«I tempi erano fertili per gli stravolgimenti» — Intervista con Gabriele Merlini
Sul finire dei suoi primi dieci anni, qui compiamo una piccola rivoluzione, abbandonando il nostro formato classico – quello del magazine culturale a cadenza vagamente quotidiana – per presentare ogni mese un solo saggio e un solo racconto. Da queste pagine 24 autori ogni anno proporranno il loro filtro sul reale, manipolando inevitabilmente la personalità di Dude mag: ed è una cosa che ci rende enormemente curiosi.
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«I tempi erano fertili per gli stravolgimenti» — Intervista con Gabriele Merlini

Del libro abbiamo parlato con l’autore, GabrieDel libro abbiamo parlato con l’autore, Gabriele Merlini, scrittore e giornalista culturale (tra una domanda e l’altra, una playlist curata dall’intervistato).

No music on weekends. Storia di parte della new wave di Gabriele Merlini è un libro che si muove al confine tra il saggio, il diario e la narrativa, dove la dimensione storica e documentaria si mescola al ricordo e alla descrizione di luoghi e personaggi fondamentali nella prospettiva del racconto. Del resto è un libro dei “Saggi Pop” di effequ, una collana che punta su una saggistica la cui esattezza nella scrittura e nell’approfondimento di determinati argomenti va di pari passo a un atteggiamento lontano da ogni forma di ampollosa pedanteria (e qui su Dude Mag abbiamo parlato di un bel libro collettivo dell’anno scorso, Nerdopoli). Una prosa, quella di Merlini, che punta dunque su un agile miscuglio, sulla capacità di oscillare senza stonature tra varie possibilità stilistiche, in linea con l’oggetto del libro, la new wave, una tendenza musicale sotto la quale si muovono gruppi e musicisti diversi tra loro, attivi negli stessi anni e ognuno pronto a rispondere a suo modo al clima culturale di quel periodo (il titolo stesso cita esplicitamente i Talking Heads).

Il segmento temporale preso in esame va dalla fine del decennio Settanta alla metà degli Ottanta, anni in cui sono in atto importanti transizioni, in cui l’impegno politico, dopo una stagione molto calda, va ridimensionandosi moltissimo. Lo sguardo di Merlini si focalizza su esperienze lontane nello spazio e nella forma, da Bologna e Firenze (con i Gaznevada, i Diaframma o i Litfiba, per dirne alcuni) al più noto mondo inglese e statunitense (più noto a chi ha una conoscenza solo parziale della questione), andando oltre l’aspetto musicale per entrare nelle dinamiche storiche e raccontare le vicende di quelle persone che direttamente hanno partecipato e dato una direzione precisa agli eventi. «La definiscono new wave e merita attenzioni. Distante anni luce dalle ballate acustiche degli stegosauri che ruminavano sotto i vulcani dei Sessanta, è meno grezza del punk ma ne succhia la forza dissacrante aggiungendoci sostanziali dosi di ricercatezza. Si fonde con la videoarte e gli atelier alla moda. Con il cinema e la danza». E gli aneddoti, i racconti, le scoperte fatte procedono insieme ai ricordi, alle riflessioni, alla dimensione personale che si allaccia al discorso più grande, non senza una punta di ironia («la new wave è stata una versione più cerebrale del post-punk, o soltanto ciò che ne ha fatto seguito con differenti gradazioni di colore? “Alcune volte, tesoro, sei davvero troppo complicato”»).

No music on weekends, per questo suo eclettismo che gli impedisce di essere bloccato sotto facili etichette o sotto formule predefinite, può essere letto a più livelli: resta inalterata in ogni pagina quella energia che spinge il lettore a mettersi a sua volta sulle tracce della new wave, a riascoltare musiche abbandonate nel passato o a scoprire qualcosa di nuovo, instaurando un dialogo con una stagione che, nonostante gli anni trascorsi, ha ancora molto da dire.

 

Del libro abbiamo parlato con l’autore, Gabriele Merlini, scrittore e giornalista culturale, che presso effequ aveva già pubblicato il romanzo Válecky o guida sentimentale alla mitteleuropa e curato le antologie Selezione Naturale e Odi. Quindici declinazioni di un sentimento (tra una domanda e l’altra, una playlist curata dall’intervistato n.d.r.).

 

Cominciamo con la domanda più banale: da dove nasce questo libro?

L’idea di un libro sulla musica, o meglio di un testo che avesse la musica come asse portante attorno al quale avrei potuto un po’ gironzolare, la covavo da un pezzo. Dopotutto si tratta di una passione che risale alla mia prima infanzia e negli anni quasi l’interezza delle cose che ho scritto hanno sfiorato più o meno direttamente il tema. Viceversa lo specifico del genere, la new wave e il cosiddetto post-punk, è stata quasi una imposizione anagrafica: desiderando unire il macro-tema musicale con l’idea di ricordo, di vissuto personale e le metodologie attraverso le quali metabolizziamo il passato, ho pensato fosse inevitabile ricadere sul movimento coevo alla mia nascita. Sono del 1978 e il lavoro principale l’ho fatto cucendo assieme frammenti di memoria che riguardavano gente strana per strada, il fermento della mia città in quel momento (Firenze: luogo centrale sotto numerosi aspetti) e le sensazioni che la faccenda mi restituiva. Come prevedibile, ho scoperto un mucchio di cose.

C’è un dettaglio nel titolo che mi ha incuriosito: quel “di parte”. Come mai hai voluto sottolineare questo carattere di parzialità della tua storia? 

Penso sia connesso alla natura del testo che è rapportabile al saggio, ma con un forte impianto narrativo. La new wave, il punk che evolve e allarga i confini, la porosità dell’arte in quelle fasi di transizione (dai Settanta agli Ottanta, visioni di mondo assai diverse) necessitavano per me commistioni di stili ed eterogeneità. La parzialità del sottotitolo funziona da avvertimento: scrivo di musica e lo faccio aggrappandomi a dati e numeri, ma partendo da singole storie, un reportage mescolato alla fiction che per definizione tende ad essere piuttosto parziale.

La particolarità del libro infatti non sta solo nel racconto ma anche nella scrittura. Non lo definirei un saggio nel senso stretto del termine: è saggio, sì, ma è racconto di viaggio, autobiografia, persino romanzo in un certo senso. 

Lo stile è quasi tutto, almeno dal mio punto di vista, e sono felice quando ci si sofferma sulla scrittura. Per me è un omaggio, soprattutto (o amorevole furto.) Nelle sezioni più nozionistiche ho provato a ricalcare il metodo e lo stilema dei giornalisti musicali sui quali mi sono formato, mentre i capitoli narrativi contengono ciò che più amo nei romanzi: dialoghi serrati, interni familiari, spostamenti, flusso di coscienza. Parecchi sono autori anglosassoni e stavano benone con le sezioni americane e inglesi. Messa così suona come un minestrone; l’augurio è che sia riuscito a dare all’insieme un qualche equilibrio. Del resto mi divertiva l’idea di provarci anche a costo di sbatterci il muso. 

Da un lato la scena italiana, dall’altro quelle inglesi e statunitensi; l’arco temporale va dalla fine degli anni Settanta alla metà degli Ottanta. Oltre che il contesto musicale è decisivo quello storico: attraverso la new wave si rivive uno snodo tanto interessante quanto eterogeneo, in cui l’ingresso di nuove politiche andava di pari passo a un ridimensionamento dell’impegno. Quanto, di quel periodo, pensi che sia arrivato fino ai giorni nostri?

Difficile da dire. Mi auguro possa arrivare il messaggio che il reale è impossibile da incanalare e ficcare dentro comparti stagni, dunque inevitabilmente siamo destinati a mescolarci, ibridarci e nella creatività unire faccende all’apparenza inconciliabili: so che potrebbe suonare banale ma è importante ricordarlo. Tante esperienze di cui scrivo poggiavano su simili approcci. Purtroppo viviamo tempi nei quali hanno un decoroso successo messaggi di rigidità e nettezza; lavorando sul libro ho incontrato storie di apertura che dovrebbero essere attuali. Poi, come dicevi tu, i tempi erano fertili per gli stravolgimenti. Caratteristiche sociali, economiche e relazionali nei Settanta non le potevi replicare negli Ottanta; l’iper-politicizzazione del 1977 ha poco da spartire con l’edonismo del 1985 e naturalmente la musica ne ha risentito. Sia quella più frivola che le sacche impegnatissime, mondi non così distanti come si potrebbe pensare. Con ovvie differenze regionali ho provato a descriverlo non solo per l’Italia ma anche per USA e UK, latitudini imprescindibili nel settore.

Leggere No music on weekends è stato stimolante perché mi ha spinto non solo a ritornare su gruppi che ho frequentato in passato ma anche a scoprirne di nuovi (ed è un aspetto non secondario). Ma di questo fenomeno incredibilmente complesso come la new wave cosa ti attrae?

Partendo dall’inizio, sono sempre molto contento quando mi arrivano notizie di questo tipo: leggendo il libro ho scoperto artisti e band che non conoscevo. La vivo come una cosa davvero gratificante perché è capitato lo stesso anche a me scrivendolo. Circa la new wave, mi piace il fatto che sia un genere tanto disomogeneo che è assurdo definirlo tale. Il fatto che alcuni degli stilemi più caratterizzanti continuino a essere riproposti da gruppi attuali e quanto sia stata, più che un metodo di composizione o esecuzione, un modo di vedere il mondo. Dissacrante, ironico, provocatorio, cazzone e serissimo. Se ci pensi, molto pratico.

Massimo Castiglioni
È nato a Roma nel 1988. Collabora con diverse riviste occupandosi prevalentemente di letteratura e cinema.
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