Tutto quello che avreste dovuto sapere sulla fisica del XX secolo, ma nessuno vi ha mai raccontato || Quando Einstein aveva torto
Sul finire dei suoi primi dieci anni, qui compiamo una piccola rivoluzione, abbandonando il nostro formato classico – quello del magazine culturale a cadenza vagamente quotidiana – per presentare ogni mese un solo saggio e un solo racconto. Da queste pagine 24 autori ogni anno proporranno il loro filtro sul reale, manipolando inevitabilmente la personalità di Dude mag: ed è una cosa che ci rende enormemente curiosi.
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Tutto quello che avreste dovuto sapere sulla fisica del XX secolo, ma nessuno vi ha mai raccontato || Quando Einstein aveva torto

Quando Einstein aveva torto.

Illustrazione di Fill Illustration

Immagina una casa modesta, su due piani, dipinta di bianco, in una via residenziale di una piccola città universitaria del New Jersey. Nella casa vive un uomo ormai quasi sessantenne; fuma la pipa e ama suonare il violino. Vi si è trasferito da poco, da quando ha lasciato l’Europa alla volta degli Stati Uniti, per non tornare indietro. Quell’uomo è perplesso. Perplesso da una nuova, poco ortodossa visione del mondo che si sta facendo strada nella comunità accademica, e altrettanto perplesso dalla sua, seppur riluttante, reazione all’avanzare di queste moderne idee che dall’Europa lo hanno inseguito e raggiunto perfino nel lontano New Jersey. Deve dire la sua, prima che sia troppo tardi, dopo un prematuro entusiasmo per il nuovo che avanza e una lenta disillusione che si è fatta strada nella sua mente. Ma esprimersi in termini matematici non è impresa facile. Una strisciante perplessità può essere messa in musica, ma la fisica, quando si tratta di cogliere ambigue sfumature filosofiche, non è la più versatile forma d’espressione. L’anno è il 1936. L’uomo è Albert Einstein.

A Princeton, Einstein era giunto tre anni prima, dopo trent’anni di brillante lavoro teorico che gli aveva fatto guadagnare, tra l’altro, il premio Nobel per la fisica del 1921 (grazie alla scoperta dell’effetto fotoelettrico: meno famoso, ma all’epoca anche meno controverso, della teoria della relatività). A Princeton, nel 1935, dopo i successi della relatività venne per Einstein il tempo di dedicarsi a ciò che in quegli anni rappresentava l’altra metà del cielo della fisica teorica: l’insieme di teorie e modelli altrettanto nuovi, e altrettanto dibattuti, della meccanica quantistica. Einstein fece ciò attraverso un articolo più radicale forse di quanto avrebbe voluto. Scritto insieme ai suoi collaboratori Boris Podolsky e Nathan Rosen, intitolato Può una descrizione quanto-meccanica della realtà essere considerata completa? e pubblicato su Physical Review nella primavera di quell’anno; l’articolo si rivelò una doccia fredda per la comunità quantistica. E fu un successo enorme, anche e soprattutto quando fu provato che Einstein, Podolsky e Rosen avevano torto.

I luminari della scuola di pensiero di Copenaghen, guidati negli anni Venti da Bohr ed Heisenberg, si erano proposti l’obiettivo di produrre un’interpretazione filosofica soddisfacente delle appartentemente paradossali teorie quantistiche di quegli anni. Uno dei principi fondanti della scuola di Copenaghen è la descrizione di ogni sistema quantistico attraverso un’espressione matematica, a cui venne dato il nome di funzione d’onda, che ne rappresenti le proprietà e il comportamento al passare del tempo. Come la mappa non è il territorio e la parola non è l’oggetto, è incerto se la funzione d’onda corrisponda a tutti gli effetti alla realtà fisica che essa stessa descrive.

Quella che Einstein definì una «sinistra azione a distanza» di certo non poteva conciliarsi con la teoria della relatività, dove la velocità della luce è il limite e nulla è istantaneo.

La misura della proprietà di un elettrone nota come spin può avere come risultati le direzioni su e giù. Ma secondo Copenaghen, fintanto che la funzione d’onda del sistema evolve indisturbata secondo le leggi della meccanica quantistica, entrambi i valori dello spin coesistono. Finché il sistema non interagisce con un altro, per esempio un apparato di misura, e la funzione d’onda istantaneamente “collassa” in uno soltanto dei due risultati. Se però due elettroni sono quantisticamente correlati, descritti da un’unica funzione d’onda, ma spediti ad angoli opposti dell’universo, quanto avviene a un elettrone avrà un effetto sull’altro. Istantaneamente. Quella che Einstein definì una «sinistra azione a distanza» di certo non poteva conciliarsi con la teoria della relatività, dove la velocità della luce è il limite e nulla è istantaneo (solo molto rapido).

E fu così che Einstein, incalzato da Podolsky, che scrisse la maggior parte dell’articolo, divenne la E di quello che sarebbe passato alla storia come il trio EPR. La tesi di EPR può essere riassunta come segue: se si assume che nessuna proprietà dei due elettroni è reale finché non viene misurata, i paradossi di Copenaghen hanno la meglio. Perché la meccanica quantistica sia non solo matematicamente corretta ma anche ragionevole, bisogna fare quindi a meno della «sinistra azione a distanza» e iniziare a pensare alla realtà quantistica in maniera meno controintuitiva. EPR presenta due posizioni contrapposte: gli strani effetti a distanza sono possibili, oppure la meccanica quantistica è incompleta. Se le interazioni a distanza contraddicono il resto della meccanica quantistica, come EPR suggerisce di investigare, la meccanica quantistica deve essere necessariamente sbagliata.

In molti tentarono di colmare le inadeguatezze filosofiche dell’interpretazione di Copenaghen, sia prima, sia dopo la morte di Einstein nel 1955—all’ospedale di Princeton, dopo un aneurisma che lo colpì in quella stessa casa dove si era trasferito nel 1936. Le idee di EPR rappresentarono una versione succinta e affilatissima delle incertezze di Einstein nei confronti della meccanica quantistica. Fu necessario attendere fino al 1964, quando John Bell, un fisico irlandese, suggerì che è in effetti possibile provare se la «sinistra azione a distanza» è un fenomeno reale o se, per lo sgomento della comunità quantistica tutta, Einstein aveva intuito qualcosa di cruciale e aveva ragione. Fu solo nel 1982 che Alain Aspect mostrò sperimentalmente, attraverso quello che è noto come un test di Bell, che la realtà è tanto bizzarra quanto Einstein non era pronto ad accettare. L’articolo di EPR, uno dei più citati e controversi nella storia della scienza, è un monumento all’utilità di avere torto. E a come giganti come Einstein, in fin dei conti, raramente sbaglino invano.

Se questo articolo ti è piaciuto leggi le altre puntate de Tutto quello che avreste dovuto sapere sulla fisica del XX secolo, ma nessuno vi ha mai raccontato. 

Episodio 1 – Vicky Cristina Copenaghen

Episodio 2 – C’è tutto un universo a sinistra dell’uguale

Episodio 3 – Telefoni, monete e la morte termica dell’universo

Episodio 4 – Quando Einstein aveva torto

Daniel Giovannini
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