Oltre alla notte mi piacciono i film. I film visti al cinema. Soprattutto d’estate.
D’estate ma al chiuso, non all’aperto. Mai all’aperto. All’aperto, d’estate, in città fa troppo caldo. E poi all’aperto le persone tendono a parlare in continuazione; e ci sono le luci che si riflettono dalla strada allo schermo, i rumori delle auto che frenano di colpo, e gli scooter dei ragazzini che sgasano a vuoto. È tutto insopportabile, all’aperto.
Il cinema dev’essere al chiuso. Aria condizionata. Starsene da solo in sala, sbracato su un bel sedile imbottito. Questo è il cinema che mi piace.
Poi mi piace agosto. Particolarmente agosto. Dal primo all’ultimo giorno. Ma non amo il caldo. Non amo quello eccessivo, anzi. Il caldo, di suo, certo lo preferisco al freddo. Come tutti.
Ad agosto mi sembra di vivere in una città nella città: è uno spazio muto. È una città in miniatura: è il mio quartiere. Questa è la città che mi piace.
Peccato per l’afa. Insopportabile. Di giorno sfoca le figure dei palazzi, rende l’asfalto uno specchio rovente, crea fate morgana di brutti condomìni sospesi e diroccati, come castelli in disgrazia da secoli. Per questo, di giorno non esco. Di giorno dormo. Non sono scemo. Esco di giorno giusto per fare la spesa, ma ogni due o tre settimane. Occhiali da sole e berretto. Non parlo, non guardo. Faccio più in fretta che posso. Passo tra la gente con scatti e cambi di direzione degni di un giocatore di basket.
Me ne sto in casa col condizionatore a quindici gradi, a volte anche meno. Dormo in tuta felpata. Dalle cinque, dalle sei del mattino, fino alle tre del pomeriggio. Tengo le tapparelle abbassate. Le tengo abbassate anche quando mi sveglio.
Quando mi sveglio vado subito a lavarmi il viso. Se ho dormito bene e sono riposato, mi faccio pure la doccia; se ho dormito male e sono nervoso e indolenzito, la doccia me la faccio molto più tardi, appena prima di uscire.
Alle tre e mezza di pomeriggio faccio colazione col caffè, i biscotti integrali, del prosciutto o del salame, le olive in salamoia e tre o quattro spruzzate di panna spray, sparate direttamente in bocca. Vado al bagno a cacare subito dopo.
Alle quattro alzo un po’ le tapparelle per vedere che tempo fa. Se c’è il sole, sono contento e mi sento subito pieno di energie; se è nuvoloso o piove, mi innervosisco, mi incazzo proprio, e mi assale una brutta apatia che è quasi una tristezza. Comunque: sole o pioggia, dormito bene o dormito male, alle quattro del pomeriggio chiudo le tapparelle, mi rimetto al buio, accendo il computer, mi sistemo sulla poltrona e mi vedo due, tre puntate di qualche serie tipo Breaking Bad o Six Feet Under.
Alle sei del pomeriggio torno in cucina e mi faccio un caffè americano, lungo, fumante. Il sapore del caffè americano, inizialmente, mi faceva schifo; ma il rituale, l’idea di sorseggiarlo per una mezz’ora dentro una bella tazza smaltata, girare la casa in piena oscurità e immaginare di essere in qualche strana città notturna, tipo Detroit, tipo Miami – il caffè fa parte dell’incantesimo, il gusto è lì. È una delle cose che mi piace di più.
Dalle sei alle nove di sera, non so come, ma sul serio, il tempo mi vola coi videogiochi. Ultimamente gioco col Nintendo 8 bit, quello del 1985; ci gioco sul computer con l’emulatore. Piccole schermate di trecentoventi per duecentoquaranta pixel in cui si muovono figurine scalettate dal colore piatto e acceso. Mi piacciono i platform, i run and gun, le corse automobilistiche.
Vivo nella città in miniatura. Me ne sto in un quartiere in cui non c’è alcun segno di continuità o appartenenza con la città tutta intorno. I palazzi sono costruzioni minime a pianta quadrata o rettangolare, dal bianco al grigio; gli alberi sono radi e l’asfalto è crepato ovunque. Ci sono molti negozi: cinesi, pakistani, bengalesi. Non manca nulla. C’è persino la lavanderia a gettoni e il fastfood. Sembra un avamposto asiatico, e al tempo stesso apolide. Negozi italiani, neanche uno. I palazzi con la corte e gli orpelli, lontani, lontanissimi. Anche il rumore delle auto è lontano: sembra venire dal passato. Il fantasma del traffico autunnale. La mia città in miniatura è una bolla alla deriva nello spazio profondo. Arrivano solo echi.
Esco di casa in bermuda, maglietta e infradito. Tutto nero o blu scuro. Non vesto altri colori. Non ne ho. Non spendo soldi per i vestiti.
Abito in una via interna. Qui, da almeno vent’anni, ci sono problemi di illuminazione. Per un mese l’anno, del tutto casuale, funzionano tutti e quattro i lampioni; finito il mese, qualunque esso sia, torna a funzionare un solo lampione, e male: e a me piace così.
Esco di casa alle dieci di sera. È tutto chiuso. Le serrande tirate giù, le luci dei locali spente. Qualche insegna resiste, ma non saprei neanche dire quale. Un fondale uniforme fra il blu notturno e il grigio metallico. È un’area estesa e inaccessibile, il quartiere di notte. I palazzi danno l’idea di essere disabitati. L’immagine di chiusura e dimenticanza è totale. Si potrebbe scambiare per una città industriale abbandonata, la cui fabbrica principale sia fallita in seguito a un crack finanziario devastante. Spettrale.
Uscito dal portone, sulla mia destra c’è un bar, Il Jonathan, sulla cui serranda è disegnato un cazzo stilizzato gigantesco; poi una lavanderia automatica, poi un piccolissimo ristorante cinese – un take away con dentro al massimo tre tavoli, dove si mangia di merda –; sulla sinistra, invece, ci sono un tappezziere e una pizzeria a taglio che è anche kebabberia: qui è dove vado a mangiare durante l’inverno. Le sere le passo lì, seduto al bancone, ingobbito su manicotti di carne gonfi e straunti, che mi colano sulla barba. Il kebabbaro egiziano mi sorride ma vorrebbe che me ne andassi subito dopo averlo pagato, perché secondo me pensa che la mia presenza gli faccia fare brutta figura. In agosto, resta aperto fino alle otto di sera. Non ci vado mai. Ci rivediamo a settembre inoltrato.
Dopo la pizzeria kebabberia c’è un barbiere iraniano: qua ci vado a tagliarmi quei pochi capelli che mi sono rimasti, una volta al mese. È un bravo barbiere perché parla poco. Chiude bottega alle sei del pomeriggio, e per tutta l’estate se ne torna al suo paese. Dopo di lui c’è un negozio di cibo per animali. Poi la strada si interrompe, c’è una piccola traversa, la cui segnaletica a terra è del tutto cancellata; riprende il marciapiede: un alimentari, un pub minuscolo – sei tavolinetti di legno e un bancone, l’ultima volta che li ho visti a orario di cena –, dei negozi dismessi da decenni, e in fondo, per ultimo, chiuso da un parcheggio all’aperto di non so quante centinaia di metri quadri, sempre pieno per undici mesi l’anno, c’è il cinema Brazil: un cinema di quattro sale, belle grandi, su due piani, due sale da cento posti, le altre due da cinquanta, l’insegna gialla a caratteri squadrati, in alto, visibile da tutto l’isolato, ben illuminata: B R A Z I L.
Me ne vado sempre verso il Brazil. Faccio il biglietto per lo spettacolo delle dieci e trenta. Non c’è fila. Sono solo. Sono sempre solo, ad agosto. Sempre, tranne gli ultimi due giorni.
L’altro ieri, nella sala principale, dei cento posti disponibili, quelli occupati erano due. Eravamo io e un altro tizio. Non l’ho visto appena sono entrato, ma durante le pubblicità prima dell’inizio del film, e per caso. Un uomo calvo, dalla testa lunga e le spalle larghe, in basso, in terza fila. Immobile. Sul cranio gli si riflettevano i colori dello schermo.
Per tutta la durata del film non ho fatto altro che tenerlo d’occhio. Ho pensato continuamente a che faccia potesse avere. Ne ho immaginato il viso: inespressivo e dai lineamenti maschili marcati. Mi è venuto in mente una specie di quei modelli tridimensionali di base per gli identikit. Anonimo e irreale.
Poco prima della fine del film si è alzato ed è uscito dalla porta vicino alla sua fila. Una figura longilinea. Scura, ammantata in una giacca nera. Il cranio bianchissimo. Un cranio spettrale e lucido, di ceramica.
Ieri, invece, è entrato in sala a film iniziato. Io mi siedo in basso, in quinta fila. Lui è salito in alto, fino all’ultima. È passato accanto al mio sedile, essendomi seduto verso l’esterno; mi è sfilato vicino, in un momento di buio assoluto, tra una scena e un’altra. Non ho sentito alcun odore. Mi è arrivato un minimo spostamento d’aria. L’ho intravisto scivolare verso l’alto della sala come un fantasma.
Non potendomi voltare di continuo, ci ho rinunciato e ho visto il film senza distrarmi. Un thriller ambientato a Bangkok: pioggia ininterrotta, auto scure, pistole dorate, sangue, notte, due amanti. Una cupa atmosfera metafisica e fasulla, per via di interminabili inquadrature di edifici neri in campo lungo.
Riaccese le luci in sala, mi sono alzato e voltato: non c’era più nessuno.
Ho comprato un sacchetto di pop-corn prima che il cinema chiudesse. Mi sono messo a camminare per il quartiere. Era mezzanotte e quaranta.
Sono andato oltre il parcheggio, poi oltre lo spiazzo immenso di terra battuta e sterpaglia. Dopo, a un certo punto, la strada riprende, così come riprendono marciapiedi e palazzi. Ho camminato per altri tre isolati. Ero ancora nel quartiere, ma nella parte periferica: un altro chilometro a piedi e avrei incontrato il fiume. Palazzi bassi e scorticati, dalle finestre divelte o completamente serrate. Un’aria fredda, umida. Lampioni spaccati e ricurvi. Uno ogni cinquanta metri. Poche automobili, parcheggiate male: qualcuna interamente sul marciapiede, altre addirittura lasciate in obliquo sulla carreggiata, o sopra gli stop: sembravano pronte a tornare in marcia.
Finiti i pop-corn ho buttato il sacchetto vicino a un albero. Ho alzato la testa e ho visto un bar aperto. Aveva un’insegna viola, sottile, coi caratteri che riprendevano una scrittura in corsivo: Alex Bar. Mai vista prima. Sono entrato.
Il bar era buio. A eccezione di piccole luci verdastre che pendevano dal soffitto, per metà fulminate, un nero denso e fumoso. Nel locale ho contato sette persone. Ognuno per conto proprio, tra bancone e tavoli. Tutti ingobbiti sui loro bicchieri, adombrati, sfiorati, a seconda della posa assunta al momento, da un verde scuro ed elettrico. Sette piccoli alieni a bagno in un liquido freddo.
Nell’angolo lontano dall’entrata, sulla destra, ho riconosciuto l’uomo del cinema. Il suo cranio era lucido e verde chiaro. Fosforescente. Il naso, affilato e troppo lungo, puntato verso il tavolino. Sono rimasto vicino al bancone. Ho fissato l’uomo per quasi due minuti. Il barista, a un certo punto, mi ha chiesto di accomodarmi. Sentita la richiesta, seppur da lontano, l’uomo del cinema ha alzato gli occhi verso di me, con una lentezza esasperante: io continuavo a fissarlo, stando fermo, ma con la sensazione che il mio sguardo stesse avanzando verso il suo, mettendo a fuoco i dettagli del viso che poco a poco veniva a mostrarsi, a prendere forma nel cono di luce verde. Gli ho visto un paio di nei, il labbro superiore spaccato, un sopracciglio, finissimo, più alto dell’altro.
Mi sono voltato di scatto, sono uscito dal bar.
Me ne sono tornato verso casa. L’insegna del Brazil era spenta. Su una panchina, lì vicino al cinema, due tizi, forse arabi, stavano parlando a bassa voce, nel buio; un piccolo puntino incandescente pulsava per il fumo di sigaretta.
Ho inspirato profondamente e mi è girata la testa. Sono quasi finito lungo per terra. Mi sono aggrappato a un lampione spento. Ho alzato lo sguardo e ho visto la via di casa completamente nera, immersa in un buio più denso del solito. Soffocavo. Mi sono portato le mani al collo. Nel panico mi sono messo a correre. Ho perso gli infradito. Uno s’è rotto. Ho corso a piedi nudi e pestato sassolini, cicche di sigarette, vetri, pezzi di plastica; poi qualcosa di appuntito che mi ha fatto urlare di dolore, mi ha fatto saltare e atterrare con la faccia su un braccio, evitando di impattare con l’asfalto del marciapiede. Con la schiena a terra, ho visto arrivare sopra di me una sagoma scura: ho pensato immediatamente: è lui, è quello del cinema. La figura si è piegata su di me. Ci siamo ritrovati faccia a faccia. Riuscivo a vedergli solo il naso aguzzo. Poi, i lineamenti: eccoli, anonimi e assurdi. Un viso inespressivo e duro. Ho aperto la bocca per urlare ma non ci sono riuscito. È stato lui a parlare. Non ho capito nulla di quello che ha detto. Mi tremavano braccia e gambe. Avrei voluto che mi colpisse fino a stordirmi. Ho pensato solo a una cosa: non potevo più frequentare la notte.
Mi ha teso una mano. Non l’ho afferrata. Allora se n’è andato. Ha preso la direzione del Brazil. Ogni blocco, ogni tremore è sparito. Potevo rialzarmi.
Mentre mi rialzavo, ho sentito i due arabi urlare qualcosa. Qualcosa di incomprensibile. Poi silenzio. Sono rientrato alla svelta.
Ho bevuto un bicchiere d’acqua, restando al buio. Poi ho acceso il computer. Ho fatto partire l’emulatore del Nintendo 8 bit. Lentamente mi sono calmato.
Non è successo nulla, mi sono ripetuto a voce alta. Ho preparato un caffè americano. Mi sono messo sul divano e ho provato a vedere Six Feet Under. Non ci sono riuscito. Ho fatto di nuovo partire l’emulatore. L’unico modo per distrarmi.
Si sono fatte le tre del mattino. Ho alzato la tapparella per dare un’occhiata in strada. Tutto immobile. Tutto silenzioso, aria caldissima, un colpo alla porta che fa vibrare le pareti, l’eco metallico della chiave inserita nella serratura, mi sono seduto a terra immediatamente e mi sono rannicchiato, di nuovo la voce mi era andata via. Mi ha trovato. Un altro colpo, della stessa forza. Ho pensato di calarmi dalla finestra e scappare, tanto sono solo al secondo piano. Tra poco butta giù la porta, anche se è blindata. Un terzo colpo, ancora più forte. Il silenzio è un fischio continuo. Mi sono rannicchiato ancora di più. Mi sono sbavato sul petto.
Alle cinque mi sono svegliato che ero steso sul pavimento. Avevo la bocca impastata e una mascella indolenzita. Dalla finestra entrava la luce violetta che precede l’alba. Riuscivo a muovermi. Ho ripetuto il mio nome a voce alta tre volte. Sono andato alla porta, l’ho aperta di scatto: il tizio del cinema era rannicchiato a terra, con la testa bianca e opaca tra le gambe, e si gonfiava e sgonfiava come un orrendo polmone nero.
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