La lotta è FICA è il nuovo progetto di public art del collettivo bolognese CHEAP che, il 18 giugno scorso, ha installato una ventina di poster nella centralissima via Indipendenza a Bologna.
L’obiettivo è rappresentare il femminismo intersezionale, antirazzista, body e sex positive attraverso le opere di venticinque illustratrici, grafiche, fotografe, perfomer, fumettiste, streetartist provenienti da Italia, Argentina, Canada, Stati Uniti, Polonia, Francia, Colombia: To/Let, MissMe, Nicoz Balboa, Bastardilla, Joanna Gniady, Cristina Portolano, The Unapologetically Brown Series, Ivana Spinelli, Ritardo, Flavia Biondi, Mariana Chiesa, Chiara Liki, Luchadora, Jul Maroh, Rita Petruccioli, Giorgia Lancellotti, Chiara Meloni, Athena, Redville, Ilaria Grimaldi, Silvia Calderoni, Claudia Pajewski, Maddalena Fragnito, Sara Leghissa, e anche Josephine Yole Signorelli (in arte FumettiBrutti), autrice del fumetto P. La mia adolescenza trans per Feltrinelli Comics, diventato negli ultimi mesi un vero e proprio caso editoriale.
Dopo il lockdown a causa di questa pandemia, «ripartire dal femminismo ci sembra un atto di buon senso», dichiarano le fondatrici di CHEAP. Il progetto di public art, infatti, fin dal 2017 ha collaborato a varie iniziative di street art orientate in tal senso: ha portato in Italia le Guerrilla Girls per la loro prima affissione di poster; ha lavorato ad un wall con MP5, in collaborazione con Non Una Di Meno; nel 2018 ha ideato e curato un intervento per la Casa delle Donne di Bologna in occasione del Festival della Violenza Illustrata, coinvolgendo l’artista canadese MissMe, i cui lavori sono arrivati anche nel salotto di Madonna (!). Più recentemente, ha portato a Bologna la campagna internazionale di School of Feminism Ringrazia una femminista.
«All’interno di questa crisi», continuano «i divari di genere preesistenti si sono dilatati. Si è chiesto di restare in casa anche a donne che nelle proprie case non sono sicure perché convivono con uomini violenti: il problema della violenza di genere è stato completamente ignorato all’interno del discorso pubblico istituzionale. Sono state chiuse le scuole e non sono mai state riaperte configurando uno scenario piuttosto scontato: se già in un periodo di normalità (e per normalità ci riferiamo all’assenza della peste) la divisione del lavoro sulla base dei ruoli di genere comporta per le donne una maggior responsabilità in termini di lavoro di cura domestica, è piuttosto evidente che la chiusura delle scuole insieme alla malattia dei familiari hanno fatto aumentare questa richiesta esponenzialmente, causando con ogni probabilità l’abbandono da parte delle donne del lavoro salariato, specialmente per quelle che non possono attuare lo smartworking. La crisi sanitaria legata alla pandemia ha effetto anche sullo spostamento di risorse economiche dai servizi di salute sessuale, riproduttiva, materna: in un paese dove i consultori erano insufficienti prima dell’arrivo del virus, è legittimo temere che alle donne non verrà garantito il diritto di accedere a servizi sanitari fondamentali».
È un dato di fatto che le città, dopo mesi di silenzio, in queste settimane stiano lentamente tornando a prendere vita. E in particolare, a seguito delle proteste iniziate con la morte di George Floyd, il dibattito intellettuale si è animato e incentrato sul senso e sul valore dei simboli cittadini, sulla loro storia, sulla loro possibilità di essere contestualizzati o distrutti. Nasce quindi, soprattutto dal basso, una forte spinta alla riappropriazione e sovversione dello spazio urbano, attraverso gesti tanto creativi quanto “iconoclasti”.
La posizione di CHEAP su quella che potremmo ormai definire “la disputa sulle statue” è molto radicale:
«A Bristol, la statua dello schiavista Edward Colston è stata rimossa e buttata nel fiume; negli Stati Uniti varie statue di Cristoforo Colombo sono state rimosse. A Milano si è affermato una cosa che noi troviamo di una banalità sconcertante, cioè che uno stupratore non merita una statua e attraverso di essa una celebrazione pubblica: eppure abbiamo assistito ad una levata di scudi agghiacciante in difesa di un suprematista bianco che parlava della sua schiava bambina come di un “animaletto docile”.
Non siamo certe che la difesa del privilegio bianco maschile e coloniale si fermerà alla schiera dei bimbi di Montanelli che si stanno stracciando le vesti, argomentando che lo “stupro va contestualizzato”. Temiamo invece che non solo assisteremo a scene indegne del genere ogni qualvolta un simbolo dell’oppressione verrà contestato ma che la stessa situazione si ripeterà quando cercheremo di produrre un immaginario critico in opposizione a quello sopra citato».
Per questo il concetto di decolonizzazione è ormai la questione principale all’interno dell’odierno dibattito sull’arte contemporanea, e anche una vera e propria pratica artistica, non a caso sintonica con il femminismo intersezionale, che vede una connessione tra i due poteri sistemici del sessismo e del razzismo.
Decolonizzare l’arte significa quindi rappresentare corpi orgogliosamente non bianchi, non eteronormativi, non in linea con una concezione binaria dei generi sessuali, corpi trans. Corpi, insomma, che nudi o coperti lo siano sempre per una libera scelta di autodeterminazione da parte delle donne.
Infine, lo stesso team di CHEAP ha poi realizzato un poster con la scritta tipografica “We can’t breathe” in rimando alle lotte di Black Lives Matter, non solo per solidarizzare con il movimento BLM, ma anche e soprattutto per invitare a quella riflessione sul privilegio bianco necessaria in un paese post-coloniale, in rimando alle parole della scrittrice Igiaba Scego [1, 2] e della docente universitaria Angelica Pesarini, due intellettuali nere italiane che hanno preso parte al dibattito in questi giorni.