La Torre era in mano alla spia mongola. Lavorava per il barone von-Ungern Sternberg in Cina, era i suoi occhi e la mano tra il deserto dei Gobi e l’Himalaya. I suoi orecchi e il braccio: aveva già ucciso in passato. Morì presto di peste nella città di Samarcanda.
Era la terza lettera che riceveva negli ultimi tre mesi. Nella seconda si parlava di un tesoro in mano a degli zingari delle Asturie: famiglie di giostrai e commercianti di cavalli, che vendevano alle fiere dell’ovest a prezzi onesti.
Nell’ultima missiva si riprendevano i fili lasciati sospesi nella prima, si tracciavano i mille percorsi compiuti per cento terre da quella prima carta.
La Torre era ricomparsa qualche tempo dopo, forse anni, qualche chilometro più a sud di Samarcanda. Era ricomparsa tra il bagaglio di un carovaniere afghano, sulla via della seta. Sostava al caravanserraglio di Torbat-e-Jam1 (35°14′38″N 60°37′21″E): in attesa di riprendere il cammino le bestie riposavano.
mese ottavo
La prima lettera era stata la più strana e inaspettata. Dall’interno della busta saltarono fuori una mappa dell’isola di Kõs, il tarocco de L’eremita in un’elegante carta filigranata e una foto di Bakunin del 1874. Null’altro.
24 aprile
appunti per un personaggio cattivo per un romanzo sulla scoperta delle Indie orientali:
Era un2
13 settembre 1938 Spesa
pane
burro
e lardo.
dragomanno s. m. [dal gr. mod. δραγουμάνος, che è dall’arabo targiumān «interprete»; v. turcimanno]. – Denominazione europea degli interpreti fra gli europei e i popoli (di lingua araba, turca e persiana) del Vicino Oriente, che svolgevano la loro funzione nelle ambasciate e nei consolati, al seguito delle missioni politiche e commerciali, nei porti e nelle dogane, nelle corti europee e presso i sovrani orientali.
ponènte1 s. m. [dal lat. mediev. ponens -entis, propriam. part. pres. del lat. ponĕre «porre» che nella tarda latinità significa anche «tramontare»]. […], denominazione più usata nella geografia e in marina.
Vocabolario Treccani
27 ottobre ‘38
I fili si intrecciavano sulla tela ordita da mani confuse su quell’enorme telaio chiamato da Ecateo di Mileto col nome di Mondo. Di mille colori, i fili si mischiavano policromi e non portavano a niente. Le carte continuavano a comparire e scomparire qua e là, selvagge, tra le mappe del mondo.
Il carovaniere afghano trasportava oppio, come tutti, ma per lo più viveva trasportando cianfrusaglie e chincaglierie dall’Oriente. Si vendevano bene a Occidente, al di là del Grande mare. Era per lo più paccottiglia, ninnoli dorati e pettinini in finto avorio, quella che andava a riempire le stive delle navi. Da millenni i naviganti solcavano le stesse rotte.
Il grande punto d’incontro per tutti i carovanieri, i mercanti e i truffatori di ogni dove era il Grande mercato del Sud, alle porte di quella lingua di terra chiamata Libano. Buona parte di quelle merci arrivavano dalle valli del Don. Venivano fabbricate con la dovuta cura dalle tribù delle valli, genti senza dio venerate da tanti dei. Vivevano di solo artigianato, avevano anelli al naso e corone d’oro sulle teste. Pellicce di montone per l’inverno, lino per l’estate.
Le navi già salpavano verso Cipro, Malta, isola dei Sardi e fino a Cadice, fino all’Atlantico, e per l’afghano già era tempo di ripartenze. Ricordava le parole del nonno materno: “I tarocchi sono gli amici dei diavoli.”. Lasciò dunque al banco la ricevuta d’imbarco rilasciatagli dall’Ispettore della dogana e la carta in filigrana della torre ritrovata un tempo a vagare sola nel deserto, e ripartì all’incontrario.
Breve storia di un suonatore di rebetiko
Atene.
Anestis accordava la sua chitarra seduto su un muretto a secco alla stazione della metro di Monastiraki. Aveva costruito con le sue mani quello strano strumento, con una piccola scatola di latta di tabacco Karelias. Fatti i fori fissò il manico d’abete. Era un legno leggero e resistente, ripeteva a tutti i passanti, ma in realtà non capiva nulla di legna. Fosse stato pure il peggior legno del mondo avrebbe usato quello, e per una sola ragione: non aveva con sé neppure una dracma e quel pezzo di legno lungo e affusolato era l’unico che possedeva, non c’era scelta. Lo aveva ricavato da un’insegna in disuso buttata in un immondezzaio, segando le travi: era un legno chiaro e tarlato.
Era arrivato ad Atene da ormai cent’anni, o così pensava. Ricordava ancora le capre pascolare sulla collina di Petralona, prima che il cemento si mangiasse le montagne e la città diventasse un enorme catino bianco colmo di vite e storie lontane.
Era figlio di profughi: il padre, suonatore di salterio e calzolaio, aveva lasciato Smirne dopo la guerra con i turchi del ‘22. Il Pireo si trasformava, sovraffollato, e le baracche si affastellavano come cellette di un alveare sui moli: con loro arrivarono scale orientali, storie di principesse egizie, dolci alla cannella e profumi di una patria che non era più.
Chiamò la sua chitarra Misirlou, come la principessa orientale cantata in cento canzoni: era la sua donna e con le si perse a sognare. Un passante gli lasciò nel cappello due monete e la Torre, ma non se accorse neppure, oramai perso a cantare le vite di altri perdendo la propria tra nuvole d’hashish.
Note
1 caravanserràglio s. m. [dal persiano kārwānsarāy, comp. di kārwān «carovana di cammelli» e sarāy «edificio»]. – 1. In Oriente, recinto con caratteristiche di albergo primitivo in cui si ricoverano le carovane, formato da un vasto cortile e da quattro edifici posti intorno ad esso, collegati due a due ad angolo retto. 2. fig. Luogo dove regna grande confusione, costruzione ibrida e sim.
2 “Non hai gioventù, né vecchiaia, ma una sorta di sonno pomeridiano nel quale sogni di entrambe.”
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In copertina, Illustrazione di Claudia D’Angelo
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