Raffaele e Fabio sono piuttosto diversi, due declinazioni quasi opposte delle possibili combinazioni di vita offerte ai ragazzi nati nei primi anni Ottanta. Raffale, che ci parla di sé in prima persona, è un estroverso egocentrico che si butta in tanti progetti diversi, mosso da un’immediata ricerca di contatto umano (specie con le donne) dietro la quale si nasconde un’irrequietezza incontrollabile; Fabio, le cui esperienze sono narrate in terza persona, è un nerd che sembra voler esaurire la sua esistenza nella virtualità, prima dei videogiochi poi della programmazione informatica, in aperta diffidenza nei confronti dei rapporti tra le persone (sebbene non li rifiuti in toto). Due figure che osservano e vivono la realtà da una posizione marginale, a tratti assurda, diversa rispetto agli stereotipi dominanti; due persone alla costante ricerca di qualcosa che rischia di non arrivare mai, tra ironia e scatti improvvisi.
Sono i protagonisti ideati da Gregorio Magini (fiorentino classe 1980, già autore di La famiglia di pietra, Round Robin 2010, e curatore di In territorio nemico, Minimum Fax 2013, in collaborazione con Vanni Santoni) per il suo Cometa, recentemente pubblicato da Neo Edizioni. Si tratta di un romanzo che apparentemente si presta a facili classificazioni di genere per poi sfuggire agilmente proprio quando si sta per mettere l’etichetta. È romanzo generazionale, è romanzo di formazione, è a tratti romanzo storico ed è anche il contrario di tutto ciò (e meriterebbe più di una lettura, tante sono le suggestioni offerte). La scrittura di Magini, di grande personalità e inventiva, fa da collante a una storia in costante movimento, dove vengono messe in luce situazioni diverse, talvolta lontanissime tra loro, all’insegna della duplicità rappresentata dai due protagonisti. Il peso dei corpi, delle manifestazioni politiche, degli eventi più duri, della sessualità dilagante e dall’altra parte l’astrazione dei videogiochi (con citazioni esplicite di alcuni capolavori, da Another World all’intramontabile Monkey Island), la distanza dei social, l’annullamento della materia; la rabbia di alcuni momenti e l’umorismo di altri; la dimensione realistica e il dialogo col fantastico e il fantascientifico. Le coppie (o doppie coppie, in altri casi) di elementi contrastanti si uniscono con la stessa armonia con cui si passa rapidamente da un luogo all’altro in uno spazio che sembra quasi infinito.
Con Gregorio abbiamo parlato di Cometa e di altre cose. Ma veniamo al fatto.
A costo di essere banale, comincerei proprio dall’inizio. Tu hai scritto un romanzo, La famiglia di pietra (Round Robin 2010), e hai fondato e coordinato il progetto Scrittura Industriale Collettiva da cui è venuto In territorio nemico (Minimum Fax, 2013, curato con Vanni Santoni); come nasce quindi Cometa?
Cometa nasce proprio dalla fine dei lavori precedenti. In territorio nemico uscì nel 2013 e fu un periodo molto divertente, segnato da eventi e tante presentazioni in giro per l’Italia. È durato parecchi mesi, ma purtroppo, come spesso accade, dopo un po’ il libro scompare e in un certo senso scompari anche tu. Il che da un certo punto di vista è anche un bene perché ti rimetti a lavorare libero da pressioni esterne. Avevo scritto La famiglia di pietra per prova, perché fino ad allora avevo scritto solo racconti… Quel romanzo fu un esperimento venuto fuori un po’ per caso e non ero sicuro che sarei stato in grado di ripeterlo. Mi sono rimesso a scrivere e niente, prima di venirne a capo sono passati quattro anni. La prima bozza di Cometa (che allora si chiamava Cromosoma) era una narrazione autobiografica: volevo scrivere dei rapporti che ho avuto nella mia vita, i rapporti sentimentali, ecc. Poi però il tutto ha deragliato. Via via che andavo avanti ho realizzato due cose: innanzitutto, le parti in cui mi prendevo sul serio erano involontariamente ridicole, e meno male, perché altrimenti sarebbe venuta fuori una lagna insopportabile. Queste parti sono diventate Raffaele, il primo dei protagonisti: su di lui ho ricamato su cose realmente avvenute caricandole, distorcendole, direi quasi sfigurandole per renderle più estreme e grottesche. C’era poi un altro filone, più intimo e malinconico, che non aveva a che fare tanto con le mie disavventure sentimentali quanto con altre questioni di rapporti indiretti, mancati (spesso mediati attraverso mondi virtuali e fantastici come quelli dei videogiochi). Inizialmente era secondario ma poi si è espanso fino a diventare il personaggio di Fabio. Dopo che mi sono accorto di questa gemmazione, mi è bastato assecondarla, ed è venuto fuori il romanzo.
Di primo impatto, sarebbe facile definire Cometa come una specie di romanzo generazionale; tuttavia, mi sembra che il romanzo ambisca ad essere qualcosa che si avvicina al generazionale ma allo stesso tempo se ne allontana. Da un lato situazioni, anche storiche, molto riconoscibili, dall’altro un gioco instancabile con l’assurdo e il grottesco.
Volevo dare una rappresentazione in qualche modo realistica di dinamiche sociali e di relazioni interpersonali. È possibile che ciò che per me è reale appaia assurdo a tutti gli altri. Forse per questo hai l’impressione che “si avvicina e si allontana”. Ho preso due personaggi, accompagno le loro vite dalla nascita (nel 1980, sono miei coetanei) fino ai giorni nostri. Ho tentato di intrecciare il loro vissuto privato con la realtà storica, volontà che spesso vedo mancare in autori miei contemporanei, quasi che la storia fosse un elemento accessorio di un romanzo realistico, mentre no, non bastano la sociologia, il costume e la psicologia, senza una prospettiva storica tutto si appiattisce e letteralmente non ha senso, perché il senso della vita delle persone, se esiste, sicuramente include i cambiamenti del contesto storico e la forza inesorabile con cui questo preme sugli individui. Poi certo, ci sta che nulla abbia senso comunque… Ma almeno questa eventuale insensatezza avrà basi più solide, più ampie, delle lamentazioni di un individuo rappresentato come perso dentro, o addirittura oltre, la fine della storia (a prescindere dal modo in cui l’individuo stesso si autorappresenta! Sto pensando a Raffaele…). Fine della storia che tutti sappiamo bene non essere mai avvenuta, se non nella forma dell’oblio nel migliore dei casi, e nel peggiore dell’ignoranza supponente.
La realtà, comunque, è una specie di problema per i due protagonisti. Raffaele sembra volerla bloccare, buttandosi nel corporale, nella ricerca di rapporti o nell’impegno artistico per viverla fino in fondo; Fabio oscilla tra la chiusura nel mondo virtuale dei videogiochi e dei social e la delusione dei rapporti umani. Uno vive troppo la realtà, l’altro vuole quasi annullarla.
Sono caratterialmente agli antipodi: Raffaele è estroverso, Fabio è introverso; Raffaele è egocentrico e in continua ricerca di conferme e conflitti con gli altri, Fabio, pur essendo di buon cuore (o forse proprio perché è di buon cuore), evita di stringere rapporti. Però sono uniti da un tratto fondamentale, ed è questo rapporto problematico con la realtà. Quello che fanno è aggrapparsi alle cose. Raffaele è mobile, si aggrappa a una cosa dopo l’altra (l’essere “fico” a scuola; poi la protesta politica, i movimenti; poi il grado zero della vita universitaria a Roma; l’arte…). Fabio invece è monotematico. Ha solo un passaggio dal videogioco all’idea del social network. Il suo unico movimento è passare dallo stare da solo in cameretta a giocare, allo stare da solo in cameretta a programmare. La realtà per loro è una cosa che si cerca; quella cosa vera che si spera di trovare alla fine di un percorso. Ma i loro tentativi si rivelano delle illusioni, in un modo o in un altro.
Cometa, quindi, è una sorta di romanzo di formazione? Anche se con un sentimento del “negativo”, con personaggi che crescono ma rimangono alla ricerca di qualcosa che non arriva mai.
Nel romanzo di formazione classico ci sono delle sfide e alla fine il personaggio cresce dopo aver imparato dai suoi errori. Qui imparare dagli errori è, in un certo senso, inutile, perché gli stessi problemi si ripresentano sempre in modi diversi. Un romanzo di coazione a ripetere, si potrebbe dire.
Questa ricerca, o ripetizione, pur nell’enorme ironia di certe pagine, mi sembra vada avanti con un senso di odio e di rabbia. Sono sentimenti distintivi della storia che tu hai voluto raccontare o appartengono, a grandi linee, alla generazione di Raffaele e Fabio?
Della nostra generazione non te lo so dire, mi pare anzi il contrario. Se ci sono odio e rabbia sono molto repressi o compressi. Chi forse sta perdendo la pazienza sta più in là con gli anni. Molti anziani che vedo sull’autobus schiumano costantemente di schifo e rabbia verso tutto e tutti, temo per le loro coronarie. I “quasi non più giovani” di cui parlo io invece tendono a tenere dentro la frustrazione, forse perché gli sfoghi, quando l’unico modo di sopravvivere alla pressione è darci ancora più dentro, non sono molto utili. Raffaele per esempio è nato nervoso ma sbotta solo quando è ubriaco, altrimenti se la cava sempre con una battuta. Fabio, che pure è tendenzialmente un tranquillone, è consapevole di avere qualcosa di molto negativo dentro, che però non viene mai a galla.
A proposito di odio, in un recente incontro al Salone del Libro di Torino su Game of Thrones, Michela Murgia ha elogiato Arya Stark per la sua capacità di odiare. Ha detto cose che condivido: primo, che l’odio è un sentimento che devi trovare il modo di esprimere, perché tanto prima o poi lo farà da sé; secondo, che l’odio coltivato e non represso ti permette di capire chi lo merita e chi no. L’odio come germe di un’idea di giustizia.
Abbiamo parlato di realtà e di difficoltà con la realtà. Tu pensi che ci sia poca fiducia nella realtà o nell’utopia? Raffaele si butta nella vita politica ma con finalità diverse rispetto a quelle rivoluzionarie.
Raffaele da questo punto di vista è un cinico, e ci vede più lontano di chi (come me) all’epoca poteva avere qualche fiducia o speranza nella rivoluzione. Parlo dei primissimi Duemila. Non ho cercato di analizzare la crisi della sinistra, quanto di posizionarla sullo sfondo e mostrare come i miei personaggi la navigano, come si suol dire, per amore o per forza, cercando di trovare una via di uscita individuale, artigianale (via di uscita che, a livello collettivo, viene comunque abolita).
Questi ragazzi sembrano in un certo senso abbandonati. Gli adulti si vedono (i genitori e il nonno di Raffaele e i genitori di Fabio) ma sono fondamentalmente assenti, e la loro è un’assenza che si fa sentire.
I protagonisti sono degli avanzi, probabilmente inconsapevoli, di una cultura antagonista che è stata affossata. Vivono in una condizione di rifiuto. Ciò li rende in grado di approcciare le cose liberamente, di provare a dribblare il filtro del mainstream, i dettami della società dello spettacolo. Non hanno lavoro, non hanno (altri) amici, non hanno rapporti stabili. Questo gli dà libertà. Allo stesso modo, l’assenza dei genitori. L’idea che sia ormai impossibile o inutile o “funzionale al sistema” qualsiasi forma di rifiuto, di contrapposizione, qualsiasi “chiamarsi fuori”, l’ideologia manichea che se non sei fuori al 100%, allora sei dentro al 100%, è appunto un’ideologia, una falsità che copre un rigetto della diversità. Difatti, invece, non siamo mai totalmente integrati e possiamo sempre, con fatica, dolorosamente, ricercare spazi di autonomia.
Nella loro alterità, hai resistito alla tentazione di fare dei protagonisti due banali eroi. La loro non è un’epica dell’alterità: c’è un senso di sconfitta e anche una forma di pessimismo, sia verso lo stereotipo borghese (famiglia, figli, mutuo) sia nelle possibilità di un vero successo.
Ottimismo sicuramente non c’è, ma personalmente “approvo” il loro percorso in un senso: con tutti i loro limiti, hanno una sincera disponibilità verso il cambiamento, una propensione a sperimentare la vita. Cito, se posso, una frase di Raffaele: «L’unico modo per superare se stessi è fare qualcosa che ci fa schifo». L’idea è espressa nel solito modo tranchant di Raffaele, ma nella sostanza la condivido. Raffaele e Fabio vanno di fallimento in fallimento, ma ce ne fossero di persone disposte a fallire in questo modo.
Spostiamoci nel mondo dei videogiochi. Personalmente, mi sono quasi commosso a rileggere alcuni titoli (Monkey Island, Another World o Commander Keen), ma a parte questo, qual è il valore che i videogiochi assumono nel libro (penso a Fabio) e nella vita di tutti i giorni?
I bambini hanno bisogno di vivere dentro le storie, con le quali i videogiochi, a partire dalla mia generazione, sono uno dei principali momenti d’incontro e formazione. Da questo punto di vista, non mi sembra che ci siano molte differenze rispetto al rapporto che i nostri nonni, da adolescenti, avevano con i libri. I problemi, con i videogiochi, vengono dopo. C’è tutta una cultura regressiva, intorno al videogioco, che valorizza l’infantilizzazione perenne e vede come un attacco personale “ai valori della scena” ogni tentativo di mettere in campo narrazioni e meccaniche di gioco della complessità e della contraddittorietà utili al godimento di giocatori veramente adulti. Un’ideologia del rimanere incastrati in forme narrative adolescenziali, di solito fantasie eroiche banalmente compensative. Per Fabio i videogiochi sono un’ancora di salvezza fondamentale nell’infanzia e nell’adolescenza, perché gli forniscono un modo per affrontare i suoi problemi in un ambiente controllato, virtuale in tutti i sensi. Vive e cerca di sbrogliare questioni esistenziali nei videogiochi. Da grande il rapporto diventa più problematico, configurandosi sempre più come una fuga. Certo, semplicemente smettere di giocare non è in sé per sé un fattore di crescita, se non altro perché uno rischia di finire a giocare costantemente in altri contesti, come i social, senza ammetterlo, nemmeno a se stesso.
Di questi tempi va molto di moda la nostalgia, che in una qualche misura nel tuo romanzo torna proprio con i videogiochi. Hai voluto giocare anche tu con questa tendenza?
La cosa che volevo fare era ancorare il personaggio a un mondo culturale. Se parli di un giovane nerd nel 1993 devi parlare di videogiochi, non si scappa. In realtà non ci ho riflettuto in termini di nostalgia, nel senso che l’infanzia di Raffaele è un paradiso grottesco perduto; per Fabio non è proprio così. La nostalgia non è stata un mio punto di riferimento esplicito. Per me il momento veramente felice era ancora prima, prima che uno potesse ricordarsi qualche cartone animato. Non regrediamo all’adolescenza ma regrediamo direttamente alla prima infanzia. Ma anche lì forse ho fatto quello che ho realizzato per altre cose, ovvero ho estremizzato, rendendola grottesca, una cosa che era nell’aria: questo movimento regressivo nostalgico l’ho spostato al mondo dei neonati. Anche se non era voluto.
Anche i videogiochi hanno contribuito a formare questo tuo curioso immaginario? Ultimamente si è parlato molto di weird, riferito alla letteratura italiana contemporanea, e la tua scrittura, che riesce a passare agilmente dalla dimensione più corporale a quella più astratta, credo si inserisca perfettamente in questo contesto.
È una buona definizione la tua, il weird come cortocircuito programmatico tra dimensioni materiali-corporali e astratte. Ho sempre amato immaginari di questo tipo. Adoravo H.P. Lovecraft ed E.A. Poe; ascoltavo trash, death e industrial metal; la mia prima rivista letteraria si chiamava Mostro; avevo i poster di Giger attaccati in cameretta e in generale quando una cosa è assurda e disturbante come un fumetto di Shintaro Kago mi ci trovo a casa. Però i videogiochi erano (e sono) tipicamente molto più “normali”, cioè anche quando non sono adatti alle famiglie tendono a una “banale” ultraviolenza o a sublimazioni fantasy (tutte cose che comunque apprezzo molto). Certo, abbiamo anche titoli come (per rimanere agli anni Novanta) Doom o System Shock, ma a dire il vero per me il videogioco è più connesso a immaginari amichevoli, comici, leggeri.
Ci vuoi parlare dei tuoi progetti futuri?
Ho una ventina di file aperti, non so cosa ne verrà fuori. Ultimamente penso molto ai boschi. Dalla goccia d’acqua sotto una foglia alle onde che il vento fa fare alle chiome sui versanti, la foresta è un ambiente di una complessità inimmaginabile, eppure familiare. I sentimenti strani che proviamo nei boschi hanno a che fare con la compresenza di innumerevoli prospettive, livelli di magnificazione e suggestioni, che in qualche modo finiscono per integrarsi. Forse scriverò una storia ambientata in un bosco. Ultraweird, ovviamente.