Lady Day canta l’amore
Sul finire dei suoi primi dieci anni, qui compiamo una piccola rivoluzione, abbandonando il nostro formato classico – quello del magazine culturale a cadenza vagamente quotidiana – per presentare ogni mese un solo saggio e un solo racconto. Da queste pagine 24 autori ogni anno proporranno il loro filtro sul reale, manipolando inevitabilmente la personalità di Dude mag: ed è una cosa che ci rende enormemente curiosi.
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Lady Day canta l’amore

Di Giulio Pecci «Mi hanno detto che nessuno canta la parola amore e la parola fame come le canto io. Forse è perchè so cosa hanno voluto dire queste parole per me; e quanto mi sono costate. […] Nella vita, per prima cosa devi avere da mangiare e un po’ d’amore; dopo uno può anche […]

Di Giulio Pecci

«Mi hanno detto che nessuno canta la parola amore e la parola fame come le canto io. Forse è perchè so cosa hanno voluto dire queste parole per me; e quanto mi sono costate. […] Nella vita, per prima cosa devi avere da mangiare e un po’ d’amore; dopo uno può anche mettersi a sentire le prediche.»

La voce di Bilie Holiday è di quelle che ti prendono il cuore, lo tirano fuori dal petto e lo lasciano lì nudo, a prendersi le intemperie, a provare emozioni così pure che una volta che la musica finisce non siamo sicuri di come ricominciare a vivere normalmente. La musica di Billie Holiday ha quest’effetto perché la cantante americana non aveva un filtro tra la sua vita privata e la sua arte, in special modo durante i suoi ultimi travagliati anni. Quello che viveva, il suo stato d’animo, era direttamente espresso nel canto — in modo allo stesso tempo sublime e osceno.

 

 

La maggior parte della produzione di Billie Holiday è dedicata all’amore. All’amore verso i tanti uomini e donne avute in vita, ma soprattutto ad un amore mancato e ricercato ossessivamente, forse senza saperlo, quello verso sé stessa. Il tipo di amore di cui si parla nel jazz e nel blues è spesso di questo tipo, mascherato da sentimento canonico verso una persona cara; in questo Billie Holiday è l’esempio perfetto. La sua vita è una moderna odissea, una battaglia persa nel cercare di star bene con se stessi e solo dopo con il mondo, con gli altri.

I genitori di Billie la concepiscono in una notte d’amore quando lui, musicista, ha sedici anni e lei solo tredici. Il padre scompare in giro a suonare quasi subito e la piccola Billie rimane con la madre che la affida alla zia, da cui viene maltrattata. A dieci e dodici anni viene violentata, qualche tempo dopo inizia a prostituirsi, «dunque non c’è tanto da meravigliarsi se avevo paura degli uomini» scrive nella sua struggente autobiografia, Lady Sings The Blues. Nel libro si racconta senza filtro, forse quasi esagerando: lei stessa disse di averlo scritto di getto e di non averlo mai riletto.

La arresteranno la prima volta per prostituzione — altri arresti per droga si susseguirono negli anni e l’ultimo, sempre per possesso di sostanze stupefacenti, avvenne mentre era ricoverata in ospedale, poco prima di morire. Nel mezzo c’è una carriera straordinaria, un talento mostruoso è tutt’oggi neanche lontanamente eguagliato; ci sono i numerosi riconoscimenti professionali che le vengono tributati, ma allo stesso tempo anche le ingiustizie nello stesso campo, figlie di una cultura grottesca e violenta, spaventata perfino dal diverso colore della pelle, figuriamoci se a quello si unisce una voce che riesce a “spogliare” l’anima di chi ascolta. Muore da sola nel letto dell’ospedale mentre è ancora in stato d’arresto.

Se osserviamo le foto in cui è ritratta, notiamo una differenza evidente tra quelle in cui è sul palco o in studio di registrazione a cantare e quelle in posa. In queste ultime è quasi sempre goffa, imbranata, anche un po’ bruttina, proprio come chi non riesce ad accettare la propria bellezza vivendola come una colpa e quindi diventando una caricatura di sè stessa davanti all’obbiettivo, mettendo su una maschera. Quando canta si trasforma, è bellissima, seducente in quel modo così accattivante che solo l’estrema vulnerabilità e l’intrinseca forza che ne deriva può generare. Forse perché lí è felice e sicura dei propri mezzi, sa di avere un pubblico che le sta tributando il proprio affetto e sa anche benissimo che questo sì, se lo merita tutto. Fin qui potrebbe sembrare il ritratto bipolare di una donna perfetta e debolissima allo stesso tempo, una specie di santa vergine. Questo candore è solo una piccolissima parte di quello che era Holiday: aveva infinite insicurezze e nonostante riuscisse a farne buon uso, mettendole al servizio di un’arte sconvolgente, fuori dal palco si lasciava schiacciare. Relazioni violente, problemi di soldi e soprattutto di droga finirono per soffocarne la bellezza e la vita stessa, mai il talento. L’amore e la privazione dello stesso, Billie Holiday deve averli provati in qualunque sfumatura, in un modo che solo a pensarci fa girare la testa, sembra impossibile da reggere. Una donna fortissima e fragilissima che ricercava l’amore (si circondò per tutta la vita di quello incondizionato dei cani, a cui era affezionatissima) e allo stesso tempo lo fuggiva, lo inseguiva furiosamente fino alle lacrime sentendone un bisogno disperato per poi sottrarsi alla sua morsa, soffocata, complicando le cose apposta, rendendo la vita impossibile a chi le stava intorno.

 

 

La relazione con il terzo marito Louis McKay, dal 1957 al 1959, anno della sua morte, è esemplificativa delle storie tremende in cui Holiday si trovò più di una volta. McKay era uno scagnozzo della mafia newyorkese, con lei violento anche quando cercava di farle del bene, ad esempio nei vani tentativi di salvarla dalla spirale della dipendenza da alcol e droghe che in quegli anni era ormai fuori controllo e aveva anche avuto degli effetti sensibilmente percepibili sulla sua voce. Un omone che non fu mai chiaro se nutrisse un vero sentimento per Holiday o se cercava solo di impossessarsi dei soldi che i suoi dischi e i suoi concerti producevano. In fondo forse Billie Holiday nutriva lo stesso dubbio, dal momento che in uno dei passaggi più teneri della biografia si apre al lettore, confessandogli il suo più grande sogno: «quello di avere una bella casa in campagna, proprio mia, e lì tenerci cani spersi e ragazzini bastardi, ragazzini che non hanno chiesto di venire al mondo.» Di una cosa doveva essere sicura però, che «nessuno al mondo vuol sapere di loro. Allora li prenderei con me. Basta che siano trovatelli sul serio.»

Un istinto materno smisurato e commovente, che non prevede una gravidanza o la presenza di un uomo (perfino escludendo quello che al tempo era suo marito), non nasce da una relazione e un rapporto sessuale — cose che forse nelle sue esperienze erano legate a sfere lontane da quelle del piacere e soprattutto della tranquillità. La sua preoccupazione principale infatti, nell’occuparsi di questa nidiata di orfanelli sarebbe stata quella di «dargli quel tipo di istruzione che intendo io, non quella che ti spiega come scrivere Mississipi, ma come essere felici, chiunque tu sia e qualunque cosa tu faccia. Un adulto bene o male una maniera di cavarsela ce l’ha sempre. Ma i bambini? Guarda me.»

«Guarda me», ovvero: l’ho chiesto io di nascere? Ho chiesto io di avere due genitori bambini come me, e di incontrare prestissimo uomini mostruosi che mi hanno completamente rovinato il rapporto con l’altro sesso, le relazioni più intime?

Non se ne è mai parlato molto, ma Holiday nella sua disperata ricerca d’amore da dare e ricevere strinse diverse relazioni con donne — soprattutto appartenenti al mondo dello spettacolo, si dice anche Greta Garbo. Quella più duratura e importante la ebbe con l’attrice Tallulah Bankhead che una volta riuscì anche a tirarla fuori dal carcere per la solita storia di droga, ma con la quale le cose finirono molto male, soprattutto quando entrambe si misero a scrivere le proprie biografie, con la Blackhead terrorizzata all’idea che la relazione emergesse e andasse ad intaccare la sua carriera.

La sua biografia si intitola Lady Sings The Blues (grossolanamente tradotta in italiano come “La singnora canta il blues”) perchè Billie Holiday fu soprannominata “Lady Day” agli inizi della carriera da quello che è l’unico uomo con cui ebbe una meravigliosa relazione, del tutto platonica, durante tutto il corso della sua vita: il sassofonista Lester Young, guarda caso un altro genio musicale. I due si incontrano durante i primi anni trenta a New York durante una jam session, attratti l’un l’altro da un’immediata intesa musicale, tanto che si influenzeranno reciprocamente per tutto il corso delle loro carriere.

 

 

L’unicità della voce della Holiday, forse la prima grande interprete jazz e blues della storia che non aveva nella potenza la sua caratteristica principale, è dovuta in larga parte al fatto che trattava la voce come fosse uno strumento a fiato, e cercava di imitare i fraseggi dei suoi eroi musicali, uno su tutti proprio Lester Young. I due avevano caratteri simili, molto timidi e riservati ma anche capaci di slanci di incredibile vitalità; condivisero anche le distruttive dipendenze che accompagnarono entrambi durante tutta la carriera. Per un periodo, poco dopo che si conobbero, vissero insieme a casa della madre di Billie: «per me e la mamma era una cosa meravigliosa avere un signore per la casa. E Lester era sempre molto signore». Lester, ottima forchetta, si innamorò della cucina casalinga della madre e cominciò a chiamarla “duchessa” rendendola famosa con quel soprannome tra gli amici della figlia. Come detto poi soprannominò anche la Holiday, che a sua volta cominciò a chiamarlo “Prez”, presidente, perchè «ha quel significato che volevo io: l’uomo che è in cima a tutti gli altri.»

L’amore più sincero non poteva che nascere nella musica. Ascoltare i brani in cui i due si scambiano pensieri e stati d’animo sotto forma di assoli di sax e voce, è una delle esperienza per le quali vale la pena essere al mondo. Come nell’interpretazione qui sotto di Fine and Mellow, in un momento della vita dei due in cui sono già distrutti dagli eccessi, due anni prima della fine. Quando al minuto due e quarantuno secondi un imbolsito Lester Young suona il suo solo, sotto un profondo velo di stanchezza il volto ormai deformato della Holiday si accende di emozione e ascolta quel che gli sta dicendo lo strumento del suo più caro amico, come se sapesse benissimo da dove provenga ogni singola nota e che cosa sta comunicando, a lei e solo per lei. È una delle manifestazioni di amore più complesse e commoventi che sono mai state immortalate e dura appena pochi secondi; è resa ancora più speciale dal fatto che prima di quel concerto per la CBS i due si erano persi di vista per qualche anno a causa di un litigio. Si dice che fecero pace con un abbraccio immediatamente dopo l’esibizione, nei camerini degli studios.

 

 

Due anni dopo Lester Young muore a soli quarantanove anni, a causa della malnutrizione e dell’alcolismo; qualche settimana prima mentre si trovava a Parigi aveva parlato della Holiday, affermando che «è ancora la mia Lady Day». I parenti di lui le impediscono di cantare al funerale e lei, già sconvolta, si lascia andare ad una terribile profezia: «sarò la prossima ad andarmene».

Purtroppo il presagio si avvererà solo qualche mese più tardi. Lady Day si spegnerà a soli quarantaquattro anni, dopo una vita in cui l’amore, quello vero, doloroso, complicato, bellissimo e mostruoso, per la musica, gli uomini, le donne e la vita — l’aveva salvata e dannata allo stesso tempo.

Quadraro in jazz
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