Incontro Ascanio Celestini a Civitavecchia in occasione della messa in scena del suo ultimo spettacolo, Laika, un testo duro ma soffice, sospeso in un limbo di finzione e realtà, sacro e profano. Uno spettacolo con il quale l’attore romano conferma ancora una volta la sua capacità narrativa e che nel favore del pubblico materializza il segno incontrovertibile di un progetto che diventa risultato. Ma oltre a essere un attore che sa mescolare generi e registri, tenendo peraltro dei ritmi serratissimi e giocando con mimiche ipnotiche, Celestini incarna anche l’idea dell’artista “normale”, della-porta-accanto, vicino a ognuno di noi. Un artista a tutto tondo, con le sue idee, ma del quale colpisce una disponibilità allo scambio dialettico del tutto priva di secondi fini. L’intervista che segue è il risultato di una piacevole chiacchierata svoltasi tra le poltrone rosse del teatro Traiano di Civitavecchia qualche minuto dopo la messa in scena di uno dei suoi lavori più originali e intensi.
Allora Ascanio, partiamo da Laika, che è nei teatri da un anno. Un lavoro che tra l’altro in origine doveva essere tutta un’altra cosa. È possibile che nel tempo lo spettacolo cambi?
Siamo in scena da un anno e sì, è possibile che con il tempo lo spettacolo muti, evolva, cambi faccia. Certo, non nella struttura principale, che è quella e non può essere diversa. Però sì, è possibile che tra una rappresentazione e l’altra mutino alcune cose. Ma questo dipende soprattutto dal mio modo di lavorare, che si basa sull’improvvisazione. Ci sono delle fasi, dei momenti in cui si innescano degli automatismi e vado a briglia sciolta, quasi in trance. Quindi alcuni aspetti dello spettacolo mutano eccome.
Laika è un lavoro a se stante, una storia compiuta?
No, è la prima parte di una trilogia. La seconda parte nella versione francese si chiamerà Spaesamento e debutterà a Liegi e a Parigi tra febbraio e marzo del 2017. In scena saremo in quattro, io, il mio musicista Gianluca Casadei, l’attrice francese Violette Pallaro e un traduttore in scena, Patrick Bebi. In Italia la seconda parte debutterà tra ottobre e novembre al Romaeuropa Festival. La terza si dovrebbe chiamare Africa ma ancora non ho scritto neanche una riga…
Quanta importanza ha il pubblico per il tuo teatro? Ne tieni conto, lo osservi nel corso dello spettacolo?
Il pubblico è importante ma dal punto di vista della fruizione dello spettacolo. Per quanto riguarda il mio lavoro sul palco, il pubblico non esiste. È come se chiudessi gli occhi e non vedessi nulla al di là del confine del palco. Quando sono in scena non mi metto lì ad ascoltare la platea, non serve; il mio spettacolo va avanti da solo, senza input esterni. Altrimenti si va da un’altra parte, nel cabaret.
Laika, un gioco di parole fra il nome della cagnetta spedita dai russi nello spazio e l’aggettivo che rimanda forse a una religione pagana, aconfessionale: perché questo titolo?
I russi non hanno mandato nello spazio un cane di razza. Il sacrificio fu fatto con una bastardina e questo mi aiutava, era un tirante rispetto al fatto che il personaggio dello spettacolo che poi nel finale è sacrificato, e per il quale si sacrificano gli altri, è un barbone.
Duettando con un Pietro che si palesa attraverso gli intermezzi musicali di Casadei e la voce fuori campo di Alba Rohrwacher, il tuo personaggio ricorda una specie di dio infedele, finto cieco, una sorta di Gesù che torna tra gli uomini ma che fatica a riconoscerli.
In realtà è un povero cristo, un poveraccio, c’è una frase che dice il personaggio quando nella mia testa era ancora una specie di Gesù Cristo ovvero «ma vuoi vedere che alla fine dio non esiste ed esisto solo io?» Ecco, questo è un po’ quello che penso io: non abbiamo nessun bisogno di dio, se anche esistesse sarebbe meglio che no, non lo facesse, voglio dire, se esistesse potrebbe anche provarne un pizzico di vergogna. Non c’è bisogno di dio, basta l’uomo.
Però forse c’è qualcosa di divino nell’uomo che rappresenti…
Per fortuna no. La forza dell’essere umano sta proprio nella sua debolezza. Non c’è il divino nei miei personaggi. Se tu cominci a pensare che la vita da sola non basta perché dopo c’è un’altra dimensione in un aldilà, che il mondo non basta da solo perché esistono il paradiso e l’inferno, che l’uomo per quanto straordinario possa essere in realtà una parte di qualche altra cosa che è il cosmo, l’universo fatto a immagine e somiglianza di dio, se pensiamo tutto questo significa che l’uomo da solo è poco. Invece il fatto straordinario dell’essere umano è che l’uomo da solo basta. Certo, è poco, ma oltre questo poco non c’è altro. Nell’uomo non c’è il divino, c’è qualcosa di divinamente umano nell’uomo, che è debole come un uomo, è vivo come un uomo, muore come un uomo, cammina come un uomo, si ammala come un uomo, soffre e prova dolore come un uomo, ama come un uomo, ma in definitiva è sempre e soltanto un uomo. Non manca nulla all’essere umano o meglio, gli manca molto, potrebbe essere molto meglio ma di certo non s’è perso niente per strada.
Nello spettacolo ricorre questa immagine di una volta celeste che dà la sensazione di abbassarsi pericolosamente e implodere. Un’immagine apocalittica ma che può risultare affascinante.
La volta celeste significa tante cose ma di certo non ha un significato univoco, neanche per me stesso. Questo dipende forse anche dal fatto che buona parte del mio lavoro nasce dall’improvvisazione e rimane anche nell’improvvisazione. Il testo di questo spettacolo in realtà non esiste. Per farti capire, ho scritto un testo, l’ho dato al traduttore francese, lui l’ha tradotto, poi è venuto a vedere lo spettacolo a Genova e mi fa «ma tu fai un altro spettacolo!». Non che io dica altre cose, quello che scrivo è una specie di riassunto, una sintesi, una traccia, per cui a me quello che interessa è che ci siano anche dei passaggi che non si capiscano, in primis da me, e che ognuno abbia le sue suggestioni. Se chiedi a un cantautore cosa significa la sua musica, il più delle volte risponderà che è musica. Anche la scrittura teatrale funziona in questo modo.
Il tuo modo di lavorare si basa spesso sull’indagine della realtà tramite interviste e raccolta di informazioni. È valso anche per Laika?
Sicuramente sì. Le storie del barbone, della prostituta, della donna con l’Alzheimer, sono tutti frammenti sui quali ho lavorato. Da tempo faccio interviste per raccogliere spunti e storie, soprattutto a questi facchini africani, eritrei ed etiopi, che vivono nelle case occupate e che lavorano nella logistica. Nello spettacolo si parla di loro.
Quali sono le zone che apprezzi di più della la tua città, Roma?
Ci sono due strade nelle quali adoro camminare, via Giulia e via delle Zoccolette. Nonostante siano quasi la stessa strada, nella prima si respira un’aria di modernità, via Giulia è una delle prime strade moderne dell’occidente, lì hai la sensazione di camminare in una città pensata e non in una città che è cresciuta per accumulo come tante altre zone di Roma. A pensarci bene è straordinario che Roma sia anche cresciuta per accumulo e sovrapposizioni perché le città di questo tipo crescono e si sviluppano attorno e insieme alle persone; le città invece “pensate”, “organizzate” sono il prodotto di progetti fatti a tavolino. Via Giulia è una delle strade più belle del centro di Roma; via delle Zoccolette, pur essendo la sua continuazione, è una strada diversa. Comunque parliamo di due vie con pochissimi esercizi commerciali, pochissimi negozi molto ricchi e baretti scalcinati. Questa è una Roma che a me piace molto ma che non frequento mai perché abito in periferia, fuori dal raccordo anulare per cui alla fine, la Roma mia è quella nella quale sono cresciuto: il Quadraro e Cinecittà. Il secondo film che ho fatto e che non ha visto quasi nessuno, Viva la sposa, è stato girato tutto lì, in un rettangolo di un chilometro e mezzo per settecento metri. Una zona che racconta la città intera, dove trovi l’occupazione, l’occupazione di sole donne, il quartiere disegnato e pensato dal grande architetto Adalberto Libera, insomma tutto, la sintesi del mondo. Il parroco di Lampedusa (Don Mimmo Zambito, ndc) dice spesso che Lampedusa è ovunque e in questa parte di Roma vale un po’ la stessa cosa. E questo è un concetto che deve essere sfuggito a chi ha pensato la globalizzazione, che qualsiasi parte e frammento contenga in sé tutta l’essenza del mondo. È un qualcosa che mi affascina e sono felice che ci sia anche a casa mia.
E la parte di Roma nella quale non ti riconosci?
Il volto di Roma che non mi piace è che si vive come dentro un formicaio, un labirinto; nessuno sa cosa succede dall’altra parte della strada. È la disgregazione della comunità che, sia chiaro, non è una prerogativa della grande città, purtroppo esiste anche nei piccoli centri, nelle famiglie. La comunità può sfaldarsi anche nel privato. Ci hanno convinto che tutto quello di cui abbiamo bisogno lo possiamo comprare, puoi avere una casa grande 300 metri quadrati ma non equivarrà mai alla città, alla comunità. Trump ha una casa di 5 mila metri quadrati o giù di lì ma, per quanto possa essere grande, non sarà mai come New York, l’Alaska, il mondo. Come dice una bellissima canzone anarchica, «la nostra patria è il mondo intero», ecco, allora meglio avere una casa piccola e passare tanto tempo fuori che avere una casa grande che diventa una gabbia.
Prima Brexit, poi Trump: è possibile che la globalizzazione sia arrivata al capolinea?
Assolutamente no. La globalizzazione è come il tumore. Trump è un ingranaggio del sistema, funzionale alle sue dinamiche di funzionamento. Se pensiamo che i leader, i personaggi visibili e conosciuti da tutti possano realmente cambiare il mondo, ci sbagliamo di grosso. Uno degli ultimi è morto oggi, Fidel Castro (l’intervista è del 25 novembre, ndc), e forse neanche lui ha cambiato il mondo così tanto, certo non l’ha peggiorato, forse l’ha anche migliorato, ma non è questo il problema. Credo che oggi chi realmente è in grado di mettere le mani nel mondo per rivoluzionarlo in senso umano sono persone che non conosciamo, persone che ci mettono il nome e la faccia, sono le comunità. Le comunità cambiano il mondo, non i singoli personaggi.
Domanda assassina: un romanzo, una canzone e un film dai quali hai imparato tanto.
Auto da fé di Elias Canetti perché, come mi disse un’amica nel consigliarmene la lettura, nelle prime cento pagine è un grande romanzo e dopo diventa qualcosa che oltrepassa la letteratura. È veramente straordinario. Io ho fatto così, leggendo la prima parte e intervallando con libri di Joseph Roth e Stefan Zweig. Poi l’ho terminato. La canzone che mi viene in mente è La domenica delle salme di Fabrizio De Andrè, non soltanto per la qualità del testo e della musica che in realtà è molto semplice, ma per l’idea che a un certo punto il cantato non basta più, anche se la voce è straordinaria. È una canzone per la quale si avverte il bisogno di “parlarla”. Per quanto riguarda i film, direi Pasolini, perché è stato molto importante per la mia formazione, ma cito anche i film dei fratelli Taviani. Penso a San Michele aveva un gallo ma mi viene in mente anche Diario di un maestro di Vittorio De Seta, che forse è molto più importante degli altri che ho citato. Comunque sì, è veramente una domanda criminale questa…
Che ne pensi della televisione? La guardi?
Ho due figli, un maschio di 10 anni e una bambina di 3, ma ormai in generale la televisione non si guarda più. Mio figlio guarda programmi per preadolescenti, mia figlia i cartoni animati, mio figlio però vede cose soprattutto attraverso YouTube. Personalmente non guardo la televisione. Ho amici che mi dicono di averla buttata, noi no, ne abbiamo quattro, tutte quasi sempre spente. L’unico programma per il quale credo valga ancora la pena accendere la televisione sono I Simpson.
Nel novembre del 2011 l’ex ministro della Difesa La Russa, dopo un tuo monologo nel corso di una trasmissione a La7, espresse il suo disappunto dandoti del coglione. Come ti sei sentito in quel momento?
Ricordo che quel giorno mia moglie e mio figlio mi aspettavano, assieme ad altre coppie con figli, a teatro per vedere Pierino e il lupo, per cui avevo fretta, dovevo raggiungerli. Quando La Russa prese la parola, da dietro mi esortavano a rispondere aprendo il microfono. Non c’ho pensato proprio, non aveva senso.
Finita l’èra Berlusconi, la satira ha perso parte della sua forza propulsiva?
Non penso. Sicuramente sta finendo la televisione come specchio, vero o fasullo, della società. Nel momento in cui non ci sono più soltanto Rai, Mediaset e La7 e poche altre emittenti, ma un quadro composito di tv-on-demand, a pagamento, generalista, specifica, quelli che parlano solo di cibo, quelli che parlano solo di casa da ristrutturare, ecco in quel momento la TV finisce di essere lo specchio della società. Più che uno specchio assomiglia a una casa degli specchi: entri e davanti non hai la tua faccia, ma tutti frammenti di te trasfigurati e irriconoscibili. È un gioco. Che poi questo riveli che anche quella fase lì era un gioco è un altro discorso. Però nessuno oggi parla più di quello che ha visto la sera prima in televisione. Da questo punto di vista la TV è esplosa ed è morta, ma per fortuna che è andata così, magari ci aiuterà ad andare verso una società che non si specchia più nella televisione ma soltanto in se stessa.
Eppure si continua a parlare molto di messaggi mediati e della forza che hanno sui cittadini-elettori. L’elezione di Trump per esempio, pare sia in parte dipesa anche dalla fiducia riposta in messaggi palesemente fasulli circolati sul web, le cosiddette bufale. Non a caso si parla di “post-verità”. Che ne pensi?
Da sempre è così. In Italia dopo gli anni Settanta abbiamo avuto due personaggi, Wojtyla e Pertini, che di fatto hanno segnato il cambiamento dell’attenzione e degli interessi della maggior parte degli italiani. In quel momento abbiamo smesso di guardare fuori dalla finestra o dalla porta di casa e abbiamo iniziato a guardare la televisione. Non voglio dare giudizi di merito rispetto a questi due personaggi, dico soltanto che a un certo punto abbiamo Pertini che va da Alfredino caduto nel pozzo, Pertini entusiasta in Spagna per la vittoria dei Mondiali, Wojtyla in giro per il mondo che parla tutte le lingue, Wojtyla che scia. Tutto ciò non lo abbiamo visto con i nostri occhi ma con gli occhi della televisione, dell’informazione. Quindi la post-verità esiste da un bel po’, non è una novità. Il problema è che la maggior parte delle persone ancora ci casca.
Che ne pensi del teatro dell’assurdo di Samuel Beckett?
Mi piace molto. Quando ero ragazzo mi sembrava molto buffo, solo che vedevo spettacoli in cui Beckett era trattato come una specie di alchimista. A me non dava la sensazione dell’alchimista, però, mi sembrava molto concreto. Il suo è un linguaggio che si asciuga così tanto che diventa essenziale, ma non è essenziale fino a diventare un giochino tra persone che parlano strano, è una cosa molto semplice, da cui è stato tolto tutto il superfluo. Non mi è mai sembrato fintamente intellettuale, piuttosto molto concreto, reale. E dopo anni che vedevo rappresentati testi beckettiani in cui si giocava a non farsi capire, quando per la prima volta ho visto Carlo Cecchi in Finale di partita, mi sono divertito, sono tornato a casa e via di corsa a rileggerlo perché pensavo che avesse cambiato il testo e invece no, l’unica cosa che era cambiata era che a un certo punto anziché «dagli un biscotto» aveva inserito «dagli un Oro Saiwa…» che poi chissà, magari l’ha detto soltanto quella sera…
Che idea ti sei fatto del Nobel dato a Bob Dylan?
Sono contento perché la letteratura non è quella di chi scrive soltanto libri. La letteratura è anche oralità, quindi non vedo nessun problema nel riconoscimento a Bob Dylan. Sono felice per Bob Dylan ma non mi stupisce per niente. Se non è un letterato lui…
L’ultimo spunto di riflessione ce lo offre Thomas Bernhard, che in un passaggio di Perturbamento scrive: «In effetti il mondo è un palcoscenico sperimentale su cui si prova in continuazione. Dovunque guardiamo, vi è un continuo imparare a parlare, a camminare, a pensare, a recitare a memoria, a ingannare, a morire, a essere morti, tutto il nostro tempo se ne va in questo. Gli uomini non sono altro che attori che vogliono presentarci qualcosa che già conosciamo. Tutti imparano una parte (…) Ognuno di noi impara continuamente una parte (la sua) o più parti, oppure tutte le parti possibili e immaginabili, senza sapere perché (o per chi) le stia imparando. Questo palcoscenico sperimentale è uno strazio unico e quello che vi si recita non diverte nessuno. Su questo palcoscenico tutto avviene però con grande naturalezza. Ma si cerca sempre un drammaturgo. Quando si alza il sipario, lo spettacolo è finito (…) La vita è una scuola, nella quale si insegna la morte.»
Be’, magari, se fosse così staremmo già un passo avanti. Siamo circondati dalla morte, è ovunque: omicidi, bombardamenti, assassini, violenze, pubbliche e private, ma nel complesso si tratta di una morte finta, rappresentata, mediata perché ci viene narrata. Questa morte non ci appartiene. Per tanti che sono venuti prima di noi, i nostri nonni e le nostre nonne, la morte era qualcosa di molto più prossimo, abituale e concreto. Per noi la morte è invece talmente mediata, indiretta che non la conosciamo affatto. Quindi, per tornare a Bernhard, non penso che la vita sia un percorso durante il quale impariamo a capire cosa sia la morte. Anzi, è un po’ il contrario, un percorso durante il quale facciamo il possibile per dimenticare cos’è la morte. Quel poco che sappiamo è meglio dimenticarlo, ma non per un fine apotropaico, per allontanarla da noi. Dimentichiamo la morte per cancellarla definitivamente. Penso agli sforzi che si fanno per combattere gli anni che passano: tutto ciò è tremendo perché, ciononostante, le persone continuano a morire. Il fatto che l’età media si sia alzata non significa che l’ottantenne non muoia, muore lo stesso, però arriviamo alla morte sempre più impreparati. Viviamo con l’illusione che la vita sia una finzione, poi a un certo punto si ammala una persona a noi vicina e allora tutto ridiventa concreto e vero. Ma dura un attimo perché subito ci si inventa una serie di stratagemmi per fare in modo che anche quello, la morte, rientri nel gioco. Ma alla fine questo gioco non può funzionare. Bisognerebbe rendersi conto che nel gioco probabilmente non esistono regole.
Illustrazione a cura di Angelo Montanari