[SPOILER in quantità]
Tre meravigliose serie tv del 2015 sul fallimento
Louie – Probabilmente la serie tv comica del decennio. C’è tutto dentro. Il fallimento e l’illuminazione. Il buio pesto della depressione e la decompressione di una comicità lenta, avvolgente, onnivora. Un manifesto totale su ciò che siamo e non vorremmo essere. Su ciò di cui vogliamo ridere ma non lo sapevamo.
Better Call Saul – Ciò che contraddistingue Better Call Saul è la lentezza. Una lentezza smodata nel racconto, nelle inquadrature, nella recitazione, nel modo di raccontare un mondo che si è autoescluso, che lentamente sta crollando e non fa nulla per tornare alla luce. Saul Goodman ne è il rappresentante legale. Oramai, il Raymond Carver delle serie tv.
Bosch – Il Detective Harry Bosch è Titus Welliver (il nome non vi dirà nulla, tranquilli) e ha una faccia. Una faccia che trasuda invincibilità e rassegnazione. Neppure un’ombra di passato, nè un lampo di sorriso. Tutto gli crolla addosso e lui, Harry Bosch, che fa? Non cambia espressione, tutto stropicciato. Vivo, per il momento. Per non dimenticare.
Tre meravigliose serie tv sul passato
The Jinx – Una continua rincorsa verso ciò che non c’è più. Robert Dust è nudo. Ha deciso. Vuole raccontare tutto. Tutto cambierà: la sua vita che vita non sarà più, quella del regista (che non sapeva, non pensava), la nostra di spettatori inermi e sconvolti. Con The Jinx Andrew Jarecki ha praticamente inventato un nuovo genere televisivo: la serie tv documentario (rendendo The Jinx un esempio forse irraggiungibile).
Bloodline – Quattro fratelli e un omicidio che s’ha da fare. Le Isole Keys a fare da sadico sfondo. Un padre padrone, una madre dal sorriso stanco (la divina Sissi Spacek). Le movenze ubriache di Ben Mendelsohn a scompaginare il tutto. È già un classico e non sapeva di esserlo.
Making a Murderer – Tipo The Jinx ma più rovinata. Appena uscita su Netflix ma promette bene. Fra un anno esatto sarà su tutte le classifiche.
Tre nuove serie tv dalla Cool Britannia
River – River è un poliziotto che ha appena perso la sua collega. River vede le persone morte. River non sorride mai ma quando lo fa, è River. River è Stellan Skarsgård, e questo dovrebbe bastare. River è la sorpresa dell’anno. River è la nuova Luther, sotto xanax.
Unforgotten – Altra sorpresa dell’anno. Serie tv britannica fino al midollo. Attori superbi, una mezza dozzine di sottotrame – c’è un morto, sei potenziali colpevoli –, regia abbottonata il giusto. Si perde sul finale, comunque ad avercene.
Catastrophe – Comedy di Channel 4. Lui americano, lei inglese, entrambi quarantenni s’incontrano a Londra e finiscono a letto. Finisce lì. Macchè. Lei aspetta un bambino. Da lì una serie di disgrazie dopo l’altra. Tutt’attorno un mondo che va alla deriva (morale). Si ride molto. In Italia una serie così ce la sogniamo. Ci teniamo Via Zanardi 33.
Tre serie tv del 2015 che ci hanno fatto cadere le braccia a terra
1992 – Un pasticciacio vero e proprio. Quando si vuole copiare troppo e male. L’idea è di Stefano Accorsi, ma è il male minore. Non c’è misura, la sceneggiatura è inverosimile, la recitazione sfiora la recita. Tette e coca, dolly come se piovessero sui pettorali di Accorsi, e una Milano senza colpe a far da sfondo a tutta questa meraviglia gratuita. Ai limiti del ridicolo, oltre il ridicolo.
Broadchurch – Una prima stagione devastante. Ascolti superbi, la beatificazione di David Tennant, una trama che ti prende per il collo e cerca di annegarti. La seconda perde tutto lo smalto. Capiamoci, siamo comunque ad un livello accettabile, tutto è al suo posto. Manca la ciccia, la storia. Jessica Fletcher goes to Cornwall.
Wayward Pines – Doveva rilanciare l’agonizzante FOX, e invece. E invece è tutto una ricerca sfrenata di ricreare clima e tensione alla Twin Peaks senza riuscirci. Matt Dillon si impegna pure, ma anche in questo caso è la storia a latitare. E poi una regia che si guarda troppo allo specchio. Una Juliette Lewis insopportabile. Viene quasi voglia di vedere la seconda stagione di True Detective.
Tre serie tv nerd power
Halt and catch fire – Una serie sullo stadio primordiale del nostro mondo: il primo pc portatile, la prima community di videogame online, la prima chat. Qui il potere non è né nell’hardware né nel software: è nella capacità di essere visionari. Va bene costruire il futuro in cui stiamo vivendo, ma il vero cuore di Halt and catch fire è l’alchimia tra i personaggi, tra Joe MacMillan, un ibrido tra Steve Jobs e Patrick Bateman, e Cameron Howe, una Debbie Harry più a suo agio con il codice che con il microfono. Colonna sonora che fa felici i nostalgici degli anni ’80.
Mr. Robot – Non è facile raccontare Anonymous e gli hacker senza scadere in facili entusiasmi o in condanne ferree. Sam Esmail sceglie di narrare la realtà di un movimento collettivo e senza volto (se non quello della maschera di Guy Fawkes) attraverso gli occhi e il punto di vista di un personaggio: quella che sembra una faccenda collettiva, in realtà è una questione privata. Attraverso uno stile registico più cinematografico che televisivo, entriamo nella paranoia di Elliot, vediamo il mondo con i suoi occhi e finiamo per essere anche noi preda dei suoi demoni. Mentre ci fomentiamo per la fsociety (l’Anonymous della serie) ci sono due domande che si fanno man mano più insistenti: quanto di quello che vediamo è reale? Quanto vogliamo realmente rovesciare l’ordine cui sottostiamo, se l’unico scenario possibile, poi, è il caos?
Colpo di gran classe i titoli dei vari episodi come se fossero dei file (esempio: eps1.2_d3bug.mkv).
Silicon Valley – Una comedy ancora più spietata di una serie drama: a essere messo alla berlina è il magico mondo delle start up, degli incubatori, dei geni che inventano il futuro in uno scantinato e poi diventano miliardari. Tra grandi corporation che tentano acquisizioni a suon di dollari, beghe legali, qualche cannetta e molte mutande sporche, si ride tanto ma si soffre pure, perché i personaggi sono scritti così bene che non puoi non affezionarti a loro. Il problema è che sono più sfigati di Willy il Coyote.
La serie che ha fatto piangere Riccardo Luna.
Tre serie tv del 2015 sul fascino oscuro del potere
Game of Thrones – Che GoT non sia una serie fantasy dovremmo averlo capito (quindi, all’amico che ti dice «a me i fantasy fanno schifo» potremmo rifilare uno schiaffone). Il cuore della faccenda non è chi si siederà davvero su quel cazzo di trono o con quanti draghi arriverà Daenerys, ma questioni molto umane: brama di potere, terrore, vendetta, colpe da espiare e stigmi da cui liberarsi. Tranquilli: quattro mesi ancora e poi tornerà l’inverno. E ricominceremo a soffrire.
House of Cards – Se Frank ha ottenuto quello che inseguiva fin dalla prima stagione, ovvero la presidenza degli Stati Uniti d’America, le possibilità sono due: annoiarci a morte oppure spingere finalmente Claire a dirci qual è il premio che vuole per sé. In questa terza stagione, la riflessione che si fa con lo sguardo fisso nella macchina da presa non è più sulla natura del potere pubblico, ma su quello che si esercita nel privato di una casa con le camere separate.
Tutto il binge watching del presidente (Renzi).
Narcos – Lo sguardo di Escobar è serio e concentrato: è quello di chi sa cosa vuole (e se lo prenderà). Ma lo sguardo di Pablito è anche malinconico: è quello di chi sente l’ineluttabilità di quello che vuole e presagisce come andrà a finire. Così la sua rincorsa affannosa per farsi accettare dalla classe dirigente (e dominante) finisce nel territorio dell’allucinazione, in un luogo fisico che è quella prigione assurda e totalmente scollata dalla realtà che Escobar si costruisce come una reggia, in cima a una montagna. A (in)seguire Pablito nell’allucinazione ci sono Murphy e Peña, gli agenti della DEA per cui la cattura del re dei narcotrafficanti diventa un’ossessione.
La via latinamericana al gangster movie à la Scarface.
Best Period drama
Mad Men– 19 luglio 2007: marzo 1960. 17 maggio 2015: autunno 1970. Otto anni per raccontarne dieci. Novantadue episodi per dipingere un’epoca. Sette stagioni negli uffici, nelle case e nei bar dei pubblicitari di Madison Avenue: un mondo a cui nessuno avrebbe mai pensato di appassionarsi, salvo poi sperare non finisse mai. Ma con un finale così va bene tutto: anche la fine.
Manhattan– Si comincia a guardare Manhattan sapendo già a cosa porteranno le ricerche degli scienziati confinati nel deserto del New Mexico e, in certi momenti, si spera davvero che ce la facciano. Nonostante Hiroshima e Nagasaki.
Show me a hero – 1) Non sarà mai bella come The Wire; 2) sarà una specie di The Wire senza Lester Freamon (Clarke Peters); 3) la desegregazione razziale in America dal 1987 al 1994: dai, razzismo negli anni Novanta? Tre pregiudizi che l’ultima serie di David Simons annienta in sole sei puntate.
Tre serie tv sulla famiglia (anche se fanno finta di no)
The Americans – Tutte le famiglie felici si somigliano; ma ogni famiglia infelice è disgraziata a modo suo. Ovvero: tutte le famiglie hanno i loro piccoli segreti. Ma sono cazzi amarissimi se tua figlia scopre che sei una spia della Santa Madre Russia e passa tutte le puntate a cercare di telefonare a un prete per confessarlo allo Zio Sam. Le contraddizioni dello stile di vita sovietico e di quello americano, che facevano a pugni fin dalla prima stagione, esplodono finalmente in questa terza nell’unico luogo che poteva accoglierle davvero: la famiglia nucleare. Se essere adolescenti è una sfiga, immaginate quanto diventa terribile se scopri che i tuoi genitori si travestono per lavoro.
The Leftovers – Se le serie tv sono la religione del nostro tempo, allora è più che lecito che Damon Lindelof ci chieda un atto di fede per non abbandonare Justin Theroux alle sue amabili chiacchiere con l’amica immaginaria. Fin dalla prima scena Lindelof e Tom Perrotta si divertono ad aggiungere angoscia a una trama in cui le cose succedono senza troppe spiegazioni (d’altronde, se fai una serie sulle persone che scompaiono a caso, forse la logica non è la tua priorità) e bisogna aspettare l’ultima puntata per capire che il vero tema della stagione non è la religione, né la gente che vuole curare il male di vivere con gli abbracci, né il perché un’intera cittadina sia stata risparmiata dalla Dipartita del 14 ottobre, ma la famiglia. Justin Theroux, che al karaoke vale più di cento vincitori di XFactor, sta ancora cercando di capire se preferisce la libertà di perdere la testa da solo o le responsabilità di essere parte di una famiglia.
Aquarius – Uno dei motivi per cui continui a guardare Aquarius è David Duchovny in stato di grazia nei panni di un poliziotto vecchio stampo che potrebbe ricordare il Bigfoot di Inherent Vice, ma lo sorpassa a destra aggiungendo una dose massiccia di ironia, alcool e inaspettate aperture progressiste. Chi si aspetta i riflettori su Charlie Manson rimarrà deluso: c’è Manson che vuole incidere un disco, Manson che seduce e, soprattutto, Manson che ribalta il concetto di famiglia e decide di costruirsela lui. Se la family di Charlie è composta solo da persone che lui si è scelto, fuori dalla comune le famiglie non sono a elezione. Qui nessuno sceglie nessuno ma tutti devono, comunque, decidere che significato hanno i legami di sangue. Già d’antologia la scena in cui Duchovny/Hodiak assume per errore l’lsd.
A cura di Orlando Vuono, Valentina Rivetti, Sebastiano Iannizzotto, Federico Pevere.