Il manifesto di Angel Bat Dawid
Sul finire dei suoi primi dieci anni, qui compiamo una piccola rivoluzione, abbandonando il nostro formato classico – quello del magazine culturale a cadenza vagamente quotidiana – per presentare ogni mese un solo saggio e un solo racconto. Da queste pagine 24 autori ogni anno proporranno il loro filtro sul reale, manipolando inevitabilmente la personalità di Dude mag: ed è una cosa che ci rende enormemente curiosi.
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Il manifesto di Angel Bat Dawid

Il disco di Angel Bat Dawid non è solo un profondo e commovente lavoro musicale. Possiamo utilizzarlo come un esercizio di ascolto, un momento di riflessione che riesce a tramutare in rumore bianco l’inutile frastuono che ci circonda.

Angel Bat Dawid è una musicista afroamericana di Chicago con all’attivo un solo album ufficiale, The Oracle, del 2019. Grazie a un background che affonda nello studio del clarinetto classico, unito ad una grande capacità improvvisativa forgiata successivamente nel free jazz, ha attirato l’attenzione dell’International Anthem — etichetta musicale nativa proprio di Chicago. Quest’ultima è considerata (a ragione) come una delle novità più interessanti per la musica improvvisata: un catalogo che parte dal jazz ma si estende all’art-rock, l’avant-garde pura, con sonorità che sfiorano il punk e il noise. Ma soprattutto con uno spirito DIY (“do it yourself”) e una coscienza politica simili a quelli dell’etichetta hardcore Dischord di Ian Mckaye e soci piuttosto che a una qualunque etichetta jazz. 

Un matrimonio perfetto: l’album è un compendio musicale delle diversissime esperienze di Dawid e spazia dallo spiritual jazz al folk, incrociando blues, gospel, avant, classica. Un disco composto come un collage: la maggioranza del lavoro è stato registrato da Dawid sul suo iPhone, durante un anno sabbatico in cui ha girato il mondo suonando in diversi continenti e con diversi musicisti. Quello che si materializza è uno sguardo cubista sull’esperienza dell’individuo nero, umanamente, artisticamente, intellettualmente. Una proiezione in cui i vari “frame” di sessioni, libere e di altissimo livello, arrangiati insieme formano una mappa che conduce alle radici della black music nella sua interezza. 

L’incedere dei primi due brani, Destination (Dr. Yussef Lateef) e Black Family, è lento, grave, denso. Sembrano dipingere una platea teatrale buia e spoglia, saturano l’atmosfera rendendola elettrica ed esasperando un pathos che ci cattura immediatamente. Con il terzo brano sul palco sembra comparire definitamente la figura di Angel Bat Dawid in tutta la sua solennità: è come se all’apertura del sipario coincidessero i dolci accordi di piano Rhodes, accompagnati dalla voce ipnotizzante dell’autrice che per tre minuti e mezzo ripete ossessivamente: «cosa devo dire ai miei figli, che sono neri, cosa gli devo dire di cosa vuol dire essere prigionieri in questa pelle scura.» Due versi presi da una bellissima poesia del 1963 di Margaret Burroughs. La risposta a questa domanda straziante arriva dopo l’intensa pausa di riflessione di Impepho: l’Impepho è una pianta africana che soprattutto nell’Africa subsahriana si fuma per poter comunicare con i propri antenati. Dawid torna quindi con una risposta nella successiva We Are Starzz: «siamo delle stelle luminose, splendenti».

Da questo momento, (come se questa presa di coscienza avesse definitivamente liberato la sua autrice) il discorso si fa ancora più audace e si spoglia ulteriormente di strutture che lo incatenano in forme a noi familiari. Con London e il suo assolo di clarinetto siamo abbagliati dai virtuosismi di Dawid (che emergono, ipnotizzanti e meravigliosi lungo tutta la durata dell’album). La lunghissima Capetown è una vera e propria conversazione tra clarinetto, voce e la batteria del musicista sudafricano Asher Simiso Gamedze. Una cavalcata così intensa che alla fine, dopo qualche secondo di incredulo silenzio, le emozioni di Angel Bat esplodono come se gli tornassero all’improvviso tutte insieme e ne fosse totalmente sopraffatta: scoppia in lacrime batte i piedi per terra, grida incredula, quasi spaventata — mentre Gamedze accenna un «oh cavolo». La catarsi si conclude con il brano omonimo del disco in cui il magma sonoro riunisce tutto quello che abbiamo sentito fin qui: tastiere traballanti e dolci, clarinetti impazziti, percussioni minimali, quasi tribali. Lottando per farsi sentire, Dawid inizia a confessare che sta «raggiungendo il cielo»; nell’iniziale grande sicurezza si insinua presto il dubbio, una fragilità violenta: «voglio sapere come ci si sente a raggiungere il cielo». Forza, sensibilità e intensità dell’individuo nero, che viene invocato come “queen” e come “king” con la voce spezzata dall’emozione e che si riflette nel movimento sonoro, rotto e a singhiozzi, caotico e melodico. Un’esperienza totalizzante, commovente e dall’impatto così significativo da risultare educativa. 

W.E.B. Du Bois lo diceva chiaro e tondo già all’inizio del ventesimo secolo: «il canto popolare nero non solo resta oggi l’unica musica americana, ma anche la più bella espressione dell’esperienza umana nata da questo lato dell’oceano». Uno dei primi intellettuali afroamericani e tra le voci più importanti del radicalismo nero attribuiva questa centralità imprescindibile alla musica. Per altro in un’epoca in cui blues, jazz e tutti gli altri generi afroamericani non avevano neanche iniziato a circolare. The Oracle è uno degli album che negli ultimi anni meglio incarna quella definizione, inglobando centinaia di anni di tradizione musicale nera. È un disco che come tanti altri nella storia della musica afroamericana fornisce una porta emotiva e intellettuale verso quel mondo, oltrepassando la mera materia musicale: una chiave di comprensione intima e potente. Forse non immediata, ma basta avere voglia di educarsi e soprattutto la pazienza di saper ascoltare. 

Che ascoltare sia un po’ un’arte perduta è uno stereotipo vero solo in parte. Quando siamo interessati ascoltiamo, anche attentamente, anche a lungo. Perché allora quando emerge il dibattito sulla condizione afroamericana, che per estensione solleva problematiche e dubbi sulla condizione dell’individuo nero (e ancor più in là, problematiche e dubbi sulla condizione delle classi sociali più penalizzate ed ostracizzate), la maggior parte dell’opinione pubblica che non è afflitta in prima persona dal problema decide che è il caso di ciarlare? Perché, al contrario, ci piace tanto lo slogan inglese “Black Lives Matter” ma quando c’è da dire che le vite nere contano anche in italiano il grido si affievolisce considerabilmente? Da una parte risaliamo a una situazione in cui ci siamo trovati tutti: parliamo con una persona con cui non abbiamo grande familiarità, ci sono dei momenti di vuoto insopportabili che riempiamo a forza in modo scomposto. A volte sembra proprio questo: una reazione nervosa, che implicitamente dice «no, non voglio starti a sentire, mi crea disagio, voglio sentire una voce che mi è familiare piuttosto che aspettare di sentire la tua». Questa la spiegazione buonista. Quella più vicina alla realtà è meno indulgente. Perché si identifica con un’ignoranza radicata (da parte di tutti gli strati della popolazione, dall’operaio al dottorando) e spesso non riconosciuta, oltre che con una strenua difesa di preconcetti, pregiudizi: la difesa (inconscia o meno) di un ordine sociale quasi immutato nei secoli.

Il caso emerso dalla tanto chiacchierata statua di Indro Montanelli è un esempio perfetto. Da una discussione potenzialmente interessante, a livello mainstream non sono nati niente di più che una serie di sterili interventi mirati più a giochi di potere e frecciatine che altro. Esclusi i social e poche ammirevoli eccezioni, dal dibattito pubblico sono state escluse le donne e le donne nere. Perchè non è nato un vero e proprio dibattito sulla questione (e sulle altre che potevano scaturirne), che schiacciasse i salotti televisivi popolati da dinosauri maschi, eterosessuali, bianchi? Se da una parte la questione è stata strumentalizzata per proteggere il proprio orticello — vecchio, bianco ed eterosessuale —, dall’altra sembrano mancare gli strumenti anche a chi in linea teorica dovrebbe averli. Parlando generalmente, la sensazione è che in Italia non si abbia la cultura necessaria per aprire un dibattito del genere. Non è un’attenuante, quanto un ulteriore aggravante. Prendendo in esame proprio la musica jazz, spesso i promoter, gli organizzatori, perfino gli artisti italiani non si interessano alla storia afroamericana, non la conoscono. A volte ne strumentalizzano direttamente ed esplicitamente solo le parti che fanno comodo — perpetrando stereotipi castranti e imprecisi. Estraniano la forma d’arte dal popolo che l’ha creata, senza studiare, senza interessarsi, senza capire. Quando si parla delle lotte politiche afroamericane o di lotte politiche in genere, rispondono in modo estremamente italiano «fuori la politica dalla musica» una delle più grandi bestialità ignoranti che si possano affermare. Potete sostituire musica con calcio, letteratura, cibo, quello che volete, il risultato non cambia. Se questo è il modus operandi di una parte considerevole di persone che vivono con una forma d’arte creata da persone nere, da afroamericani, figuriamoci gli altri. 

I nostri programmi scolastici soprassiedono quasi del tutto su autori non facenti parte del canone italiano, al massimo europeo. Le storie dei colonialismi (per non parlare delle forme d’arte e riflessione da esse scaturitasi) sono completamente ignorate, così come è ignorata la storia afroamericana – nonostante sia progenitrice della cultura “pop” dominante degli ultimi. A meno che non sia un nostro personale e sviluppato interesse, solo arrivati all’Università e solo in determinate facoltà sentiamo vagamente parlare di “Harlem Reinassence”, di negritudine, panafricanismo, di letteratura africana, di arte delle seconde o terze generazione caraibiche e africane. Una mancanza di cultura che non affligge solo i cosiddetti boomer, la si percepisce anche nei ventenni, nei trentenni “colti”: spesso non abbiamo gli strumenti per interpretare molti dei fenomeni contemporanei dal momento che non si identificano quasi per nulla con i nostri piani di studio. Quello che studiamo è un patrimonio culturale che ci è stato tramandato come valido a priori, immutabile, spesso addirittura indiscutibile. Perfino nell’ambito accademico italiano, il ritardo di discipline come i “controversi” Cultural Studies o i Post Colonial Studies è riconosciuto apertamente dalla stessa accademia, mentre all’estero da decenni questi studi sono pilastri fondamentali per sviscerare la complessità del contemporaneo. Non è una sorpresa che non possa nascere un dibattito vero: come possiamo partecipare partendo esclusivamente da riferimenti culturali eurocentrici, per lo più spesso esplicitamente razzisti, pensando allo stesso tempo che siano un punto di partenza assoluto e valido per la questione? Come possiamo pretendere di partecipare ad un dibattito su cultura e società afroamericana, o cultura e società coloniale e postcoloniale, o di migrazione, esaurendo il nostro arsenale teorico in pensatori bianchi, borghesi, razzisti? Senza leggere, tra gli altri: Du Bois, Hurston, Morrison e Davis, Baldwin, Coates; Césaire, Fanon, Glissant, Senghor, Achebe, Soyinka, Gilroy solo per citare i più “noti”; ma anche autori contemporanei strettamente legati all’Italia quando non direttamente italiani: Igiaba Scego, Boubakar Soumahoro, Cristina Ali Farah, Yvan Sagnet. Come possiamo partecipare senza approfondire e rispettare la musica, parte imprescindibile della cultura afroamericana e di tutta quella cultura transnazionale degli individui neri che Paul Gilroy ha efficacemente definito “black Atlantic”? 

Per questo dobbiamo ascoltare, dobbiamo leggere, fare domande senza aver paura di risultare stupidi, ma anche saper stare zitti e basta. Partecipare sì, ma senza sovrastare quelle voci che avremmo dovuto ascoltare anche prima: grazie al contemporaneo dispiegarsi degli eventi non abbiamo più alibi, non possono essere ignorate, devono essere il punto di partenza e non una “quota” forzata del dibattito che le riguarda. Non dobbiamo spostare l’attenzione concentrandoci su dettagli futili — come le puntate rimosse di una serie tv o qualche vetrina spaccata. Sarebbe come iscriversi a un club del libro, leggerne uno diverso rispetto a quello preso in esame da tutti gli altri ma avere comunque l’idiozia e l’arroganza di partecipare al dibattito attivamente, pretendendo di essere ascoltati. È come portarsi al campetto una palla da rugby costringendo tutti a giocare a basket e dare la colpa agli altri nel momento in cui non riusciamo a fare due palleggi di fila. 

Il disco di Angel Bat Dawid quindi non è solo un profondo e commovente lavoro musicale. È anche un manifesto intellettuale così intimo da diventare universale. Possiamo utilizzarlo come un esercizio di ascolto, un momento di riflessione che riesce a tramutare in rumore bianco l’inutile frastuono che ci circonda, indirizzandoci verso l’essenziale, regalandoci la concentrazione di cui abbiamo bisogno. Nei giorni successivi all’assassinio di George Floyd, Dawid ha rilasciato uno dei primi brani ufficiali dall’uscita del disco (gli altri due sono qui); un pezzo in collaborazione con il rapper inglese Berry Blacc. Una traccia chiamata proprio George Floyd, che unisce trap, hip-hop, la produzione morbida ed evocativa di Dawid e il suo clarinetto, a un testo esplicito, in diretta conversazione con i sample di attivisti e commenti politici sulla vicenda. Un’ulteriore dimostrazione di quanto la musica afroamericana sia transgenere e transnazionale — indistinguibile dalla componente storica, sociale e politica in cui si è formata e loro strumento di comprensione e studio imprescindibile. 

Giulio Pecci
Classe ‘96, studia Lettere e Musica a La Sapienza di Roma. Scrive di musica e cultura, organizza concerti Jazz e cerca di trovare il tempo di suonare la chitarra. Alla costante ricerca del decimo a calcetto.
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