Ogni mese i redattori di Ludica ci parlano dei migliori videogiochi che hanno avuto modo di provare su PC e console.
Cultist Simulator
Weather Factory
Con le carte e i mazzi si possono realizzare giochi di ogni tipo: basti pensare al poker, alla briscola, alle carte di Uno, a quelle collezionabili di Magic: The Gathering, a quelle virtuali di Hearthstone (e presto di Artifact, nuovo titolo di Valve). Ma la nuova creazione di Alexis Kenney, già autore di Fallen London e Sunless Sea, si spinge oltre, e propone un sistema di gioco atto a simulare una vita: quella di un uomo degli anni ‘20, incline all’esoterismo, che vuole fondare un nuovo culto. L’oscurità dell’intento si riflette in una completa mancanza di istruzioni: «Explore. Take risks. You won’t always know what to do next. Keep experimenting, and you’ll master it», ci avvisa subito la schermata introduttiva. Il giocatore dovrà imparare tutto da solo quindi, e presto scoprirà la profondità di Cultist Simulator e l’ampia varietà di azioni a sua disposizione. Le carte vanno giocate all’interno di alcuni verbi: “Work”, “Dream”, “Study”, “Explore”, e diversi altri che si rendono man mano disponibili. Facciamo qualche esempio: giocare una carta “Reason” nel verbo “Work” ci consentirà di trovare un lavoro migliore; giocare una carta “Passion” nel verbo “Work” invece ci farà dedicare alla pittura, ricavando “Contentment”. A sua volta una carta come la “Contentment” è utile a placare i propri demoni interiori e a ridurre la paura e altre afflizioni fisiche e mentali che possono portarci alla morte con sorprendente rapidità. Avanzando nel gioco si potrà fondare il proprio culto, accumulare seguaci, rivaleggiare con culti rivali, evocare forze soprannaturali, sempre seguendo sempre questo schema base, ma le cose naturalmente non tardano a complicarsi, e molte azioni richiedono combinazioni di carte diverse. Cultist Simulator è un titolo di grande fascino, e impressiona davvero come un brillante lavoro di game design faccia emergere una narrazione ricca e complessa dal semplice crafting di nuove carte. Ma è anche vero che pochi giochi sono “non per tutti” quanto questo, perché, nonostante gli abbondanti indizi sparsi un po’ ovunque, è tutt’altro che immediato capire quali siano i meccanismi e le regole di Cultist Simulator. Servirà molta voglia, molta applicazione, o ci si ritroverà a lungo di fronte al gioco senza sapere come giocarlo.
Gilles Nicoli ha provato Cultist Simulator su Linux.
Epic Loon
Macrales Studio
Cosa fareste qualora la vostra benemerita collezione di VHS, costruita con ardore maniacale e curatela filologica degna di un non più giovane con gravi problemi di obesità e scarsa igiene personale – quale voi siete – , questa collezione, dicevamo, venisse brutalmente invasa da parassiti extraterrestri pronti a rovinare i vostri film preferiti? Non lo sapremo mai. Perché, in questo pregevolissimo e ameno platform multigiocatore, noialtri vestiremo i panni dei simpatici alieni, pronti a rovinare la festa all’odioso proprietario con gravi carenze sociali. Nel gioco, che altro non è se non un party game da saggiare beatamente sdraiati sul divano, il nostro scopo sarà quello di arrivare alla fine di ogni livello prima degli altri tre giocatori, che siano umani o simulati. Tentando, nel frattempo, di sfuggire gli interventi guastatori dell’antipatico umano. A fare la differenza rispetto a prodotti della stessa tipologia sono le meccaniche di gioco e gli ambienti all’interno dei quali ci muoveremo. Le prime prevedono una forma particolare di salto a farla da padrone: l’alieno, per muoversi compiutamente, si trasforma difatti in una sorta di pendolo vivente che si catapulta da una parte all’altra della sua traiettoria, dando vita a una modalità particolarmente divertente, goffa e perfetta per darsi noia vicendevolmente. Gli schermi da completare, invece, sono veri e propri frame rivisitati dei film che andremo a infestare (e che non vi spoileremo). Pellicole di genere, dall’horror alla fantascienza e via dicendo, all’interno delle quali salteremo tra titoli di coda, oggetti, protagonisti, elementi di scena e via di questo passo. In particolare, questi frame, sono ridisegnati con uno stile unico dai toni in bianco e nero: visivamente gratificante, personalissimo, appagante e in linea con l’atmosfera del gioco. Ad ogni modo, la compresenza di due varianti denominate “Story” e “Battle” mette in luce tutti i pregi e i difetti di Epic Loon: tra qualche meccanica che sarebbe stata da limare (il sistema di handicap inflitti) e gli elementi di contorno che diventano parte integrante del gioco (nella “Story mode” ripercorriamo la storia dei film, con tanto di stralci di dialoghi, commenti e interventi ultra nerd). Il risultato dice di un gioco dove non tutto è perfetto, ma il cui fascino porta presto alla dipendenza. Soprattutto se accompagnati da altri giocatori umani.
Daniele Ferriero ha provato Epic Loon su Windows.
Machiavillain
Wild Factor
Scopri Machiavillain e pensi, soprattutto se hai amato tantissimo titoli come Dungeon Keeper, che possa diventare uno dei tuoi giochi preferiti di sempre: proprio come il capolavoro di Peter Molyneux del 1997, qui le premesse di tante avventure videoludiche (e cinematografiche) vengono ribaltate, e al giocatore tocca impersonare le forze del male. Machiavillain ci consente infatti di costruire una casa degli orrori, popolarla di mostri, riempirla di trappole, e invitare tante vittime innocenti e inconsapevoli a fare una brutta, bruttissima fine. I meccanismi di gioco provengono tutti dalla tradizione manageriale e simulativa: raccogliere risorse, progettare i vari spazi, reclutare nuovi mostri (abbiamo a disposizione vampiri, mummie, psicopatici, ognuno con le sue caratteristiche), assegnare loro diversi compiti, e sotto questi profili Machiavillain somiglia a titoli come Prison Architect e Rimworld. Alcuni degli aspetti simulativi sono abbastanza realistici: i nostri visitatori si spaventano se una stanza è buia, e scappano a gambe levate se trovano tracce di sangue dei nostri ospiti precedenti. Altre regole invece sono prettamente stilistiche, e si riferiscono al cinema: la nostra casa degli orrori guadagnerà una più alta reputazione se elimineremo i nostri ospiti secondo i cliché dei film horror, ad esempio eliminando i nostri ospiti solo dopo che si sono separati e si trovano da soli. Di citazioni e strizzatine d’occhio Machiavillain è pieno, e questo sarebbe un altro punto a suo favore. Ma il gioco ha un problema molto grave: è poco divertente, a causa di due difetti che impediscono di godersi l’esperienza di gioco che avevano in mente gli sviluppatori. Il primo riguarda l’interfaccia: non è eccessivamente disordinata ma è macchinosa, ciò che si cerca si trova sempre a distanza di uno o due click in più rispetto a quanto sembrerebbe necessario, e questo, unito alla mancanza di un tutorial completo e al conseguente spaesamento iniziale del giocatore, rende soprattutto le prime partite estremamente faticose; ma anche una volta passate più ore sul gioco resta un senso di incompiutezza e di confusione che rende difficile l’immersione. Insomma, l’interfaccia in Machiavillain è un ostacolo che separa gioco e giocatore. Ma un difetto ancora più grave è il ritmo: il gioco è pieno di momenti morti ed è davvero troppo lento. L’aspetto più frustrante è forse proprio la sensazione di intravedere sempre un divertimento che il gioco stesso rende fondamentalmente inaccessibile.
Gilles Nicoli ha provato Machiavillain su Linux.
Minit
JW, Kitty, Jukio, Dom
Minit è la soglia minima che si riduce fino a scomparire. Se pensate che un gioco abbia senso di esistere solo al di sopra di una certa quantità di tempo da spenderci assieme, questo rompicapo ludico è qui per farvi cambiare idea. Attraverso un cortocircuito di senso. Pubblicato ad aprile da Devolver Digital e sviluppato da un pugno d’irriducibili sviluppatori indipendenti – una specie di who’s who della scena, a dirla tutta – , Minit, a prima vista, potrebbe farvi aggrottare la fronte pieni di dubbio. In bianco e nero, profondamente retro nella forma e nei modi, ha l’aspetto d’un prodotto fatto scofanare apposta a tutti quei giocatori insaziabili che amano perdersi nelle nostalgie retromani e nelle nebbie del tempo. La sostanza, per fortuna, è del tutto diversa. Perché in Minit la critica teoretica (cioè i ragionamenti intorno ai modi, alle forme e alla teoria del videogioco) si associa alla critica pratica, manifestandosi a fondo nell’eccelso gameplay. Come? Maledicendovi, letteralmente, in un curioso e speculare parallelismo con quella perla nera intitolata Pony Island. In Minit tuttavia sarà il tempo a vostra disposizione a farsi il fulcro del gioco e del discorso. Ogni sessanta secondi, difatti, morirete; a prescindere dalle vostre azioni e dalle scelte sin lì compiute. Dunque, un minuto sarà quanto avrete a disposizione per andare avanti, per indagare, combattere e capire in che guaio siete finiti. O soprattutto come uscirne. Non a caso, dietro l’apparenza di uno Zelda-like (oltre all’ascendenza ideale), Minit si rivela in fretta molto più simile ad un adventure/puzzle game fatto e finito. Gli scontri infatti costituiscono una parte tutto sommato secondaria del gioco, mentre la sostanza sta nella risoluzione degli enigmi. I quali, pur non essendo impossibili o improbabili, sono congegnati a dovere e con intelligenza pratica e ludica. E implicano spesso un uso della materia grigia, della ricerca e soprattutto dell’intuizione superiori alla desolante media odierna. Niente d’impossibile, ma tutto molto piacevole. In ultimo, l’estetica che in un primo momento sembrava così gratuita, si rivela come il coronamento dell’eccellenza che è questo gioco. Un attestato di coerenza. Per un divertentissimo e radicale ragionamento minimalista sulle limitazioni dello spazio-tempo, dei gameplay e sulla natura di quanto amiamo chiamare “videogioco”. Ché, in fondo, ogni istante è importante. Anche fuori dagli schermi.
Daniele Ferriero ha provato Minit su Windows.
Moonlighter
Digital Sun
Gig economy, mini-job, “carriere flessibili”: le nuove forme di lavoro post-crisi ci vengono presentate con una terminologia tanto accattivante quanto poco trasparente. L’inglese “moonlighting” usa quanto meno una sfumatura più poetica per nascondere una realtà poco desiderabile: è usato per indicare la situazione di chi, per stare a galla, è costretto a fare un secondo lavoro, spesso in orari notturni (da cui il “chiaro di luna” incluso nel termine). Moonlighter – prima fatica, finanziata tramite Kickstarter, dello studio indie Digital Sun – prende questo concetto alla lettera e lo trasforma in gameplay: impersoneremo Will, un abitante della città fantasy di Rynoka che di giorno gestisce un negozio dove vende cimeli e risorse accumulate durante le sue esplorazioni notturne nei dungeon attorno all’insediamento. Primo impiego: gestionale; si richiede esperienza nell’amministrare i prezzi delle merci per mantenere soddisfatta la clientela e avere buoni margini di guadagno, far crescere l’attività e tenere alla larga i taccheggiatori. Familiarità con crafting dell’inventario e city planning (non pretenderete mica di essere l’unico negozio in città, vero? Il mercato ha bisogno di concorrenza, e del resto dovrete pur comprare armi e pozioni da qualche parte). Secondo impiego: rogue-like; ben accetta esperienza con action-rpg e dungeon generati proceduralmente, stracolmi di creature capaci di spaccarci il cranio in un paio di colpi – fondamentali riflessi pronti e pazienza (utile, ma non indispensabile, avere Binding Of Isaac o simili nel CV). I benefit includono un accattivante art style cartoonesco (personaggini e mostriciattoli simpatici e pixelati, discretamente fantasiosi; tendaggi che si muovono al vento, a significare l’idea di abbandono e mistero) e una discreta capacità di assuefare il giocatore sgamato. Si astenga chi desidera una trama complessa (la lore è minimale e trafficata tramite le descrizioni degli oggetti, frammenti di diari nei dungeon e brevi dialoghi con gli NPC) o un’esperienza molto profonda: come nella realtà, il moonlighter difficilmente amerà entrambi i lavori allo stesso modo, e sarà presto alienato dalla ripetitività che finisce inevitabilmente per segnare entrambe le attività. Gli mancherà forse la coesione che un solo lavoro, svolto con più tempo e dedizione, gli avrebbe garantito. Si raccomanda comunque una candidatura da parte di chi è interessato a osservare un interessante esperimento di gameplay “bifronte”; uscirà presto una versione Switch, e il gioco – coi suoi ritmi spezzati e la brevità delle singole fasi in dungeon e città – potrebbe costituire un perfetto passatempo portatile.
Giorgio Chiappa ha provato Moonlighter su PlayStation 4.
Radiis
Urban Goose Games
Riuscite a immaginare un gioco di strategia a turni in cui non ci sono unità da muovere? Lo ha fatto lo studio canadese Urban Goose Games, proponendo in un titolo molto interessante come Radiis che, fedele all’idea che imporsi delle limitazioni stimoli la creatività, propone esattamente un gameplay di questo tipo. Il gioco offre campi di battaglia divisi in tanti esagoni simili a quelli di Civilization, che si differenziano tra loro per altezza (le posizioni più elevate hanno importanza strategica ma forniscono poche risorse) e per tipologia (maggiori risorse arrivano da foreste, prati e zone fertili; molto poveri invece i terreni rocciosi, desertici o innevati). Espandersi su queste mappe significa costruire delle fortificazioni, abbattere quelle nemiche, esercitare un’influenza sulle zone circostanti, conquistando nuove caselle senza “muovere” mai. Sorprende quanto dinamiche possano essere le partite in un gioco apparentemente così statico. Merito delle costruzioni a disposizione che non sono moltissime ma sono ben diversificate e soprattutto ben bilanciate tra loro: alcune servono più ad offendere, altre per difendere, altre ancora aiutano a sottrarre caselle agli avversari, e ognuna ha un diverso raggio di azione. Merito anche della gestione delle risorse necessarie a costruire, che incentivano una rapida partenza alla conquista delle caselle libere e premiano la distruzione delle strutture avversarie dandoci punti necessari a costruire facilmente anche le fortificazioni più costose, che sono poi quelle cruciali per la vittoria: grazie a questo meccanismo è sempre più importante la mossa successiva rispetto alle posizioni acquisite. L’interfaccia ci tiene inoltre costantemente aggiornati sulla quantità di risorse a disposizione di ogni fazione e sulla percentuale di mappa controllata. La conquista di un certo numero di caselle è la condizione di vittoria. Se la campagna di Radiis fornisce un buon numero di scenari, introducendo gradualmente i vari elementi di gioco e fornendo un buon livello di sfida (soprattutto nelle modalità più difficili, che concedono all’IA un moltiplicatore di risorse), l’editor di mappe e l’integrazione con lo Steam Workshop promettono di dare una considerevole longevità al gioco.
Gilles Nicoli ha provato Radiis su Linux.
The Swords of Ditto
onebitbeyond
The Swords of Ditto è la sagra del videogioco sotto l’egida di Cartoon Network. Un vero e proprio sogno ad occhi aperti per chiunque ami o abbia amato l’estetica di Adventure Time, Steven Universe, Gravity Falls, Over the Garden Wall, Rick & Morty, Regular Show e via di questo passo. Ovverosia ciò che è stato prodotto da un universo di illustratori, disegnatori e creativi indipendenti e un po’ squinternati che si sono trovati a illustrare cartoon e show per bambini (ma non solo…), per guastarne irrimediabilmente le menti a furia di ilarità demenziale e psichedelia colorata. Di quel patrimonio, The Swords of Ditto si è nutrito a dovere e ha fatto tesoro, rilanciandolo però in una versione tutto sommato innocua, coccolosa, colorata e adatta ai più piccoli: deliziosa nelle forme e nel risultato, quasi perfetta nella resa puramente visiva. La storia, invece, è in fondo quasi un pretesto, e prevede che il protagonista sia un classico ed archetipico eroe che viene scelto per combattere il male manifestatosi a più riprese nel corso dei secoli. La struttura del gioco, difatti, prevede sì che passiate le vostre giornate virtuali a combattere mostri a destra e a manca, recuperare magici, irresistibili, artefatti (un vinile roteante, tanto per spoilerarne uno) e migliorare le vostre probabilità di successo all’aumentare del livello e/o usufruendo dell’ausilio di adesivi speciali da appiccicare sopra le vostre armi ed armature. Però, al termine di questa particolare preparazione atletica (che prevede anche un buon numero di dungeon, scoperte accessorie, scorciatoie, sorprese esoteriche a vario titolo), verrete letteralmente costretti a sfidare il male in persona, Mormo, entro un tempo dato. In maniera del tutto bizzarra, vi troverete in una dinamica simile, benché più user friendly e convenzionale, rispetto a Minit. Dove lì s’incontra inopinatamente la morte, qui si affronta per forze di cose il Male assoluto. Che riusciate o meno nel vostro intento, poi, l’amara sorpresa: al prossimo ciclo vestirete i panni del nuovo eroe e vi troverete nuovamente a combattere, seppure in un mondo lievemente diverso e generato proceduralmente. E per l’ennesima volta sarete costretti ad affrontare forzatamente Mormo, che ne usciate vinti o vincitori. Proprio come nell’eterno viaggio dell’Eroe, che appartenga a Michael Moorcock o a Joseph Campbell. Tutto inutile, dunque? Non proprio… ma il come e il perché, o come uscirne, lasciamo che siate voi a scoprirli. Basti dire che vi troverete sempre alle prese con uno pseudo dungeon-crawler costituito da elementi simil roguelike e una struttura di gioco dall’impianto ciclico, se non proprio eterno. Il gioco, che supporta il coop, è piacevolissimo. Purtroppo, però, soffre di diversi squilibri e scelte di gameplay non sempre condivisibili o persino comprensibili. La sensazione è che gli sviluppatori stiano ancora calibrando in parte le potenzialità dell’universo di Ditto, nonostante non si sia più in Early Access. Non è peraltro improbabile che derivi proprio dal rush finale in occasione della pubblicazione. Non una giustificazione, ma la speranza che le potenzialità del gioco vengano presto espresse a dovere.
Daniele Ferriero ha provato The Swords of Ditto su Windows.