi chiusi, ancora oggi, i contorni dei cani fluorescenti gialli che abitavano quella sovraccoperta blu che piegavo e toglievo e rimettevo stando seduta a leggere quel piccolo libro devastante sulla moquette di un algido bilocale dalle parti di Porte de Versailles.
A volte uscivo sul grande terrazzo dell’appartamento e alzavo gli occhi solo per mettere a fuoco la lontanissima piccola porzione di Tour Eiffel visibile, cercando di contare quanti quadratini del monumento fossero distinguibili a occhio nudo tra il bordo della terrazza e la punta della torre. Leggevo dell’epopea tragica del protagonista e del suo rapporto con Tisserand domandandomi quanto disperato dovesse essere qualcuno per pensare e scrivere quella specie di poema pieno di inermità e insoddisfazione. Nemmeno la disperazione, naturalmente, mi era troppo familiare, ma la sua conformazione apparentemente così poco materica me la faceva percepire assai più vicina di tutte le faccende psico-sessuali che avevo trovato nel libro precedente.
Ho sempre avuto l’impressione
che fossimo vicini, come due frutti
usciti dallo stesso ramo.
Il giorno si leva mentre ti scrivo,
il tuono brontola dolcemente,
la giornata sarà piovosa.
Ti immagino mentre ti raddrizzi
sul tuo letto.
Questa angoscia che senti, io la sento
allo stesso modo.
La notte ci abbandona
la luce delimita
di nuovo le persone
Le persone piccolissime.
Steso sulla moquette osservo
con rassegnazione l’alzarsi della luce.
Vedo dei capelli sulla moquette,
questi capelli non sono tuoi.
Un insetto solitario scala i fili di lana.
La mia testa ricade,
si solleva, ho voglia di chiudere
veramente gli occhi.
Non dormo da tre giorni, non lavoro
da tre mesi, penso a te.
Ogni volta che mi è capitato di pensare intensamente a qualcuno sono passata attraverso un quasi altrettanto intenso desiderio di comunicare con lui in un modo che riuscisse a chiarire a ogni passo tutta l’intimità che sentivo esistere tra noi. Solo una volta, tuttavia, ho scritto e spedito una lettera d’amore e ancora non so se io sia stata in grado o meno di far capire al destinatario che quella era una una vera importante non cancellabile lettera d’amore, qualcosa di fisiologicamente destinato a lasciare un segno nella mia storia di essere umano. Tutto quello che avrei sempre voluto dire, negli estremi casi di estremo pensiero d’amore – e nella vita, a conti fatti, non sono molti – sono i due versi di Houellebecq che chiudono questa poesia tratta dalla sua raccolta Il senso della lotta (Bompiani, 2000).
Non dormo da tre giorni, non lavoro
da tre mesi, penso a te.
Naturalmente è assai probabile che durante la composizione di questi versi realmente l’autore non dormisse da giorni e non lavorasse da mesi ma quello che resta evidenziato, solennemente ed eternamente, l’unica cosa destinata a contare, è quel «penso a te», tre parole che chiariscono l’unica verità semplice. Che in una poesia si possa effettivamente raccontare di cose come capelli rimasti sulla moquette non è una cosa che ho imparato a scuola (dove non mi hanno mai purtroppo fatto leggere di quel Pascoli che nella sua “Italy” ripeteva la parola «cheap» di verso in verso) ma è ciò che a un certo punto Michel Houellebecq mi ha insegnato, ricordandomi che la poesia continua sempre, prendendo le parole del tuo mondo di uomo contemporaneo, gli oggetti del tuo tempo, il tuo universo, trasformandolo della stessa trasformazione operata dai poeti antichi che la scuola ci insegna, in un’universale, unica e semplice verità, in questo caso quel «penso a te».
Michel Houellebecq si è preso la mia verginità di lettrice, mi ha allontanata con decisione da un’idea di lettura legata esclusivamente ai libri di casa e mi ha insegnato a leggerne di miei, lo ha fatto senza che io me ne rendessi conto visto che più avanti, negli anni, nonostante io abbia quasi sempre continuato a seguire le sue pubblicazioni, non ho mai pensato a lui come uno scrittore che mi aveva effettivamente cambiato la vita. Come quando si fa sesso la prima volta spesso più coinvolti dall’idea della nuova intimità che si sta per scoprire che dall’amore e dal piacere puri e semplici, allo stesso modo si possono leggere libri alle porte dell’età adulta e sentire che non tanto l’essenza dell’opera quanto l’averla approcciata, toccata, consumata, ha finito per lasciare un segno indelebile nella tua privata storia di lettore.
Di quello che ho letto con voracità coinvolgimento ed eccitazione in quell’estate e in quell’autunno che la seguì, non resta che il ricordo del piacere tossico della scoperta, qualcosa che oggi posso distinguere come molto radicalmente diverso dal piacere della grande letteratura – solo anni dopo, a partire da Piattaforma (Bompiani, 2003), scoprii che quella di Houellebecq è, effettivamente, grande letteratura scritta da un grande autore e pensatore.
In quell’estate del 2000 leggevo di teorie politiche e morali che forse anche oggi mi sarebbero complicate da decifare, leggevo storie di uomini e donne che non pensavo potessero avere forma nel mondo in cui io e gli altri umani camminiamo né essere racconti reali di come ti si può presentare, a volte, l’esistenza. In qualche modo conobbi un altro essere umano, lo frequentai con vigore e regolarità per mesi senza sosta. Negli anni queste storie, queste teorie e questi mondi sono rimasti sepolti, sovrastati da tutte le letture che ho gustato, ingoiato, digerito e non sopportato, amato e non amato. Intanto, dagli abissi sepolti e da lontano, ogni tanto quell’essere umano che avevo conosciuto, quell’anima e quella mente che figurativamente mi ero disegnata come mix dei personaggi dei libri di Houellebecq e delle sue storie, ha alzato un dito, un braccio, mosso un ginocchio tornando a scuotermi, propormi di provare a ridargli la mano, ricordandomi gli albori di un viaggio sospeso, celestiale e insieme infernale, che avevo fatto verso di lui, la mia Letteratura.
«Solo la letteratura può dare la sensazione di contatto con un’altra mente umana, con l’integralità di tale mente, le sue debolezze, le sue grandezze, i suoi limiti, le sue meschinità, le sue idee fisse, le sue convinzioni; con tutto ciò che la turba, le interessa, la eccita, la ripugna.»
Michel Houellebecq, Sottomissione (Bompiani, 2015)