Per un’antropologia estetica di Internet: Mara Oscar Cassiani
Sul finire dei suoi primi dieci anni, qui compiamo una piccola rivoluzione, abbandonando il nostro formato classico – quello del magazine culturale a cadenza vagamente quotidiana – per presentare ogni mese un solo saggio e un solo racconto. Da queste pagine 24 autori ogni anno proporranno il loro filtro sul reale, manipolando inevitabilmente la personalità di Dude mag: ed è una cosa che ci rende enormemente curiosi.
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Per un’antropologia estetica di Internet: Mara Oscar Cassiani

Una delle protagoniste dell’ultima generazione di giovani di artisti e performer indipendenti che, formatasi in giro per l’Europa, comincia a rilasciare un po’ di ossigeno anche qui da noi

Pesarese, Millennial. Calzettoni nike e sneakers. Mara Oscar Cassiani sembra la ragazzetta all’ultimo banco del liceo, quella troppo alta per la sua età che gioca a basket con i maschi. Invece è uno dei nomi che più sta girando in questo momento tra i festival e le rassegne di arti performative in Italia e non solo: negli ultimi tre anni l’abbiamo vista a Centrale Fies, Santarcangelo Festival, Civitanova Danza, Kunsten Festival des Arts, al Peggy Guggheneim, alla Quadriennale di Roma. Una delle protagoniste di questa ultima generazione di giovani di artisti e performer indipendenti che, formatasi in giro per l’Europa, comincia a rilasciare un po’ di ossigeno anche qui da noi, sperimentando con forme espressive finalmente più connesse al contesto contemporaneo. Mara proviene dalla danza, ma nei suoi ultimi lavori (TRASHX$$$, MMXIV ICONOGRAPHY, JUSTICE, The sky was Pink, Ed3n Temple&The perfect life e ora #wifispirits, in scena giovedì 15 dicembre a Raum, Bologna) fanno ingresso una serie di riferimenti, suggestioni, elementi tratti da territori anche molto lontani da quelli teatrali — le sottoculture urbane e digitali, i linguaggi dei nuovi media, l’Internet, i simboli osceni del capitalismo. Un affondo nel pop e nel trash più puro, che però non si esaurisce in questi ma, al contrario, ne esplicita i parossismi grazie a una messa in scena precisa e “sinestetica”. Il movimento e l’azione sono inseriti in veri e propri frames dove la musica trap, le luci fluo, gli oggetti, i visual pixelati e vaporwave vanno a creare degli ambienti immersivi, degli orizzonti dove sono i nostri sensi ad essere sollecitati ad interrogare il senso narrativo di quello che succede davanti a noi. Quello di Mara è un linguaggio artistico che apre il teatro alle estetiche in cui siamo continuamente immersi nella nostra esperienza di soggetti digitali, mettendoci di fronte a un’umanità che forse non può più effettivamente definirsi tale. Una nuova primordialità dove «è la macchina ad essersi fatta biologia», nella quale è sempre più urgente ripensare insieme simboli e riti, per non correre il rischio che siano questi ad usare noi come semplici device.

 

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Ciao Mara. Chi è Oscar?

Oscar è l’eredità di una mia vecchia identità digitale. Prima che la rete diventasse un ufficio anagrafe obbligatorio, era raccomandabile lasciare il proprio nome fuori e non dare dati reali. Così usai Oscar perché mi allontanava da ogni specificazione di gender; in seguito ho deciso di tenerlo con me.

Vieni da un piccolo centro in provincia di Pesaro. Nonostante le Marche per certi versi siano una felice eccezione nel deserto culturale e artistico italiano, mi immagino che non sia stato così scontato decidere di fare l’artista. Raccontami brevemente com’è andata.

Esatto. Premettiamo che le Marche —  Urbino, Pesaro — sono ancora un baluardo nella cultura italiana e durante la mia adolescenza erano ancora più “esuberanti”. Nasco però anche sulla riviera romagnola, che è un dato non da poco rispetto alla mia linea e formazione. Diciamo che ho manifestato questo “problema” attitudinale sin da piccola. Nonostante fosse stato segnalato da vari insegnanti di musica e danza che avevano a che fare con me, di certo non era nei programmi della mia famiglia farmi fare l’artista, e neanche nei miei immaginari. Parte della mia formazione è iniziata da autodidatta in infanzia, grazie a molta musica, VHS e film d’essay portati a casa dai miei fratelli. Stranamente prediligevo Akira Kurosawa, Jarmusch, Asimov, Lynch, i video di Gondry e le favole di Buzzati al mainstream italiano e a quello che ti fanno vedere a scuola. E avevo già notato il grande gap tra la mia cultura contemporanea e la scuola di danza, mentre passavo ore vestita da piccola ballerina a osservare le classi di danza moderna. Diciamo che un iniziale stato di isolamento mi ha aiutata a concentrarmi su certi linguaggi. Sono connessa dal ’94: mio fratello mi ha fatto scrivere il mio primo programma a 8 anni. Durante le lezioni al liceo mi distraevo sui libri di artisti contemporanei, cosa che ai professori non faceva troppo piacere. A 19 anni ho lasciato la mia città per approfondire ovunque fosse possibile, per poi riconnettermi via rete.

 

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Il tuo linguaggio artistico è molto chiaro, per lo meno nei suoi riferimenti estetici. Quando l’immaginario digitale è entrato così con prepotenza nel tuo lavoro e perché?

Questa iconografia mi permette di trattare punti di criticità della nostra società, superare limiti geografici e temporali in cui gran parte della cultura si è incagliata. Rinnovare dunque iconografie in cui ormai è impossibile identificarsi. È un immaginario che ho fatto mio quasi da subito, perché ho sempre pensato che la performance, così come tutti gli atti performativi, sia legata a dei rituali, a linguaggi in evoluzione, più che a delle forme predeterminate.

Che rapporto hai con Internet? Non ti sei stufata di tutto questo fluo?

Diciamo Pastel più che fluo ;) Internet è per users, è un luogo senza confini e di pura condivisione. Purtroppo l’arrivo della massa di utenti l’ha reso una vera giungla dello spam e del marketing. Ora come ora consiglierei alle persone che ne fanno un uso basic, di fare log out e ripristinare la propria realtà, o di imparare a stare in rete. Sicuramente consiglio di fare log out dalla tv. Più che del fluo sono stanca delle pubblicità, sia nella vita connessa che non: è rumore visivo e controllo sociale allo stesso tempo.

 

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La rete è flatlandia. Ti permette di andare in lungo e largo tra i segni e le suggestioni ma mai in profondità. La nostra esperienza online è un continuo surfare sugli stimoli visivi senza poter mai ficcare la testa dentro l’acqua. I tuoi lavori si insinuano in queste catene infinite: esiste la possibilità di prendere posizione rispetto a questo flusso o l’unico modo per poter dire qualcosa a riguardo è restare saldamente spalmati sulla superficie?

Sicuramente per alcuni di noi questi dati sono troppi. Siamo sommersi da data, il che ci offre grandi possibilità di conoscenza, ma solo se impariamo ad esserne consapevoli. Diciamo che i nostri confini mentali e culturali sono l’unico limite flat al surf. Forse un giorno troveremo un flat universale non troppo flat che abbatterà le differenze culturali .

In un’intervista molto tenera che ho trovato su YouTube dici con un’innocenza impressionante che il teatro non incide minimamente nella vita delle persone e della collettività. Lo pensano in molti. Forse perché è difficile trovare quell’equilibrio tra l’egocentrismo di voler esprimere la propria sensibilità e il saper guardare fuori dalla finestra, cogliendo i nodi importanti del presente. Il tuo “teatro” però è immerso nel pop, lo racconta, lo commenta: pensi che questa possa essere una forma di funzione?

LOL, grazie per il tenera. Oggi le nuove generazioni di artisti (in Italia siamo ancora in pochi, forse) lavorano su un sistema vasto. Grazie alla rete, sono letteralmente in grado di modificare la percezione della realtà e di diffondere la propria idea estetica attraverso i propri contatti, che a loro volta la riversano in altre forme. Siamo di fronte a veri e propri movimenti globali, non isolati a un contesto geografico, ma che condividono ideali e mutuo supporto: dalla visual art alla musica, quindi ai club, alla rete e a tutte le connessioni reali. È così che i segni diventano virali. A nostra volta, poi, veniamo studiati e inglobati dal marketing. Alcuni di noi lavorano direttamente nel branding. Questo discorso applicato alle mie forme è molto vasto, perché non mi limito a una sola disciplina, o sarei già morta di noia temo.

 

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Cosa trovi trash? C’è un limite oggi al trash? 

Trovo Trash tutto quello che riguarda l’attuale economia geopolitica, lo status di “vita perfetta” in tutte le sue possibili diramazioni, le caste di intellettuali e politici desuete e dozzinali che si fanno avanti grazie al panorama di una umanità spiritualmente impoverita. Oltre a questo l’overload di pubblicità, l’abuso di potere in tutte le sfere sociali, non esclusa quella intellettuale; gli sproloqui delle persone sui social, il controllo che questi permettono sugli individui, gli stalkers, l’oggettificazione del corpo, il ritorno della misoginia e il rientro di antiche figure sociali come lo sugardaddy e gli/le  sugarbabies; l’incapacità di empatia di fronte ai danni che stiamo facendo subire all’unico pianeta che può ospitarci.

Qualche giorno fa abbiamo visto Bello Figo dabbare Belpietro e la Mussolini. Ti è venuto più da piangere o da ridere?

Ridere, per un paese che non ha gli strumenti e usa ogni bieca strumentalizzazione per fare sharing; piangere perché è evidente che sia necessario un passaggio di generazione e mettere Bello Figo in quella condizione poteva essere pericolosissimo. Detto questo, mi dispiace che l’hip hop, che nasce come denuncia, venga strumentalizzato in quel modo. Bello Figo sguazza nel Trash e sa come surfarlo senza farsi intaccare. Mi chiedo cosa avrebbe detto la Mussolini di canzoni italiane come Escort 25 di Immanuel Casto. Mentre io rimango sempre più sconvolta per i testi di Vasco Rossi, alla sua veneranda età è in completa degenerazione bunga bunga alla Trump e vende anche. Bello Figo non è proprio Snoop Dog comunque. Avrei preferito uno Snoop Dog versus Mussolini.

Vedendo le tue performance mi colpisce sempre che, nella complessità e nella precisione estetica degli elementi installativi (luci, colori, musica, oggetti), la presenza del corpo e dell’azione umana restano comunque centrali. È strano: da un lato siamo immersi in un ecosistema dematerializzato, dall’altro i meccanismi con cui facciamo esperienza sono sempre più sinestetici, quindi sensoriali. Ad esempio ora stiamo in fissa con le immagini delle texture. Il risultato è una sorta di rapporto schizofrenico con il nostro corpo, così occasionale da poter esistere solo sotto forma di culto officiato in appositi santuari, come le Spa e i centri wellness. Magari la post-umanità si libererà finalmente della carne e diverrà puro spirito fatto di interconnesioni neuronali. È una prospettiva che ti alletta o ti fa preoccupare?

OK, pensiamo a un alieno di una società avanzatissima che intercetta la nostra wifi o canali TV. Cosa troverebbe? Un magma di emozioni, insicurezze e autodistruzione.  Mi piace usare le forme espressive dei media, coinvolgere tutti i nostri sensi e intercettare la nostra percezione sensoriale in quell’attimo prima che diventi il significante di qualcosa… ma per quel che riguarda il futuro… L’umanità si evolve grazie alla molteplicità  dei soggetti, ma allo stato attuale non mi sembra che siamo ancora pronti a un salto. Non vorrei mai fondermi in una rete neuronale in cui, ad esempio, sono loggati anche i nostri attuali politici o speculatori. Sebbene sia allettante immaginare un essere fatto di solo spirito o pura coscienza, diciamo che non siamo sulla buona strada: la nostra conoscenza è ancora basata su meccaniche semplici rispetto alla biologia, e metà del pianeta è in guerra, dominato da emozioni e utili personali. In quanto specie abbiamo smesso di evolvere e così come affermo in TRASHX$$$, l’evoluzione della cultura occidentale si basa interamente sull’economia. Probabilmente dovremo convivere con la carne ancora per molto e la post-umanità e il trans-umanesimo sono ancora lontani. Sempre che non ci si estingua a breve.

Immaginario, estetica, sinestesia. Tutte parole che fanno riferimento a un modo di esprimersi quotidiano — perché è quello che funziona su Internet — che sembra decretare una morte celebre: quella della narratività in senso classico. Eppure andiamo matti per le serie tv. Questa prosa deve da mori’ oppure no?

OMG non è che tutti questi elementi siano esattamente sullo stesso piano. Ma per certi versi, come dici tu, forse lo sono. La nostra società è in continua trasformazione e viviamo immersi in linguaggi complessi. Sono complesse le fiabe per bambini, al di là di quelle della Disney, così come un qualsiasi frame della nostra vita può essere estremamente a-narrativo. La narrativa si è evoluta e deve solo accettare di continuare a farlo. Se poi per prosa intendi una forma di teatro declamato e lineare, che continua a riproporre testi di vecchie società in una forma banale e didascalica, all’interno di un luogo — il teatro — che per la prima volta dopo millenni ha smesso di trasformarsi… in questo caso è già allo stato di Zombie.

 

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Nei tuoi lavori ci sono tanti riferimenti esterni al mondo del teatro e della performance. Lo skate, il surf, lo stesso Internet sono tutti universi sottoculturali che raramente entrano nel discorso artistico — per lo meno in Italia — e che invece tu rendi centrali. A Santarcangelo, durante l’ultima edizione del Festival, hai addirittura “occupato” un parchetto, acchittandolo con macchine tunate e luci strobo per farci un laboratorio di danza. Ti senti vicina a questi contesti? Credi che esista il rischio di colonizzarli?

Sono abbastanza vicina a questi contesti da poter dire con orgoglio che io e i proprietari delle macchine tunate avevamo le stesse playlist e che gli adesivi sulle loro auto erano anche i miei tatuaggi. È la musica che unisce. Ma in effetti credo che molte persone che non abbiano biograficamente vissuto quei contesti stiano iniziando a colonizzarli, per mancanza di idee o per moda. il colonialismo è un rischio. Ma è anche vero che questi mondi sono inafferrabili da chi non ci è dentro, sono codici che si riscrivono di continuo per sfuggire.

In occasione della Quadriennale di Roma hai partecipato al progetto AR/RIVEDERCI ROMA (che Dude Mag ha seguito da vicino qui) che ricostruiva una mappa immaginaria di Roma a partire dai luoghi dell’anima degli artisti. Tu hai indicato il Nike Store come tuo posto. Dai, non ci credo. Il Nike Store?

Sì!!! Verissimo.

Non ho pensato a me stessa come un’artista, che deve dimostrare una conoscenza culturale di un luogo. Ho pensato a me stessa come soggetto in un’epoca storica. Non ci sarebbe stata cosa più falsa da parte mia in quanto artista che scegliere un luogo tipico e un concetto neo romantico. In una realtà globale, in cui non conosci più le città perché i luoghi di riferimento sono decaduti, ho cercato una immagine familiare globale, transnazionale. Poteva essere anche McDonald, ma sto lavorando sull’impero del wellness, così ho scelto il Nike Store e l’ho associato alle Terme di Caracalla e a delle gif. Sono nuove ritualità e nuovi templi  di questo presente.

 

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Mara Oscar Cassiani su AR/RIVEDERCI ROMA

 

Nei tuoi lavori è sempre molto presente la dimensione musicale e sonora, anche se spesso ti serve per definire ancora meglio l’orizzonte estetico e culturale che allestisci. Oltre a Tumblr e Instagram, quindi, di cosa ti cibi?

Tutte le piattaforme possibili sono nutrimento, alcune vanno prese coi guanti, per fortuna sono tutte gluten free ;)

E invece nel teatro c’è qualcosa che ti piace?

Mi piace l’ascolto del pubblico , la riscrivibilità dello spazio e la sua elasticità, l’acustica, gli impianti audio, i dialoghi tra artisti — quelle rare volte che sanno farli — e Giselle Vienne.

Se dico:

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tu che dici?

Dico che è la perfetta narrazione immagini per: DATE A SUGAR DADDy 2k16, in BitCoins Love – Karaoke Show Chinatown, Milano, 20 Dicembre 2016.

 

Lorenza Accardo
Divisa tra Roma e Bologna, sogna di fare la popstar. Reduce dalla vertigine semiotica, collabora con alcuni festival di arti performative e scrive qua e là. @LouSophia7
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