Ridere, educare, angosciarsi – intervista a Christian Raimo
Sul finire dei suoi primi dieci anni, qui compiamo una piccola rivoluzione, abbandonando il nostro formato classico – quello del magazine culturale a cadenza vagamente quotidiana – per presentare ogni mese un solo saggio e un solo racconto. Da queste pagine 24 autori ogni anno proporranno il loro filtro sul reale, manipolando inevitabilmente la personalità di Dude mag: ed è una cosa che ci rende enormemente curiosi.
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Ridere, educare, angosciarsi – intervista a Christian Raimo

“Tranquillo prof, la richiamo io” è una lettura divertente e intelligente, che offre spunti di riflessione sul sistema scolastico ed educativo, fino a toccare aspetti politici e sociali, affrontando i problemi e le angosce di una o forse due generazioni.

Da qualche settimana è uscito per Einaudi il nuovo romanzo di Christian Raimo, Tranquillo prof, la richiamo io, che percorre un ipotetico anno scolastico raccontato dal punto di vista di un professore anomalo, goffo, ossessivo, che cerca in tutti i modi – ottenendo risultati catastrofici di manomettere gli schemi formali del rapporto con i suoi studenti, anch’essi esempio altrettanto inedito di perfezione e rigore, caratteristiche che permettono di mettere in ulteriore rilievo il contrasto tra le due parti, rendendo possibili situazioni sempre più al limite del surreale. Per questo motivo viene descritto come un romanzo comico, a maggior ragione perché nato da un’evoluzione dei post pubblicati negli ultimi mesi da Raimo su Facebook e divenuti «rapidamente un fenomeno virale», come si legge nella seconda di copertina.

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La copertina di “Tranquillo prof, la richiamo io”, illustrazione di Tuono Pettinato

 

È con queste premesse che ho iniziato la lettura, che è a tutti gli effetti divertente e scandita da risate spontanee, altre volte imbarazzate o isteriche. Le prime gag – che consistono in email immotivatamente apprensive, telefonate a tutte le ore con motivazioni assurde, sms o stalking su Facebook, poesie ingenue lette al buio in classe mentre ci sarebbe da spiegare Leibniz etc. vengono istintivamente interpretate con i codici dell’umorismo proprio di una lettura leggera e informale. Solo verso la metà del libro il sorriso inizia a sfigurarsi e a prendere le sembianze di quello di un clown più angosciato che divertito, nel momento in cui emergono con una rapidità spiazzante molti altri aspetti che vanno oltre lo sketch. C’è una strana brutalità nella ripetizione e nell’insistenza del prof “Radar” (un soprannome che non prenderà mai piede tra gli studenti) che diventa troppo maniacale e tragica per non suscitare una reazione più sofisticata di una semplice risata. Man mano che si avvicina la fine dell’anno scolastico si percepisce lo sfumare di ogni speranza, di una salvezza, di un lieto fine, di una morale, di una risposta o di una reazione che non arriveranno mai, lasciando un vuoto effettivo, che viene riempito dalle riflessioni di tipo esistenziale, ma anche politico e sociale, che questo romanzo stimola, senza la pretesa di insegnare o di trovare facili soluzioni.

Tranquillo prof, la richiamo io viene presentato forse troppo sbrigativamente come un romanzo comico ed esilarante, nato da post comici ed esilaranti scritti su Facebook, il che non lascia immediatamente intendere che ci siano anche delle tematiche che vengono affrontate con umorismo ma che provocano al lettore un sorriso ambiguo: c’è l’analisi esistenziale attraverso il personaggio e c’è l’analisi sociale e politica del contesto scolastico, oltre a una presa in giro esasperata che sembra voler criticare un metodo di insegnamento alternativo e iper-moderno che a volte sembra essere la condizione sufficiente e necessaria per essere un buon insegnante.

Sì, essendo una satira, attraverso il paradosso e l’iperbole il libro prende in giro un po’ tutte le retoriche dell’educazione contemporanea, sia quella iper-moderna che quella passatista, ma cerca anche di sfatare il mito del professore “missionario” che va a lavorare per pochi soldi, magari in qualche contesto difficile. Un’immagine che fa parte di una visione spesso benevola o addirittura pietosa che viene dall’esterno, che relega la scuola a una specie di zona franca impermeabile e separata dalla società, e questo secondo me è del tutto falso e sbagliato.

In un articolo uscito su Rivista Studio, Vincenzo Latronico analizza il tuo romanzo e quello di Fabio Viola, entrambi nati sui social network e che in effetti sembrano essere i primi esempi di un format letterario che potrebbe emergere nei prossimi anni. Volevo chiederti se definiresti il tuo romanzo “sperimentale”.

Un tentativo di sperimentazione c’è. Insomma ogni romanzo è sperimentale in realtà, almeno io ci provo ogni volta che scrivo, nel senso che cerco di avere ben presente quello che hanno fatto altri prima di me, contaminando diverse tradizioni. Per me è importantissima la tradizione narrativa comica italiana che purtroppo è poco esplorata, se uno va a vedere il reparto comicità nelle librerie oggi è pieno di libri di cabaret, mentre invece ci sono degli autori che per me sono stati importantissimi: Achille Campanile, Giovanni Guareschi, Carlo Manzoni o il lavoro che fanno oggi Paolo Nori o Tiziano Scarpa.

Credi che i social network avranno un ruolo nel futuro della letteratura e si potrà creare un filone riconducibile a questo fenomeno?

Per me i social network sono semplicemente un dispositivo e nulla più, non credo che possano avere un ruolo nella letteratura, anzi per fortuna è la letteratura che si mangia i dispositivi e non il contrario. I social network offrono un tempo frammentato e simultaneo, che è l’opposto del tempo che offre la letteratura, un tempo lungo e profondo, meno immediato, che richiede solitudine. I social network sono un fenomeno importante della modernità e non si possono ignorare, ma se penso alla letteratura del Novecento non è che c’è un grande romanzo sulla televisione o sul telefono. Poi sicuramente sarebbe stato impensabile Bret Easton Ellis senza la televisione commerciale, però per esempio se penso ad American Psycho non penso a un romanzo sulla televisione ma a un romanzo su delle relazioni anestetizzate.

Tu stesso l’hai definito un libro sull’infantilizzazione degli adulti, un’espressione che secondo me lascia intendere ingiustamente che ci sia una specie di generica regressione dell’adulto odierno. Abbandonando per un attimo il legame professore/studenti e considerando quello più ampio adulti/giovani: non pensi che per la prima volta due generazioni differenti si siano fuse a causa di una battuta d’arresto sociale e debbano ora condividere problemi molto simili e trasversali sia in un contesto economico e lavorativo che da un punto di vista emotivo?

Sì, questo è vero e potrebbe essere una falsa traccia del romanzo che esime da responsabilità entrambe le generazioni. Ci sono stati avvenimenti importanti negli ultimi anni, penso alla crisi economica o alla crisi del welfare culturale, che senz’altro hanno prodotto delle anomalie generazionali.

Questo fenomeno dovrebbe e potrebbe avere un peso politico molto importante.

Sì, io penso che questa classe sociale  – che è composta da ceto medio impoverito, immigrati che cercano un ascensore sociale, studenti e post-studenti avrà bisogno di reddito e troverà una forma di identificazione politica che sarà più che altro una polarità economica e non populista.

Quali sono stati secondo te gli errori più gravi della tua generazione da un punto di vista politico?

In un certo senso in questo libro c’è molta autodenigrazione, mi interessa un’autocritica tanto morale quanto politica. Le responsabilità della mia generazione sono diagnostiche: non ci siamo accorti che stavano avvenendo dei cambiamenti di lunga durata che sembrava avessero un impatto breve, stavano crollando alcune cose e non ce ne siamo resi conto subito, o perlomeno non tutti, ci sono state anche delle dure contestazioni che però sono state perse.

Questa giuro che non me l’ero preparata, ma dalla tua risposta mi viene da chiederti: se non ve ne siete resi conto, non è che “gli sdraiati” eravate voi?

Dal punto di vista formale rendersi conto di alcune cose era molto complicato, per esempio il sistema di welfare che veniva eroso dall’interno, oppure non bisogna dimenticare cosa è stato il berlusconismo, che oggi è ridotto a folklore che non conta più nulla, ma che ha causato danni enormi ed era difficile da contrastare dal punto di vista morale e politico a quei tempi. Di certo si sarebbe potuto fare molto di più, qualche battaglia è stata fatta ma è stata persa.

In un tuo recente articolo uscito su Internazionale intitolato Il fascino degli impostori, analizzi alcuni casi di “truffa culturale”. In particolare nell’ambito della letteratura ci sono gli esempi di autobiografie ingigantite, opere plagiate o l’episodio eclatante dell’inesistenza di J.T Leroy. Ho pensato a quanti lettori ti chiedono se i dialoghi o le gag con gli studenti siano reali, immagino che sarà accaduto soprattutto ai primi status su Facebook. Tu come gestisci questa cosa?

Questo è un bel problema perché ho sempre pensato che parte del lavoro artistico oggi dovesse prendersi la briga di responsabilizzare il fruitore, oggi dall’artista si riceve non soltanto l’opera ma anche il modo in cui deve essere fruita, perché c’è una parte comunicativa eccessiva e preponderante che secondo me è il male. Mi piacerebbe molto che l’artista in qualche modo rimanesse ambiguo, che è una caratteristica che fa parte del ruolo dell’artista appunto, quindi la responsabilità nel mio caso sta al lettore. Naturalmente mi sono reso conto che questo è molto complicato, quindi alle volte bisogna dare dei codici e parte del lavoro intellettuale passa anche per delle forme di pedagogia e di educazione del pubblico.

Al festival di Internazionale a Ferrara hai tenuto un workshop sul giornalismo culturale. Possiamo dare per scontato che sarà internet il terreno fertile per il giornalismo culturale, con un pubblico così vasto che diventa inevitabilmente poco caratterizzato. Considerando queste premesse, qual è secondo te la “missione” del giornalismo culturale nei prossimi anni?

Per come la vedo io ha una missione essenzialmente di sostituzione di una educazione universitaria di alto livello che in questo momento è al disastro in Italia e che invece dovrebbe essere un passaggio ovvio per la creazione di una classe intellettuale. Questo oggi non accade e quindi chi fa giornalismo culturale ha la responsabilità di tamponare il più possibile questa emorragia educando il lettore, con chiarezza e responsabilità, deve cercare di essere informato il più possibile, curare la lingua, produrre contenuti o fornire gli strumenti per leggerli e interpretarli.

Qual è il consiglio che dai ai tuoi studenti o in generale ai giovani che vogliono entrare nel mondo del lavoro dell’editoria o del giornalismo culturale?

Tutte le persone che conosco e che in un certo senso hanno avuto la capacità di fare carriera, sono persone che hanno studiato sempre, sono stati bulimici da questo punto di vista e hanno continuato a pensare ad autoformarsi. Quindi l’unico consiglio che mi viene da dare è quello di autoformarsi in maniera qualificata.

Edoardo Vitale
Scrive di musica, cinema e attualità su vari magazine.
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