A pagina 27 de L’appartamento di Mario Capello (Tunué, 2015) c’è Francesco, uno scrittore amico del protagonista Angelo, che gli dice una cosa da meritarsi una testata sul naso: «La vostra rivoluzione, […] quella della tua generazione, sarà prosaica […] o non sarà», gli dice. Angelo è in crisi, sta per abbandonare un lavoro da editor letterario col quale si identifica profondamente, e l’amico gli si mette a pontificare sui massimi sistemi. Che c’entra? E che significa?
La generazione di Angelo è quella, esistenziale e anagrafica, al valico tra gioventù ed età adulta, tra la condizione di figlio e quella di padre. Per lui come per gli altri nella sua stessa barca, la mancanza di una posizione stabile equivale a trovarsi stabilmente in soggezione – tanto delle proprie figure paterne quanto dei propri stessi figli. Marco, per esempio, che è il figlio di Angelo, sembra rimproverargli di non essere all’altezza del suo ruolo familiare. L’appartamento racconta appunto l’iniziazione un po’ subita un po’ voluta di Angelo a una fase nuova della vita, attraverso il confronto con un uomo più anziano.
Da circostanze apparentemente casuali – il signor Ferrero desidera acquistare un appartamento per suo figlio, e Angelo lavora come agente immobiliare – nasce un rapporto che mette il protagonista di fronte alla propria storia e persino alla collocazione di questa nella Storia d’Italia. Capello sembra convinto al tempo stesso dell’importanza di valutare i percorsi personali nell’ottica del più ampio contesto socio-politico, ma anche della ripetitività ciclica delle vicende umane: in meno di cento pagine, l’autore tratteggia i caratteri di tre generazioni diverse e suggerisce uno schema di passaggi rituali padre-figlio che potenzialmente ne coinvolge molte di più. Emerge il disegno di uomini chiamati in perpetuo ad assumersi una responsabilità scomoda in nome di un bene più grande, per poi tramandare il segreto ai propri discendenti e abituarli all’idea che quella sorte è anche la loro. Il “bene più grande” che i padri difendono, a seconda dell’epoca e delle inclinazioni personali, può assumere forme mostruose o, come predice Francesco, prosaiche, ma il concetto è sempre quello: c’è un lavoro sporco e qualcuno lo deve pur fare.
È una visione convincente? Possibile – ma a contare non è la validità della teoria. Conta piuttosto l’efficacia letteraria nel proporla, e quella in gran parte c’è: Capello non si dà arie da profeta, a differenza del suo personaggio Francesco, e lascia al lettore il compito eventuale di astrarre significati dal gioco di paralleli e simmetrie su cui è costruito il romanzo. Per esempio, considerato che il narratore è Angelo, viene da pensare che L’appartamento stesso sia un lascito e una confessione a beneficio del figlio Marco, come l’appartamento che Ferrero vuole acquistare sarà un lascito per suo figlio Roberto, ma l’autore si guarda bene dall’esplicitarlo. L’aspetto più notevole della scrittura di Capello è appunto il procedere sottotraccia, e se in alcuni passi si avvertono piccole cadute di stile è proprio laddove la scrittura cede alla tentazione di correre meno rischi e farli notare, i rimandi interni, anziché consegnarli intatti nel loro potenziale evocativo e polisemico.
Ho parlato di “paralleli e simmetrie”, “rimandi interni”, ma forse sarebbe più preciso parlare di riverberi, come cifra stilistica e architettonica del testo. Riverberi luminosi, più che acustici: i riferimenti a condizioni e fonti di luce ne L’appartamento, infatti, superano la soglia dell’ossessività – poco meno di uno a pagina, in media – e sarebbe riduttivo considerarli come semplici tocchi d’atmosfera. Per intuire a cosa potrebbero puntare, prendiamo il passo più apertamente metaletterario del romanzo: «Quanti festival letterari,– racconta Angelo – quanti incontri con l’autore avevo seguito, combattendo contro la noia, la nausea, cercando, forse – questo, mi dicevo, guardando lo schermo del computer scivolare verso il riposo, per far emergere la faccia scura della luna – la cosa più vicina alla verità che conoscessi. Una bella frase. Ben costruita. Così ben fatta che significato e ritmo si riverberano l’uno nell’altro».
Insomma, si direbbe che la luce sia il correlativo corpuscolare-ondulatorio di questa stessa scrittura, e che il riverbero sia il modo del suo apparire e del propagarsi dei suoi effetti. Altre luci e ombre sono quelle che si disegnano, all’avanzare del racconto, sulla storia d’Italia e sul passato dei personaggi. Persino la sbruffonata di Francesco dimostra di avere un riflesso interno all’andamento della narrazione e alla natura del finale: i romanzi, nella maggior parte dei casi, raccontano di rivoluzioni – di cambiamenti, grandi o piccoli, nella vita di qualcuno – e la rivoluzione nella vita di Angelo, come in quella di molti suoi coetanei, lascia aperti tanti interrogativi quanti ne chiude. Sarebbe ingiusto e inesatto definirlo un finale “prosaico”, ma non è certo un finale da fuochi d’artificio, ed è amaramente appropriato che sia così.