Prima di questa intervista conoscevo Claudia per i suoi romanzi (Un giorno verrò a lanciare sassi alla tua finestra e A Chloe, per le ragioni sbagliate, Marsilio), ma principalmente per un dialogo abbastanza costante e duraturo in tema di musica a partire da Indie for Bunnies fino alle pagine del Mucchio. La sentivo una voce vicina, piuttosto sorella. Era il 2011 quando al concerto di Beirut a Ferrara i ragazzi di Indie for Bunnies mi avevano detto che sì, doveva esserci anche lei lì in mezzo, che ci saremmo visti tutti più tardi, programma contraddetto poi dalla folla che ci ha confusi tra le centinaia di persone in piazza Castello.
Quindi era già da un po’ di tempo che cercavo di combinare un incontro, quando uscì l’antologia L’età della Febbre (Minimum Fax, 2015), a cui Claudia ha preso parte con un racconto ambientato nella Capitale, una cosa curiosa, giacché l’immaginario della scrittrice fino a quel momento era sempre stato di tipo americano, ma anche il motivo che mi ha fatto subito pensare a lei per Bellagente 2016.
Mi torna in mente quella scena dell’estate ferrarese lo scorso undici maggio, quando su minima&moralia esce un articolo in cui Claudia commenta il suo allontanamento dalla redazione di IL per colpa di un tweet. I 140 caratteri incriminati riguardavano la posizione di alcuni scrittori internazionali relativamente alla vicenda Charlie Hebdo: si esprimevano, in pratica, alcune riserve sugli attacchi rivolti a quegli intellettuali che si erano espressi a sfavore della consegna del Toni and James C. Goodale Freedom of Expression Courage Award alla redazione della testata satirica francese. Le parole scritte da Durastanti in quell’occasione hanno contribuito a rafforzare l’immagine che già da tempo andavo costruendo attraverso la lettura dei suoi libri e delle sue recensioni. Claudia è una scrittrice giovane eppure straordinariamente cosciente dei suoi mezzi, calibra la parola senza paura ma sempre con esattezza. Sa che per fare letteratura c’è solo da fare letteratura. Forte di questo dogma personale, nell’intricato reticolato di connessioni tra letteratura, editoria e giornalismo la sua voce si delinea come quella di una outsider, indipendente e mai accomodante. La incontro una sera d’inverno nella sua casa di Newington Green, un venerdì sera londinese in cui ogni traccia di Londra viene spazzata via dalla televisione del salotto che lasciamo accesa nel corso della cena mentre scorrono le immagini dell’ultimo festival di Sanremo.
Per gran parte della nostra chiacchierata e anche nei giorni a seguire, continuerò a domandarmi come sia possibile che una sola persona possa essere abitata da tale esattezza – nei modi, nelle espressioni, nel linguaggio – eppure portare dentro un magma ribollente di autenticità.
Durastanti è una delle poche penne italiane, se non la sola, a non sembrare artificiosa o affettata nel parlare di Williamsburg o Brooklyn, per esempio. Questo senza dubbio per via del suo privilegiato punto di vista: nata a New York da genitori italiani, a sei anni è rientrata in Italia, in un piccolo paesino della Basilicata che ha poi lasciato per andare a studiare a Roma. Scrivere di Roma però è arrivato dopo, solo in seguito a un ulteriore allontanamento, quello che ha portato la scrittrice a lasciare l’Italia per il Regno Unito.
«Ho sempre scritto di posti nel momento in cui li ho lasciati. Ho scritto di cose americane quando ho smesso di essere americana. Roma è una città molto autoreferenziale, devi quasi chiederle il permesso per entrarci. La mia carriera da scrittrice è iniziata in quella città, benché fosse totalmente slegata da quel contesto. È stata una ferita che si è infettata e poi è scoppiata a rilascio graduale. Per me è una città molto buia. Intervistai Dirty Beaches che mi confessò di essere stato colpito della violenza della città, la più violenta che avesse mai visto. Sono d’accordo con lui. È stata l’unica città europea in cui davvero ho visto scorrere il sangue. Un po’ come quando Zadie Smith parlando di Kilburn dice che è non gentrificata e non gentrificabile, questo è quello che io penso di determinate zone di Roma. Al Pigneto stesso ci sono sacche impermeabili, strade collaterali che non si conformano alla sua bonifica e omogeneizzazione e questo fa parte del tessuto della città, che si può rendere gentile fino a un certo punto. Vivendo all’estero mi rendo conto che un determinato stereotipo su Roma è ancora fortissimo, Sorrentino non ha aiutato. Io ho vissuto quasi sempre a Roma Est e mi faceva sorridere quando chiamavano via Casilina la Williamsburg d’Italia (come mi fa sorridere via di Torpignattara definita la Fifth Avenue di Islamabad). Sono accostamenti innocui, anche buffi, ma sembrano negare la dimensione totalmente unica di questi posti. È vero che Dalston è Williamsburg, ma c’è un grosso tasso d’ingenuità nell’affermare che il Pigneto è come Shoreditch. È una gentrificazione diversa, che gode dei pregi e dei difetti della sua caratteristica principale: c’è l’aspirazione, ma non ci sono i soldi».
Leggendo le sue storie, dagli esordi fino alle ultime produzioni, risalta una certa preferenza per il tempo passato e il periodo ipotetico, oltre a un fare letteratura che sfrutta il concetto dell’assenza come metodo.
«La scrittura è un metodo di conservazione, istruisce conservando. È come scrivere una lettera a qualcuno che hai amato tantissimo, vai a ricomporre gli elementi che hanno fatto parte della vostra storia e al tempo stesso la chiudi. La letteratura è più vicina all’essenza delle cose quanto più è lontana nel tempo. Roma come luogo letterario è più reale e sincera adesso che non ci sono più dentro».
Il suo nuovo libro Cleopatra va in prigione in uscita in autunno per Minimum Fax nasce dall’invito di un editor ad ampliare il racconto selezionato per l’antologia L’età della febbre. È stata la conseguenza di una sfida, la conferma di maturazione avvenuta per Claudia: «Non avrei mai pensato di scrivere una storia italiana prima di questa esperienza; una storia di periferia romana con personaggi al margine. Il rischio della retorica era fortissimo ed era una cosa che non risultava affatto nelle mie corde. Con la lontananza geografica dall’Italia mi sono messa in una posizione di privilegio perché scrivo nel ricordo. È la storia di una spogliarellista di Roma Est, legata a contesti di prigione e attività illegali. Il romanzo è cominciato a Roma l’anno scorso ma l’ho finito qui a Londra. C’era un momento, nelle mie prime storie, in cui avevo quasi terrore che delle vicende si risolvessero in modo costruttivo perché temevo di dare una consolazione al lettore. Il concetto di lieto fine non era percorribile: è vero che è difficile azzardare la parola felicità in un romanzo, ma questa difficoltà era diventato un mio limite, una trappola a livello di poetica. Se valuti l’ottanta percento delle nostre espressioni sono rivolte alla malinconia perché abbiamo paura o vergogna delle parole che esprimono uno stato di benessere».
«Ogni lingua appartiene a un luogo specifico – ha detto una volta la scrittrice Jhumpa Lahiri in un’intervista al The Guardian – questo linguaggio può emigrare, si può diffondere, ma resterà per sempre geograficamente legato a quel territorio». Il premio Pulitzer commentava l’uscita del libro In altre parole, scritto direttamente in italiano, una lingua che ha iniziato ad amare in seguito alla sua prima visita nel nostro Paese, nel 1994. Ribadisce anche più volte, nell’intervista, la condizione di esiliata nell’usare un linguaggio che non le appartiene dalla nascita, la sensazione di protezione data dalla maschera di un idioma che è più che altro un travestimento, una metamorfosi ovidiana. Claudia menziona l’autrice quando ci soffermiamo a parlare di linguaggio, ma per contrasto. Più che condizione di esilio, per lei perfettamente bilingue sembra che il passaggio dall’inglese all’italiano e viceversa costituisca un vero e proprio territorio, ibrido e tuttavia estremamente peculiare.
«Mi preoccupa sempre sapere quanto posso estendere la mia voce. La potenza della letteratura è farti emancipare dalla condizione fisica, geografica, dal vincolo. Per me ha sempre contato di più il concetto di limite e di confine, più che quello di luogo in sé.
Il linguaggio influisce nettamente sul punto di vista, ma al concetto di linguaggio ho sempre associato quello di libertà. Non sono una forte sperimentatrice, non assumo una posizione eretica rispetto al canone, ma ho sempre rivendicato il diritto di essere in più luoghi contemporaneamente. Mi stupisce perché vengo da anni di studi sociali sulla fluidità e sull’identità, concetti ampiamente sdoganati anche nel dibattito popolare, eppure mi sento ancora chiedere da dove vengo, o dire che sto scavalcando dei confini. Ma io rivendico il diritto ad abitare una lingua come di abitarne un’altra, di sporcare una lingua come un’altra: questo mi succede con le storie che scrivo in inglese. A volte quando scrivo in italiano escono fuori espressioni che assomigliano a dei calchi dall’inglese, ma non lo sono, è che io abito esattamente sul confine tra quelle due possibilità. Tra due lingue corrotte e corrette a vicenda».
Resilienza: viene fuori questo termine quando le chiedo di raccontarmi cosa ha imparato dell’Italia, a vederla da lontano. «Non è resistenza, non è arte di arrangiarti. È un piegarsi ma non spezzarsi. Almeno in Italia la povertà non è nascosta, qui in Inghilterra si vive in uno stato di fiction in cui viene costantemente rimossa».
Da New York a Londra passando per Roma, resta ancora forte il segno della provincia che ha accompagnato l’adolescenza di Claudia.
«Non c’è bisogno di romanticizzare la provincia, perché la maggior parte delle volte fa schifo, e il compiacimento del loserismo può essere una trappola narrativa. Non ti regala o restituisce niente che tu non abbia già, e se hai poche risorse può annichilirle. Nei casi migliori invece ti amplifica. Questo mi fa pensare a un’intervista che ho fatto anni fa alla cantante Ema. Lei è cresciuta in Idaho e mi disse che proprio l’adolescenza in un piccolo centro è stata la cosa più rilevante della sua vita. Vivendo in provincia ogni volta che arrivava un disco lo sovraccaricava di significato. Quando si è trasferita in città tutti i musicisti o artisti che ha iniziato a frequentare le hanno fatto notare la fortuna dell’aver ritardato il momento della malizia e della corruzione. Questa cosa mi ha fatto molta tenerezza. Io ho avuto l’esperienza bizzarra di passare dal centro del mondo, New York, a un paesino dove non c’era neanche MTV. Questo non ha comportato in me un apprezzamento della provincia o del piccolo centro, sarebbe ipocrita dirlo, non ci tornerei mai. Non c’è nulla di male a crescere in città, tuttavia crescere fuori ha fatto sì che io sviluppassi una forma che oggi è simile a una sorta di snobismo. Se sei fiducioso nella voce che hai, inizi a credi che tu possa permetterti di esprimerti senza appoggiarti a qualcuno, senza conoscere nessuno. Prima credevo fosse coraggio, oggi lo vedo a suo modo come un pensiero elitario. E arriva proprio dall’essere cresciuti in provincia, una formazione che ha qualcosa di romantico, è la parabola della self made woman. Vorrei leggere più racconti laici della provincia, cosa che invece si stenta a fare: si tende a rivestire tutto di una patina, la sofferenza che ha generato ti spinge a condannarla e l’esilio a romanticizzarla, ma non esiste niente di così puro. Crescere in un paesino dal pensiero bigotto non fa di te – che ti sei emancipato – un eroe rispetto a qualcuno che è cresciuto in città, ma magari in un quartiere di Roma o di Milano o di Napoli altrettanto provinciale. Le città sono fatte anche di pensieri chiusi, sono spesso un conglomerato di parrocchie, ogni metropoli ha le sue nicchie impermeabili e stratificate».
Con la parola nicchia il discorso prende inevitabilmente un’altra piega. In Italia, per esempio, una nicchia che può essere nociva alla produzione letteraria è quella dell’editoria stessa. Come giornalista e scrittrice Durastanti ha avuto parecchio a che fare con questo mondo prestando particolarmente attenzione a non affondare nelle sabbie mobili. La scena editoriale e le dinamiche del giornalismo culturale restano un mondo per il quale le parole sembrano fatte del rammarico: «Ha peggiorato nettamente il mio rapporto con la letteratura ed è per questo che ho smesso. Bisogna avere una forza di carattere che io non ho. Ho grandissima stima per chi riesce a gestirsi su più livelli, io non ci sono riuscita. Potevo essere una brava scrittrice di fiction e un’altrettanto valida scrittrice di non-fiction ma bisogna capire bene che tipo di non-fiction viene richiesta. Finché hai lo spazio e la possibilità di usare una voce letteraria è un conto, ma se il tuo pensiero deve diventare servizio, opinione, quello è giornalismo, è un’altra cosa, anche se c’è molta confusione su questo. Il mio compito è quello dell’ambiguità, dell’allusione, ed è un approccio che posso esercitare solo su un determinato ambito di cose. Bisognerebbe resistere alla vanità di quando ti viene richiesta un’opinione su fatti che non riguardano il tuo lavoro».
Claudia non si scompone mai nel racconto, che sia la storia di una vittoria o di una delusione è tutto parte di un’affabulazione che la mia intervistata padroneggia con un gusto particolare nella selezione di ogni parola.
Lo spazio dedicato all’intervista – le parole che ci siamo passate a vicenda – è stato così concentrato che non ci siamo neppure accorte che lo schermo davanti a noi è passato da tempo a scorrere le immagini del Dopofestival.
Esattezza, dunque. E rigore. Eppure un’energia creativa che fermenta, scalcia in ogni periodo ipotetico, in ciascuna subordinata, ciascun nesso logico. Penso che dal rifiuto del suo primo romanzo fino all’invito di scriverne un altro da parte dello stesso editor, Claudia Durastanti ha fatto molta strada. Un percorso di lavoro e automiglioramento che ha tutte le intenzioni di proseguire all’infinito nello sperimentare e nello sperimentarsi. Eppure resta in alcune pause un velo di nostalgia nel pensare a com’era scrivere quando tutto veniva fuori da sé.
«Il primo romanzo che ho scritto si chiamava Grace – mi racconta poco prima di salutarci – una delle cose migliori che ho scritto perché ero veramente disinibita. Non pensavo a un lettore, non pensavo ai critici, questo alla lunga è diventata una cosa da cui non posso più sottrarmi e credo si senta anche molto. Non che diventi disonesto, ma non sei più tu da solo. Sei tu insieme al critico o allo scrittore che stimi o al lettore forte che aveva detto che saresti potuto diventare questo o quello. La scrittura diventa una lotta tra quello che sei oggi e la scrittrice che sarai in futuro».
Foto di Marco Rapaccini (Officine Fotografiche Roma)