Woody Allen vale sempre il prezzo del biglietto
Sul finire dei suoi primi dieci anni, qui compiamo una piccola rivoluzione, abbandonando il nostro formato classico – quello del magazine culturale a cadenza vagamente quotidiana – per presentare ogni mese un solo saggio e un solo racconto. Da queste pagine 24 autori ogni anno proporranno il loro filtro sul reale, manipolando inevitabilmente la personalità di Dude mag: ed è una cosa che ci rende enormemente curiosi.
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Woody Allen vale sempre il prezzo del biglietto

Uno dei motivi per cui vale sempre la pena andare a vedere un nuovo film di Woody Allen: si tratta di uno dei migliori battutisti in circolazione.

In un mondo capriccioso e imprevedibile come quello del cinema, c’è una sola certezza su cui ogni appassionato può contare ogni anno: ad un certo punto, verrà presentato a un festival o verrà distribuito nelle sale un nuovo film di Woody Allen. Accade regolarmente da più di trent’anni.

 

 

Al momento, a dispetto dei suoi 81 anni, l’autore americano ha una nuova pellicola nelle sale, Café Society, con Kristen Stewart e Jesse Eisenberg, ed è già in produzione con il suo prossimo lavoro, ancora senza titolo, con Kate Winslet e Justin Timberlake (wow). Non basta: c’è anche Crisis In Six Scenes, la sua serie tv realizzata per Amazon Video, disponibile da settembre negli Stati Uniti, nel Regno Unito e in Germania.

Alla base di questa incredibile continuità sta il fatto che, anche se i capolavori che hanno già assicurato a Woody Allen un posto di rilievo nella storia del cinema fanno tutti parte della sua filmografia degli anni ‘70 e ‘80, i suoi film più recenti continuano in genere a mantenere buoni standard qualitativi e ad ottenere di conseguenza altrettanti buoni riscontri,  rappresentando perciò un investimento sicuro per chi li produce; inoltre i costi sono sempre contenuti: Woody Allen è noto per pagare il minimo sindacale ai suoi attori, cosa che non gli impedisce di avere cast ricchi di star di Hollywood, che accettano volentieri un cachet ridotto se questo vuol dire ritagliarsi uno spazio nella produzione di un autore considerato ormai classico. A seconda del proprio gusto, chiunque può affezionarsi in modo particolare a qualche titolo minore degli ultimi anni: preferenze che un economista definirebbe di second best, che vengono sovente accordate a Match Point o a Midnight In Paris; io tendo spesso a perdermi in lodi esagerate di Irrational Man, forse per via di Emma Stone quella levità che sembra presa in prestito ad un racconto morale di Rohmer.

 

woody-allen-and-emma-stone-in-irrational-man-2015

“Irrational Man”, 2015

 

In secondo luogo, Woody Allen ha dalla sua parte un talento innato che gli consente di essere così prolifico da così tanto tempo: già a 16 anni iniziò a farsi strada come autore di gag e barzellette, e venne presto ingaggiato come sceneggiatore di testi spiritosi per giornalisti e scrittori; arrivò a produrne cinquanta o sessanta al giorno, e prima di iniziare la sua carriera come cabarettista, e poi come attore e regista, ne scrisse più di ventimila. Non ancora ventenne, guadagnava in questo modo più dei suoi genitori.

E in effetti, questo è uno dei motivi per cui vale sempre la pena andare a vedere un nuovo film di Woody Allen: si tratta di uno dei migliori battutisti in circolazione. Prima di uscire dalla sala avremo sicuramente ascoltato almeno una di quelle che gli americani chiamano one liner che valesse da sola il prezzo del biglietto. Café Society non fa eccezione: «Vivi ogni giorno come se fosse l’ultimo, e un giorno ci azzeccherai». Oppure: «È un peccato che la religione ebraica non abbia un aldilà, sai quanti più clienti avrebbe?». La morte e la religione sono del resto due dei suoi temi ricorrenti più cari. Naturalmente, Café Society ha anche altre qualità, non ultima la prova di Jesse Eisenberg, uno dei migliori alter ego che Woody Allen abbia trovato da quando ha deciso di restare dietro la macchina da presa ma di uscire dal set, rinunciando a interpretare i suoi personaggi per raggiunti limiti di età.

 

Tanta roba.

 

Come attore, Woody Allen non è stato influenzato da nessuno più che da Bob Hope; vedendo alcuni dei suoi film più riusciti, come ad esempio La mia brunetta preferita (1947), spassosa parodia del cinema noir americano, è facile immaginarsi Woody Allen nei suoi panni. Come autore sono immediati alcuni altri collegamenti: quelli con il cinema europeo e con registi come Bergman e Fellini per le sue pellicole drammatiche, e con Groucho Marx, suo grande amico, per quelle più comiche.

Singolari cortocircuiti aneddotici: Fellini provò due volte, senza successo, a ingaggiare Groucho Marx, nel 1965 per Giulietta degli spiriti e quattro anni dopo per Satyricon. A sua volta Woody Allen provò ad avere Fellini in Io e Annie (1977); il suo doveva essere un cameo nella stessa famosa scena in cui compare il sociologo Marshall McLuhan che, infastidito e annoiato dalle opinioni e dai giudizi espressi sul suo conto da uno di quei classici tuttologi e sputasentenze, esce fuori a sorpresa per rispondere in prima persona.

 

 

Al netto delle influenze, il suo stile più maturo lo conosciamo tutti: è un mix di elementi e di spunti comici, assurdi, malinconici, filosofici ed esistenziali, condensati nello spazio di poche parole. Si tratta di un tipo di scrittura che Woody Allen, nella recente biografia L’Ultimo Genio, pubblicata da Salani, paragona a quella poetica: «In entrambi i casi è essenziale la precisione, cioè non può mancare una parola né essercene una di troppo, perché rovinerebbe completamente l’effetto. Sia il verso che la battuta devono avere le parole giuste, esatte, per poter ottenere il risultato che cercano». Il risultato sono poi battute che amiamo tanto perché sappiamo che, dopo averci fatto ridere, ci resteranno in mente e ci faranno anche riflettere, diventando un punto di partenza per pensieri più profondi.

Gilles Nicoli
È nato a Roma sette giorni prima che Julio Cortazar morisse a Parigi. Scrive di videogiochi su Ludica. Ama il cinema, la buona letteratura e la frutta.
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