Breton, intervista
Sul finire dei suoi primi dieci anni, qui compiamo una piccola rivoluzione, abbandonando il nostro formato classico – quello del magazine culturale a cadenza vagamente quotidiana – per presentare ogni mese un solo saggio e un solo racconto. Da queste pagine 24 autori ogni anno proporranno il loro filtro sul reale, manipolando inevitabilmente la personalità di Dude mag: ed è una cosa che ci rende enormemente curiosi.
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Breton, intervista

In occasione della riapertura del nuovo Carhartt Square abbiamo incontrato la band londinese Breton, in città per la data romana del tour di presentazione del loro nuovo album.

In occasione della riapertura del nuovo Carhartt Square situato nel cuore di Roma, precisamente a Trastevere in vicolo del Cedro, abbiamo incontrato la band londinese Breton, in città per la data romana del tour di presentazione del loro nuovo album War room stories, organizzato in collaborazione con Carhartt WIP (work in progress) e che porterà la band a girovagare l’Europa per quattro mesi.

Il Carhartt Square è ben più di un semplice negozio. È uno spazio nel quale convivono tutti gli elementi della filosofia del brand: la musica (c’è uno studio di registrazione sotterraneo); la cultura in generale (si organizzano mostre e c’è un’ampia libreria in legno che ospita un mucchio di riviste e pubblicazioni d’arte, di cd e vinili) e, ovviamente, tutte le novità delle nuove collezioni Carhartt.
All’interno del Carhartt Square i ragazzi si guardano intorno, provano delle cose, si rilassano e visitano gli uffici dove, davanti ad una immancabile birra, ci sediamo in una sorta di conference room, per fare quattro chiacchiere sul tour ed il loro ultimo lavoro.

 

Ultimamente sono molto interessato e coinvolto nella produzione video, ed ho saputo che avete vinto dei premi come videomaker, in passato.

Si, è vero! Abbiamo vinto il London short film festival. Abbiamo lavorato con loro per 3-4 anni, su cose differenti, e l’ultimo anno ci hanno chiesto di fare una retrospettiva sull’evento. Abbiamo fatto un progetto che ci ha portato a fare un video cinematografico di un ora, composto da un po’ di corti che avevamo girato. Abbiamo cercato di unire le nuove tecnologie come twitter ed altri social media, programmi di editing, computer vari e macchine da presa, a tecniche più canoniche, creando un film muto nel quale la musica era la componente principale perché doveva essere fatta live, direttamente durante la proiezione. Avevamo una piccola orchestra e macchine varie, tutto all’interno di questo cinema, e la colonna sonora doveva essere fatta dal vivo perché un live non sarà mai lo stesso ma sempre un pezzo unico. Al giorno d’oggi le persone possono scaricare qualsiasi cosa, discografie intere con pochi click, quindi quello che bramano adesso è l’esperienza di un live show unico, una cosa che non si vede nei cinema e nei video, per esempio.

Quindi la parte video è stata da subito importante anche per le vostre produzioni musicali e per i vostri live show?

Esatto. Ci siamo ritrovati ognuno a fare quattro o cinque cose differenti e, venendo da un contesto simile, dove una persona sta facendo delle foto per una band di amici, un’altra sta suonando in quel gruppo, un’altra sta organizzando quell’evento e via dicendo, ci siamo ritrovati ad un punto dove succedevano tante cose stimolanti. Ci siamo resi conto che il progetto che stavamo costruendo assieme poteva finalmente avere l’ossatura per un lavoro concreto e soddisfacente. Nei live ci sono videocostruiti attorno alle canzoni ed altri che vengono prodotti a parte e poi introdotti negli show. Penso sia molto importante non fare le cose sempre alla stessa maniera.

Il progetto è interessante quando si ha la percezione di non essere arrivati alla versione finale di una canzone o di un video, quando si è nel pieno di una evoluzione continua, evitando di sembrare, dal vivo, un mp3.

Ho letto che avete dovuto lasciare il vostro studio a Londra, per problemi all’edificio, e che avete scelto Berlino per registrare l’album nuovo. Cos’è successo?

Non abbiamo veramente capito cosa sia successo all’edificio. Alla fine del primo tour abbiamo scoperto che avremmo dovuto lasciare the lab, uno spazio che ha avuto una parte importante in ciò che abbiamo creato, e ci siamo messi a cercare un posto dove fosse possibile ricreare lo stesso ambiente ed abbiamo trovato questo posto a Berlino chiamato Funkhaus, non lontano da Friedrichshain e quell’area piena di bici a scatto fisso (ridono n.d.r.). Non abbiamo scelto Berlino, abbiamo scelto l’edificio. C’era un posto a Detroit ed uno a Parigi, un altro a Varsavia, ma questo era veramente fuori da tutto e quindi simile a quello che era il nostro lab in primo luogo. Potevamo chiudere la porta e scordarci di quello che succedeva in Inghilterra, di quello che la gente scriveva e quello che i giornalisti inventavano riguardo la scena londinese, cose come post dubstep, indie e compagnia bella. Quello che ci interessava era chiudere la porta e pensare alle nostre produzioni. Vorremmo che il risultato fosse qualcosa di difficile definizione.

Sono d’accordo con voi. Eviterei di etichettare i generi musicali, soprattutto di evidenziare le influenze di un determinato gruppo, seppure siamo inevitabilmente influenzati da tutto quello che ci capita intorno.

È quello che si rischia quando, per esempio, dici che vai a produrre un disco a Berlino e ti trovi in un percorso fatto di clichè: Brian Eno, Lou Reed e la musica elettronica in generale. 

Berlino è comunque uno dei posti più attivi e stimolanti al momento, come vi ha influenzato la città?

Onestamente eravamo più eccitati dal fatto che questo edificio avesse un’atmosfera particolare. Pensa che 300 comunisti tedeschi ogni giorno registravano lì programmi radio, radiogiornali, opere, pezzi da orchestra, ed all’improvviso cade il muro e tutto l’edificio non ha più senso di esistere. Rimangono 200 persone, la maggior parte delle quali degli schizzati totali. Oggi questo edificio è una location piena di spazio per la creatività: c’è una stanza completamente arredata dalla folle efficienza tedesca solo per registrare i suoi di un pianoforte. Un’altra adibita solo a registrare programmi radio, come la masion de la radio a Parigi. È un posto fantastico per registrare un pezzo, soprattutto di musica elettronica.

Mi avete detto che avete già suonato delle volte in Italia, che idea vi siete fatti della scena musicale nostrana?

Pensiamo che tutto parta da Torino. È il primo posto dove abbiamo suonato, intendo in assoluto. Avevamo attirato l’attenzione di alcuni magazine e così è uscita fuori la possibilità di andare a suonare a Torino. È ancora una delle esperienze più belle della nostra vita. È stato fantastico. C’è anche una band che probabilmente è più famosa a Londra che in Italia, i DID. Noi li adoriamo e fondamentalmente sembrano una indie-mafia di Torino (ride n.d.a.), organizzarono tutto loro ed il party fu fantastico e pieno di gente. Pensammo che sarebbe stato fantastico un giorno poterli portare in tour con noi, qual’ora ne avessimo fatto uno. Ora ci siamo riusciti. In Francia, qualche sera fa, abbiamo suonato di fronte a 900 persone che non avevano mai sentito parlare di loro, e l’effetto che suscita vedere tre ragazzi italiani che fanno musica elettronica davanti ad una folla di francesi, è una cosa incredibile da vedere! Durante lo show la gente era molto presa, noi stavamo osservando, e i DID hanno detto alla folla che «È una delle date più belle della nostra vita, ma al calcio siamo comunque migliori dei francesi».

 

Foto di Valentina Pascarella

 

Mattia Coluccia
Mattia è un “romano de Roma”, ma ha origini salentine che rivendica sempre. Essendo un classe 1985, si porta appresso tutti gli acronimi generazionali dagli anni 90 in su. Non contento della laurea, prende anche un master in Scienze del Turismo, convinto di fare della sua passione un mestiere. Si sbaglia.
Tutto nella sua vita ha doppi sensi e doppie valenze, convive con la duplicità delle cose. Scrive per delle riviste e fa un sacco di altre cose che gli pesa il culo elencare. Se fosse per lui, viaggiare è l’unica cosa che farebbe. Ama i libri, il mare, e le birre artigianali.
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