Vivo a New York da quando avevo meno di dieci anni. Non c’è nessun’altra città del mondo che conosco altrettanto bene. Le passeggiate lungo Riverside Park. I locali di Midtown o Williamsburg (che bazzicavo quando non era ancora l’epicentro mondiale della cultura hipster). La muraglia neoclassica di Wall Street. Il Bronx, quel quartiere leggendario in cui, stando a quel che mi raccontavano da piccolo, di notte nemmeno la polizia si azzardava a entrare, ma che oggi sembra aver perso un bel po’ della sua aura oscura (anche se continua a non essere il primo posto al mondo in cui vorreste passeggiare da soli di notte). Le palazzine residenziali di Park Slope, scenograficamente meno accattivanti dei grandi grattacieli, ma che a me sono sempre piaciute molto di più, per l’aria di raccolta e quieta riservatezza che ogni volta mi ispira la loro vista. Insomma, potrei parlarvi per ore di New York. Ci vivo da sempre.
Solo che non ci sono mai stato. E probabilmente non ci andrò mai. O almeno non prima che qualcuno si decida finalmente a inventare quel dannato teletrasporto con cui, negli anni ’80, ci illudevano che avremmo viaggiato nel XXI secolo, risparmiandomi così le decine di attacchi di cuore con cui il pensiero di volare per ore sull’Atlantico mi stroncherebbe prima ancora di imbarcarmi sull’aereo. Se credete di conoscere il significato dell’espressione “paura di volare”, be’, non avete mai conosciuto me.
Perciò la New York in cui ho passato buona parte della mia vita non è la New York reale, ma una specie di ricostruzione olografica della Grande Mela che si sovrappone quasi perfettamente alla città vera e propria, con cui condivide aspetto esteriore, quartieri, nomenclatura e toponomastica, carattere degli abitanti, storia e leggende, tutto. Una ricostruzione che deriva i suoi connotati e le sue caratteristiche distintive dall’enorme quantità di storie con cui la città concreta, da sempre, rimodella e ripensa all’infinito il suo stesso ritratto, frammentando la comprensione della sua più intima essenza in un prisma infinitamente sfaccettato di immaginari impossibili da ricomporre in un’immagine unica e univoca. Il risultato è una New York fittizia apparentemente identica alla sua controparte fisica, ma al tempo stesso più ricca e più povera di essa, più autentica e più subdola, ingannevole e rivelatrice come ogni vero mito.
Inevitabile che tra le due città – quella vera e quella immaginaria – si instauri un complesso dialogo di parallelismi, aspettative e corrispondenze. La New York reale ha le spalle abbastanza larghe per reggere il peso del suo alter ego letterario e cinematografico? In che rapporto sta la concretezza urbana di ciò che a New York si può davvero vedere, visitare e toccare con i luoghi e le atmosfere che siamo abituati a conoscere attraverso il filtro della finzione e della ri-creazione artistica? Per scoprirlo, Davide Piacenza (giornalista ed editor di Studio) ha fatto quello che io ho troppa paura di fare: è salito su un aereo ed è andato a constatare di persona come stanno le cose. Ne è nato Empire State of Fiction. Sulle tracce delle storie di New York, un reportage di viaggio (pubblicato, per ora solo in ebook, da informant) che si propone il difficile compito di «unire la città reale con quella immaginaria, tracciando un parallelo tra i luoghi delle storie di finzione con quelli tangibili che compongono la nostra città privata».
Attingendo a un repertorio piuttosto vasto di storie newyorkesi (romanzi, racconti, film, serie tv), Empire State of Fiction segue una traiettoria che parte da Manhattan per arrivare al Queens, passando attraverso il Bronx e Brooklyn e sottoponendo, per ogni quartiere, via o strada, l’atto dell’osservazione metropolitana alla lente della rivisitazione meta-narrativa. Il reportage che ne deriva (e che, qua e là, soffre un po’ di sovraccarico informativo) è una sorta di “mappa bifocale” che mostra alternativamente la città reale e tangibile di tutti i giorni e quella, altrettanto reale e insieme del tutto fittizia, di Harry e Sally, Lena Dunham, F.S. Fitzgerald, Don DeLillo, Patrick Bateman e Bret Easton Ellis.
L’unione delle due città a sua volta dà origine, inevitabilmente, alla New York privata e personale vissuta durante il suo viaggio dallo stesso Davide Piacenza. Di questa, già che c’ero, ho parlato direttamente con lui.
E quindi, New York. Ti sei pentito di esserci andato?
“Pentito”? Heck, faceva molto freddo e seguire i vari itinerari ha richiesto un’organizzazione da accademia militare… ma no, direi che lo rifarei subito.
La domanda era una battuta fino a un certo punto: quando facevo lettere classiche all’università, c’era questo professore di letteratura che ci ammoniva sempre di non visitare assolutamente Atene, perché al confronto con l’immagine veicolata dai testi letterari ci saremmo rimasti male.
Per certi versi sì, di certo lo scarto tra fiction e realtà è di per sé deludente, ma è nella natura della fiction. New York però mi è parsa avere, non so se per un’inevitabile autosuggestione, quel fascino che da tempo mi ero convinto avesse, una certa atmosfera che trascende la singola storia. D’altronde si parla di una città a sé stante, culturalmente eterogenea ma molto, molto, molto definita (e definita anche da quelle storie di cui parlo nel libro, che è proprio la cosa che mi ha spinto a cimentarmi nell’iniziativa).
In effetti leggendoti ho avuto proprio quell’impressione, di una specie di “consapevolezza narrativa” della città stessa da parte dei suoi abitanti: tipo quelle due signore con cui hai parlato di Harry e Sally, o quel tizio in fila allo Yankee Stadium che ti parlava di DeLillo.
Quella celebre frase di Updike sui newyorkesi che «credono che chi vive altrove stia, in qualche modo scherzando» – citazione che per inciso avrei messo anche in un libro di cucina thailandese, tanto vi sono affezionato – dice tanto del rapporto tra quella città e chi la abita, perlomeno a giudicare da ciò che ho sperimentato: persone vogliose di dare informazioni, consigliare posti, aiutare il turista smarrito. In uno dei suoi libri su New York, Paolo Cognetti scrive: «La prima persona con cui ho parlato era un venditore di spiedini, un portoricano che mi ha indicato la metropolitana dicendo “Bienvenido in America”». Ecco, il concetto è questo. La consapevolezza della dimensione narrativa e immaginifica dell’ambiente urbano è tanto causa quanto sintomo di scene del genere, secondo me.
Vero. Tra l’altro l’aneddoto di Cognetti si sposa bene con quello che è capitato a te, che hai trovato perlopiù gente disponibile a darti indicazioni e opinioni; è finita l’epoca della diffidenza post-11 settembre, finalmente. Mi ricordo amici che andavano a New York fino a dieci anni fa e dicevano che la gente sembrava ancora aver paura di tutti.
Ho viaggiato un po’, compatibilmente con la mia età anagrafica, e devo dire che finora New York è stato l’unico posto dove le persone lungo la strada anticipavano le tue richieste. Ricordo questa vecchina dell’Upper West Side a cui è bastato vedermi fermo al semaforo con un’espressione credo inequivocabilmente dubbia. Ma se non si fosse fatta avanti lei non avrei nemmeno chiesto aiuto, probabilmente avrei cercato di cavarmela da solo.
Empire State of Fiction vuole mostrare che è ancora possibile, nel 2015 e in un immaginario collettivo prevalentemente americano, che è ancora possibile scrivere di New York. Anzi, che New York è talmente presente nell’immaginario che non si finisce mai di scriverne. Tanto che uno potrebbe pensare: con la mole di materiale che c’è, per raccontare un viaggio letterario a New York è proprio necessario andarci fisicamente?
Beh, leggendo l’ebook ti sarai accorto che il nocciolo della questione, volendo usare un po’ l’efficiente rasoio di Occam, è aver confrontato quant’era conosciuto perché immortalato in un’opera e quello che invece esiste davvero adesso, magari al suo posto, cose che puoi guardare, persone con cui puoi parlare, scenari che possono essere (e, spoiler, spesso sono) del tutto gli stessi o completamente diversi, e tutto a distanza di un pugno di metri. Credo che la forza del format – che peraltro devo a un bel pezzo di Michele Turazzi che avevamo pubblicato su Studio tempo fa e che aveva l’ulteriore pregio di essere applicato a Milano, dove l’immaginario da cui pescare è enormemente più ridotto – stia unicamente nel fatto di essere stato in quei luoghi. Per cui, rispondendo alla tua domanda, sì, era necessario.
Ultimissima cosa veloce: ci sono quartieri che stanno meglio nell’immaginario che nella realtà? Tipo il Bronx, che è quello di cui parli meno? Non hai trovato nessuno con vestiti d’acciaio e borchie che voleva ucciderti?
Confesso che i borough di cui ho parlato meno non soffrono di una mancanza di attenzione per via di mie valutazioni negative, ma per semplici problemi di schedule, per così dire: ho dovuto privilegiare Manhattan per ovvi motivi. Cosa intendi per “meglio”, però? Posti che nella realtà sono terribili e nella fiction meno?
No, posti che nella fiction hanno più potenzialità narrative di quelle che la realtà poi rivela, ecco. Magari proprio il Bronx, che occupa circa l’80% del mio immaginario cinematografico di adolescente, mentre leggendoti ho avuto l’impressione che ci sia poco niente.
Devo dire che certe zone di Manhattan non mi hanno colpito particolarmente: certe parti dell’Upper West Side, il Meatpacking district non sono, per i miei canoni almeno, luoghi memorabili. Mentre invece la scena di un film di Woody Allen o una descrizione di Tom Wolfe, beh, sono parte di un film di Woody Allen e di un libro di Tom Wolfe. Mi spiego? Il Bronx invece mi è piaciuto molto, e così le sue vie, i projects, lo Yankee Stadium, i campetti da basket, le persone; ma ci ho passato solo una giornata, è stata un’osservazione purtroppo limitata.