La lama del rasoio usa e getta scorreva agile sul cranio, liberando strisce di cute rosea dallo strato bianco di schiuma da barba. Il bagno era dotato di un sistema di lampadine e led tale per cui la faccia ne risultava completamente illuminata, scevra di angoli in ombra che potevano far incorrere in tagli o scorticamenti durante la delicata operazione di tosatura. Ogni tre giorni, Marco trascorreva quaranta minuti davanti allo specchio, per ottenere un volto completamente pulito e liscio. Aveva iniziato questa routine non per necessità corporea – come succede molto spesso quando i capelli principiano a diradarsi –, quanto per vocazione.
La suddetta chiamata per Marco, specializzando in gastroenterologia, era arrivata qualche anno prima, durante una sessione esami invernale protrattasi per un periodo troppo lungo dedicata interamente all’esame di anatomia patologica. Lo studente modello – orgoglio del padre chirurgo che, per ricompensarlo dei suoi meriti nel proseguire il lavoro di famiglia, non si crucciava minimamente per il pagamento di tasse universitarie, affitto, domestica e anzi, versava addirittura un fondo vacanze mensile – aveva avvertito, al quindicesimo giorno di reclusione-studio, un senso sottile di nausea, che partiva dallo stomaco ma si diramava per tutto il sistema nervoso centrale, per poi passare al sistema sanguigno, dalle grandi arterie ai più piccoli e periferici capillari. Come spesso accade ai giovani benestanti in crisi d’identità o di valori, anche Marco pensò che la sua unica via di fuga fosse consacrare la sua vita a una divinità – quale fosse non gli interessava granché – e trascorrere dunque il resto della propria esistenza in un monastero, rinunciando a tutti i benefici della propria posizione socioeconomica.
Il monastero prescelto sorge – ormai in stato di abbandono – in provincia di Pavia, immerso nelle colline dell’Oltrepò pavese e, per dare coordinate più precise per chi volesse immaginarsi quale fosse la rotta per la casa di Dio, è situato esattamente nel territorio comunale di Fortunago, paese divenuto famoso grazie alle riprese ivi effettuate da un noto regista comico italiano. La struttura, seppur già diroccata, è di recente costruzione, tanto quanto l’ordine monastico che la presiedeva, costituito da una deca di cenobiti, radunatisi proprio in quelle colline sul finire del secolo ventesimo; nonostante la carenza di storia e tradizione, però, il monastero era divenuto in pochi anni il simbolo più celebre della spiritualità nell’Italia tardocapitalista, ed era consuetudine, per coloro che conseguivano la maggiore età sull’inizio del nuovo millennio, compiere un ritiro battesimale della durata di un paio di settimane, al fine di poter rintracciare la propria interiorità e capire in quale direzione portasse la propria via, che sia Nord, Sud, Ovest o Est. Qui, come testimoniato da una moltitudine di interviste raccolte in quegli anni da semiologi e studiosi dei media, la routine consistente in un canto monotono che perdurava dal tramonto all’alba, portava a un torpore contemplativo capace di durare per tutta la giornata, così descritto: «La mente si adagia in uno stato di rilassatezza estemporanea, le tempie sono cullate da un formicolio, e le palpebre cessano la loro quotidiana lotta con la forza di gravità, accettando di rimanere socchiuse – tra la veglia, e il sonno: la dolcezza del sogno collima con la realtà esperita dal corpo, e il corpo giace sospeso, dimentico anch’esso delle leggi gravitazionali». Dai video allegati alle sopracitate interviste, si può riscontrare un’omogeneità nell’aspetto dei giovani uscenti dal ritiro: crani rasati, mascella esagitata che contrasta con la calma dei discorsi, gambe molleggianti, una tunica di colore rosso e blu che presenta una toppa a forma di ragno al centro del petto.
Sebbene molti amici di Marco, nell’estate della maturità, avessero deciso di intraprendere questo rituale allora all’apice del suo successo, egli non aveva voluto seguirli: spinto da una ricerca più esotica, aveva preferito un viaggio esplorativo degli arcipelaghi greci; e nemmeno si sentì pentito, nel ritorno settembrino, ritrovando i suoi amici rasati e catatonici, abituati a ritmi di vita che invertono la notte e il giorno, e restii ad attuare quel riadattamento sociale che è conditio sine qua non per sopravvivere. Marco si sentiva superiore a loro, capace di affrontare la vita e sicuro di poter ottenere molti più risultati di quegli sfigati e scansafatiche che credevano di aver raggiunto l’illuminazione. Nessun indizio, a quel tempo, della svolta che avrebbe preso dopo pochi anni la sua vita: la crisi esistenziale, la scelta di concedere un’opportunità a quella strada new age che tanto aveva criticato, il ritiro che si sarebbe protratto per più di tre anni, e che non avrebbe mai interrotto volontariamente, se non fosse stato obbligato a tornare a casa proprio a causa della chiusura del monastero.
Quali eventi abbiano portato all’arresto di tutta la comunità monacale, a chiudere il perimetro dell’edificio con nastri gialli e neri, e a un’indagine tuttora in corso, è storia nota. Per un resoconto approfondito, è sufficiente sfogliare Ascesa e declino del Jolly Blue: fenomenologia della spiritualità nella gioventù accelerazionista, miscellanea uscita per i tipi della UTET. In breve, compilando una summa delle notizie di cronaca degli ultimi diciotto anni, nella notte dell’otto agosto del 2003, un estraneo riesce a eludere il servizio di guardia che presiede l’ingresso del monastero e – verso le tre e otto minuti – entra in una kuti (le case in legno che i monaci sono tenuti a costruirsi all’inizio del loro percorso comunitario) tra quelle più vicine alla sala di meditazione, accoltella un monaco sessantuno volte e scappa passando tra i filari per poi disperdere le sue tracce nel bosco. Il corpo viene ritrovato alle 8.38 del mattino seguente, quando – insospettiti dall’assenza del vice-abate – alcuni monaci scendono a cercarlo nella sua abitazione. Il corpo è disteso a terra, supino, con l’abito lacerato e sopra il petto, al posto della toppa aracnoidea, è stato attaccato con una spilla da balia un pacchetto vuoto di caffè Vergnano Granaroma. L’autopsia conferma che l’uomo è stato ucciso dalle prime coltellate, che hanno reciso l’aorta, e che non ha provato in alcun modo a difendersi dall’aggressore – si segue nelle indagini la pista di un legame pregresso tra vittima e carnefice. Nel corso delle indagini, la polizia trova in una struttura afferente al monastero un deposito contenente quantità industriali di vari farmaci e sostanze stupefacenti, e principalmente: benzodiazepine, ketamina, ecstasy, LSD. Tutti i membri del monastero vengono arrestati, accusati di spaccio e di truffa – “Monaci circuiscono giovani per vendere droga”, riportava un giornale locale quel giorno.
Marco era arrivato al monastero sull’avviarsi dell’estate, dopo mesi di litigi in famiglia, durante i quali aveva dovuto motivare la sua scelta al facoltoso padre, che aveva convinto assicurandolo – mentendo – che la sua scelta non era definitiva, che il suo soggiorno non si sarebbe protratto per oltre un mese, che una volta tornato avrebbe ripreso subito la sua carriera universitaria. Il confine del territorio appartenuto all’ordine era recintato da siepi e rete metallica: vedere all’interno era impossibile; proseguendo lungo il viale fino all’ingresso, ci si ritrovava davanti a un muro di cemento con una saracinesca abbassata, su cui era presente il graffito blu della faccia del Jolly. Il codice da digitare per chiamare il monaco addetto all’accoglienza era: 330-1992. Al momento dell’ingresso di Marco vivevano al Jolly Blue dieci monaci e quindici volontari in ritiro, di cui almeno tre di questi volevano trasferirsi stabilmente lì; Marco era contento di trovarsi insieme a ragazzi che coltivavano il suo stesso sogno. Di fronte al tempio, a cui si accedeva tramite un ponte di legno, sorgeva un’imponente statua dell’altezza di tre metri raffigurante l’uomo ragno. Due ragazze erano assorte in contemplazione dell’idolo, e avvicinandosi si poteva ascoltare il loro mantra, ripetuto con intonazione monotona e sillabe ben scandite: Le-fac-ce-di-Vo-gue-so-no-mi-ti-per-noi-At-to-ri-trop-po-bel-li-so-no-gliu-ni-cie-roi. La litania veniva interrotta, a turno, al fine di poter poi espirare una nuvola d’erba che andava ad aromatizzare tutta l’area circostante. Ovunque, negli spazi aperti tra le varie costruzioni – dormitori, cucine, tempio, biblioteca, sala giochi – erano sparsi videogiochi arcade svuotati delle loro componenti elettroniche che fungevano da vasi, da cui sorgevano piante di cannabis.
In seguito allo sgombero del monastero, tutti i residenti e gli ospiti hanno dovuto intraprendere un percorso di disintossicazione. Una gran parte dei monaci più anziani non è riuscita a finalizzare il reinserimento nella società, e uno dopo l’altro hanno preferito mettere un punto fermo alle proprie sofferenze; per i sopravvissuti, il processo è tuttora in corso. Degli ospiti, solo gli ultimi arrivati – dopo essere stati riaccolti dalle proprie famiglie – possono testimoniare una riabilitazione fruttuosa; alcuni, abbandonato il sogno di una spiritualità psichedelica, si sono ritirati in comunità monastiche tradizionali, cristiane e buddhiste.
Il primo fine settimana al monastero Marco non se lo scorderà mai: ogni venerdì sera moltissimi visitatori occasionali si radunavano all’interno della sala di meditazione, poiché i monaci consentivano l’accesso libero a chi si volesse fermare un paio di notti, concedendo anche alla comunità laica di godere dei benefici del distacco dalla realtà, almeno nei giorni di riposo dal lavoro. In quelle notti, si cantava un solo mantra, incessante, immutabile, ossessivo: E-sta-per-fi-ni-reun-al-tro-week-end-Se-ne-va-coi-gol-in-te-leil-week-end-Co-sì-po-iasp-et-te-re-moil-week-end-Con-vin-ti-che-sa-ràil-più-bel-lo-dei-week-endE-sta-per-fi-ni-reun-al-tro… La coralità del canto, eseguito da almeno il triplo delle voci presenti nelle altri notti, intercettava frequenze sconosciute, entrava dalle orecchie e si diffondeva attraverso tutte le sinapsi, eccitando ogni neurone e forse ogni cellula, e portando il corpo intero a vibrare, dall’interno all’esterno. Fu in quel momento che Marco scelse in maniera definitiva e irrevocabile di voler trascorrere tutto il resto della propria esistenza al Jolly Blue, sentendolo ormai come la sua seconda casa: lo capì scoppiando a piangere e continuò a sfogare le proprie lacrime per tutta la settimana successiva.
Marco non si scorderà neanche dell’ultimo fine settimana al monastero, che iniziava e si concludeva proprio nella notte incriminata dell’otto agosto. Come ogni anno, le settimane centrali di agosto erano quelle in cui una folla oceanica di giovani si radunava al monastero – accampandosi con tende, camper o dormendo all’addiaccio – scegliendo di disertare le vacanze in riviera romagnola che erano state fondative per la generazione dei genitori. Si stavano ultimando i preparativi per la notte di San Lorenzo, che al Jolly Blue equivaleva a un festeggiamento del Capodanno, per cui aveva dovuto rinunciare alla sessione meditativa per provvedere agli ultimi dettagli; proprio verso le tre di notte si stava avviando verso la kuti del vice-abate, che coordinava le operazioni, per chiedere un consiglio. Di quella notte limpida, Marco non si rammenta la fase lunare, né il numero di costellazioni visibili in cielo. Di quella notte limpida, nella sua mente permane una sola immagine, probabilmente indelebile, una nota di colore: un caschetto biondo che si allontana in direzione del bosco, sorretto da un corpo che alternava alla corsa delle piroette e altri passi di danza acrobatica.
Chiamato in tribunale per legami magari non volontari ma quantomeno ovvi con la storia del monastero, Max Pezzali ha assicurato di essere totalmente estraneo ai fatti e, pur non potendo negare di essere a conoscenza dell’esistenza del Jolly Blue e del culto riservato alla sua personalità, ha dichiarato sotto giuramento di non aver mai visitato la struttura, e di non aver intrattenuto alcun tipo di corrispondenza con l’ordine ivi formatosi. In varie interviste rilasciate alle emittenti televisive e a riviste di moda, il cantante ha sempre confermato la sua versione dei fatti, senza incorrere in contraddizioni, e ha approfittato di ogni occasione per ribadire la pericolosità relativa all’utilizzo di sostanze stupefacenti. Ha sostenuto ripetutamente di non aver mai assunto alcun tipo di droga. Ha anche invitato i suoi fan a non portare all’estremo l’idolatria nei confronti dei propri cantanti preferiti. Nonostante ciò, si sospetta che siano sorti almeno altri tre monasteri volti a proseguire l’esperienza del Jolly Blue.
Il dopobarba rendeva il cranio di Marco sempre luccicante e dal profumo pungente. Disintossicatosi grazie agli onnipresenti finanziamenti del padre, Marco aveva deciso di allontanarsi dall’Italia e dalla provincia, di abbandonare gli studi in medicina e di intraprendere la carriera di mozzo sulle navi mercantili. Il suo cranio rasato risaltava con l’uniforme da marinaio, e il lavoro in mare gli garantiva un’abbronzatura perfetta tutto l’anno. Marco non sentiva nostalgia della sua vita precedente, in monastero, e neanche di quella ancora precedente. Il suo nuovo mantra pop è: An-chea-spa-ri-re-ci-si-de-vea-bi-tu-a-re.
In copertina: ritratto di un monaco, Albert Greiner, 1861 circa – 1890 circa. Fonte Rijks Museum.