«L’idea di umanità sta entrando in una grossa fase di ridefinizione» — Intervista con Gianluca Didino
Sul finire dei suoi primi dieci anni, qui compiamo una piccola rivoluzione, abbandonando il nostro formato classico – quello del magazine culturale a cadenza vagamente quotidiana – per presentare ogni mese un solo saggio e un solo racconto. Da queste pagine 24 autori ogni anno proporranno il loro filtro sul reale, manipolando inevitabilmente la personalità di Dude mag: ed è una cosa che ci rende enormemente curiosi.
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«L’idea di umanità sta entrando in una grossa fase di ridefinizione» — Intervista con Gianluca Didino

«Osservavo tutti questi eventi come in sogno, continuando a ripetermi una domanda: tutto questo sta capitando davvero?».

Nelle ultime Classifiche di qualità dell’Indiscreto, riguardanti il lungo segmento che va da febbraio a settembre, il primo posto nella sezione saggistica se lo è aggiudicato, con grande merito, Essere senza casa. Sulla condizione di vivere in tempi strani di Gianluca Didino (minimum fax), che al di là delle divisioni per genere o tipologia si è senza dubbio imposto come uno dei libri italiani più interessanti del 2020 (probabilmente anche per il suo carattere internazionale, per il rimando a pensatori e tendenze ancora non così diffusi nel nostro paese). È il primo libro di questo autore: elaborato, in parte, da una ripresa e da una integrazione di alcuni testi pubblicati su riviste e dedicati a diversi temi che si intrecciano e si riuniscono in un disegno coerente e ordinato.

Cosa si intende per “essere senza casa”? Si tratta di una condizione piuttosto comune e diffusa in questi anni, partendo dalla quale viene sviluppato un discorso che si ramifica in molteplici direzioni ma che non perde mai di vista un concetto nel quale è facilissimo imbattersi: il weird. Questa parola pare necessaria per definire la fase storica in cui viviamo: siamo testimoni, a livello politico e culturale, di un mondo che diventa sempre più “strano” (virgolette necessarie, trattandosi di una traduzione forse approssimativa): la Brexit (che Didino, vivendo in Inghilterra, ha seguito con sguardo partecipe), le violentissime stragi terroristiche, l’invadente presenza dei fantasmi di internet e dei social network o l’elezione, quattro anni fa, a presidente degli Stati Uniti di un individuo come Donald Trump sono solo alcuni degli esempi utilizzati per mettere a fuoco una realtà che si trasforma in qualcosa di molto difficile da definire e sempre più ostile all’uomo: «Osservavo tutti questi eventi come in sogno, continuando a ripetermi una domanda: tutto questo sta capitando davvero?». “Essere senza casa” ha una duplice valenza quindi, letterale e metaforica: nella prima accezione allude a una difficoltà oggettiva delle generazioni più giovani di poter mettere radici in una casa che possa accoglierli definitivamente, allude alla necessità di stare in continuo movimento, di spostarsi da un posto a un altro, da una città a un’altra, e alle problematiche economiche di un simile regime di vita; nella seconda, più affascinante, la casa è metafora della protezione, del rifugio rispetto a un ambiente esterno oscuro che potrebbe nascondere minacce indicibili. Questo rifugio sta venendo meno perché il nostro mondo assume connotati spaventosi e privi di senso, vanificando la possibilità del riparo. Un mondo non così lontano dal collasso climatico, massacrato da fenomeni inquietanti come quelli di cui sopra, può solo che rivelare la sua mostruosa ostilità verso l’uomo. «Questo mondo minaccia sempre di demondificarsi, e i muri delle case al suo interno non sono più abbastanza solidi per difenderci dai mostri che vengono dall’esterno. Quelli di “mondo” e di “esterno” sono concetti fondamentali per comprendere il significato dell’essere senza casa».

Ci avviciniamo a una dimensione postumana a cui partecipano diverse situazioni. Il contatto con l’esterno, con quelle stranezze contemporanee che rendono impossibile l’idea di stare al sicuro, è inevitabile. La nostra esistenza, da un certo punto di vista, è allora più vicina alle dinamiche della letteratura fantastica e fantascientifica di qualsiasi altra generazione precedente. E non a caso, Didino insiste molto su un linguaggio e su temi riconducibili al fantastico. Lo stesso concetto di weird viene oggi utilizzato per identificare esperienze artistiche a cui forse lo statuto di “fantastico” va ormai troppo stretto (e il nume tutelare, non solo per questi argomenti, è Mark Fisher, specie quello di The weird and the eerie, per la cui edizione italiana, sempre minimum fax, Didino scrisse una preziosa postfazione); inoltre il porsi in una condizione di precarietà esistenziale e la metafora di un confronto con un esterno oscuro e minaccioso (si vedano le pagine finali dell’Introduzione) non possono non far pensare a un immaginario fantastico di stampo horror, dove l’evidenza di cose strane (o ontologicamente non umane, come in Lovecraft) destabilizza la presenza dell’uomo sulla terra.

Sottolineare la dialettica inquietante tra la casa e ciò che è fuori spinge a riflettere sul significato della soglia. Il confine tra questi due poli, tra la sicurezza interna e la pericolosità di ciò che si nasconde nelle ombre esterne, non è così rigido come sembra. La letteratura e il cinema vengono in aiuto. Un ottimo film horror come Hereditary di Ari Aster (di cui è ricordata la sequenza iniziale, in cui il modellino di una casa — uno di quelli su cui lavora la protagonista — viene ripreso sempre più da vicino, fino a inquadrare l’interno di una camera da letto in cui una persona si sveglia, dando così inizio al film e alla tristissima vicenda familiare che racconta) è incentrato sul superamento del confine, perché i malcapitati protagonisti sono manipolati da forze malvagie che riescono a insidiarsi nelle mura domestiche (e la manipolazione — per via di una figura sempre assente nel film, ma presente; interna ma pericolosamente esterna — era iniziata molto prima degli eventi narrati; si perdoni il vago spoiler). Qui, dal weird, passiamo al termine contiguo di eerie, quella sensazione avvertita quando c’è qualcosa dove non dovrebbe esserci, o quando non c’è qualcosa dove dovrebbe esserci (ancora Mark Fisher). E il punto sta nell’instabilità assunta dal luogo che più di ogni altro dovrebbe essere garante di sicurezza e nel fatto che il pericolo può materializzarsi in qualsiasi spazio o momento della banalità quotidiana.

Parlando di terrorismo, Didino ricorda come le atrocità di certi attentati (tipo quello al Bataclan di Parigi) siano particolarmente impressionanti perché avvengono nelle situazioni più semplici della nostra vita ordinaria. E oltre che dalla constatazione che quei ragazzi colpiti sono simili a noi, un maggior grado di disturbo viene dal notare che anche gli attentatori non sono poi così diversi da noi, parlano le nostre stesse lingue, o i dialetti che siamo abituati ad ascoltare: «Guardando il video (fortunatamente redatto) della decapitazione di James Foley sulla Bbc, una collega mi ha detto “he sounds like home”, “ha l’accento di casa”. Non avrebbe potuto cogliere meglio il disagio che quel video ci aveva provocato».

Seguendo un percorso indicato da altri pensatori (Slavoj Žižek, Byung-Chul Han o i filosofi del realismo speculativo), Didino si schiera quindi a favore di una definizione della nostra epoca come “ipermoderna”, in opposizione alla precedente “postmoderna”, duramente colpita, simbolicamente, dall’11 settembre. Dopo le Torri Gemelle abbiamo iniziato a fare i conti con una realtà “ipermediata”, presa d’assalto e deformata dagli inarrestabili sviluppi in campo tecnologico, con le nuove scoperte che da strumenti nelle mani degli utenti assumono il ruolo di soggetti in grado di incidere gravemente sull’esistenza umana: «Mentre internet si diffondeva rapidamente grazie ai dispositivi mobili, progressi senza precedenti venivano compiuti nel campo dell’intelligenza artificiale, mostrando come ad attenderci fuori dal postmoderno ci fosse un mondo sempre più postumano. […] Per quanto una descrizione più organica debba ancora essere tentata, una delle caratteristiche fondamentali della nuova epoca è sicuramente l’accelerazione delle tendenze della modernità ad ampio spettro, come se dopo la “parentesi” antiprogressista del postmoderno la spinta verso il futuro avesse ripreso la propria corsa a una velocità raddoppiata. Con la differenza che il progresso ipermoderno è ormai spogliato dell’idealismo umanista ancora ben presente nell’orizzonte scientifico e politico novecentesco: entrata nel territorio del postumano, la corsa al futuro viene accelerata al punto dell’allucinazione o della distopia».

E così lontani da una dimensione distopia non lo siamo, ormai sarà chiaro. Nel capitolo Paesaggi l’autore ricorda un viaggio a Kiruna, nella Svezia settentrionale, una città che si trova accanto alla più grande miniera di materiali ferrosi d’Europa e che, stando a una delibera del 2004, dovrà essere spostata di tre chilometri verso est a causa del rischio di subsidenza imposto dalla presenza della miniera (ovvero il pericolo che la città sprofondi nel terreno). In base al piano, il trasferimento sarà completato nel 2100, ma già all’altezza del 2030 si prevede che migliaia di case saranno trasferite nel nuovo comune. Nel periodo del viaggio a Kiruna, estate 2016, i lavori per questo nuovo sito urbano erano in costruzione. Le case di Kiruna saranno comprate dallo Stato e demolite, mentre i cittadini si sposteranno nelle nuove abitazioni; gli edifici di interesse culturale (tipo la chiesa), invece, saranno semplicemente smontati e rimontati nella nuova città pezzo per pezzo. È una situazione che assomiglia, in maniera tragicomica, al finale di una puntata dei Simpson, quella in cui Springfield viene materialmente spostata a causa della troppa immondizia accumulata nel sottosuolo da Homer nelle vesti di commissario della nettezza urbana, ma è pura realtà, una realtà artificiale naturalmente, weird, che porta con sé i segni tangibili dell’ipermodernità: «L’aspetto curioso e un po’ inquietante, insomma, non era la perdita della casa in sé, un’esperienza che investe milioni di persone nei paesi in via di sviluppo ogni volta che uno tsunami o un terremoto spazzano via intere aree urbane nell’Oceano Indiano o in Polinesia, ma il carattere completamente artificiale di questa perdita. Quel panorama all’apparenza selvaggio era stato in realtà tanto profondamente manipolato dall’uomo da richiedere un’ulteriore manipolazione, ancora più profonda, per continuare a rendere possibile la vita. C’era qualcosa di estremo, di tipico dell’epoca ipermoderna, in tutto questo».

E di esempi se ne potrebbero fare molti altri. Il libro mescola sapientemente esperienze personali a riflessioni critiche che toccano diversi ambiti, e lo fa con una chiarezza e un’agilità davvero ammirevoli, senza abbandonarsi a un pessimismo assoluto. Per quanto Essere senza casa sia pieno di amare constatazioni sulla stranissima fase storica in cui ci troviamo a vivere, non dimentica che proprio dalle consapevolezze acquisite fin da ora è possibile ripensare un mondo diverso. Siamo già ampiamente sprofondati nella weirdness dell’ipermodernità, vero, ma almeno ora ne siamo consapevoli, e per quanto strane saranno le cose a venire, quanto meno qualcuno ha già iniziato a mappare questo mondo così difficile.

Con Gianluca abbiamo chiacchierato del suo libro, tra letteratura fantastica, cinema, spettri digitali e molto altro.

Quando ha preso forma, nella tua mente, l’idea di raccogliere i tuoi scritti in questo libro?

Guarda, inizialmente il libro era un’altra cosa: gli articoli erano gli stessi ma il trait d’union era la fine del mondo. Poi quel libro ha avuto un percorso editoriale problematico, senza dubbio per colpa mia, è stato scritto più volte e non ero mai soddisfatto. Insomma, quando la cosa ha iniziato a prender forma per me, il discorso sulla fine del mondo mi sembrava ormai scontato, o comunque troppo calato nel mainstream. Quel libro, quindi, l’ho lasciato, ho preso una pausa e poi ho assemblato gli stessi materiali materiali in maniera nuova utilizzando la chiave di lettura della casa, che mi è venuta in seguito alla Brexit, come spiego nell’introduzione. Stessi argomenti ma il taglio era un po’ diverso.

Quindi sei passato dal macrocosmo della fine del mondo al microcosmo della casa.

Sì, diciamo di sì. Questa chiave di lettura della casa mi sembra più potente e più concreta.

La casa ha sia un significato letterale (il problema della casa, del mettere radici) sia un significato metaforico: la casa, intesa come riparo, è presa sempre più d’assalto e messa a repentaglio. Questa condizione tu la identifichi come un tratto del mondo contemporaneo, “ipermoderno”. Come mai proprio la scelta della casa? 

Scrivere è un po’ il mio modo di capire le cose: quando scrivo articoli, lo faccio soprattutto per esplorare. Quando ho pensato di scrivere questo libro, o quanto meno quando ho scritto i suoi contenuti, cercavo di spiegare soprattutto a me stesso cosa stesse capitando intorno a me. Avevo l’impressione, come penso molti altri, che il mondo stesse diventando ingovernabile. Qualcuno ha detto che ciò che ho cercato di fare è stato esprimere una sensazione in maniera saggistica, e in effetti è abbastanza vero. Lavorando su questo mi sono poi reso conto che tutti gli argomenti che io reputavo inquietanti, o strani, e che mi stavano capitando intorno avevano in qualche maniera a che fare con la casa. Fondamentale, poi, è stato Fisher con il suo discorso sul weird e il perturbante, che in inglese è l’un-homely, il “non-casalingo”: questa associazione ha fatto scattare la scintilla e mi ha spinto a considerare che tutti questi eventi hanno a che fare con la casa, tanto quelli personali che quelli storici.

Il parlare di casa implica il parlare di soglia, di interno ed esterno. È affascinante, ed è un discorso che ci porta direttamente nel territorio del fantastico, o del weird. Abbiamo un interno e un esterno che lo minaccia. Tu parli di un film horror come Hereditary di Ari Aster, dove è ben presente il problema dell’agentività, con forze esterne pericolose che controllano i protagonisti e anche un personaggio che agisce, in assenza, sia all’interno che all’esterno. 

Per rimanere alla letteratura fantastica un esempio che faccio spesso per spiegare questo punto è quello dei fantasmi. Le storie dei fantasmi di epoca vittoriana erano un modo di parlare di fantasmi interiori prima della nascita della psicanalisi, i mostri venivano dall’interno delle persone. Nelle storie di case infestate, ad esempio, i fantasmi stavano già nella casa. Oggi, invece, ritorna con insistenza il topos di personaggi che sono posseduti da entità che vengono dall’esterno, in qualche modo assistiamo a una esternalizzazione dell’inconscio. Si potrebbe fare un discorso lacaniano e dire che dal simbolico si passa al reale, se vuoi. Questo esterno che penetra nell’interno è un tratto saliente del presente. Una cosa che non c’è nel libro, ma avrebbe dovuto esserci, è questa: mi è stato fatto notare che uno dei generi horror che ha avuto maggiore successo negli ultimi dieci anni è quello dell’home invasion, film basati sull’idea che qualcuno venga da fuori ed entri in casa (Noi di Jordan Peele, per esempio).

È interessante come certi agenti possano avere un ruolo un po’ ambiguo. La nonna di Hereditary per esempio. Oppure in It Follows la creatura è un’entità esterna in grado di assumere anche i tratti di una persona conosciuta e che, potenzialmente, potrebbe essere chiunque.

Sì be’, in fondo sono categorie, è chiaro che l’interno e l’esterno sono sempre la stessa cosa (siamo pur sempre chiusi nella nostra mente, no?). Però diverse epoche decidono di enfatizzare un polo piuttosto che l’altro. Ci sono stati diversi periodi della storia culturale in cui questa idea della possessione si è sentita molto, credo abbia anche a che fare con momenti di spiccata accelerazione tecnologica. Pensa negli anni Cinquanta, per dire, con l’ansia dell’invasione degli ultracorpi e del controllo remoto.

Torniamo un attimo al fantastico ottocentesco e a un personaggio che tu nomini: la Creatura di Frankenstein. L’invenzione di Mary Shelley è una grande novità: se i fantasmi erano simboli di una parte rimossa dell’inconscio, o se, ad esempio, Dracula è un non morto, e quindi qualcosa che ha ancora un legame con l’umano, la Creatura è un non umano, ma non un non morto. È costruito da pezzi di diversa origine e può essere letto come un ponte tra un fantastico che è ancora legato ai residui umani ma che si confronta con il non umano o con l’antiumano, con qualcosa che si vedrà nel Novecento con Lovecraft, per dire.

Direi di sì. Frankenstein è un grande snodo nella storia della letteratura e delle moderne concezioni di tecnologia, weirdness, genere e molti altri temi. Il romanzo parla ovviamente di maternità, ma anche del rapporto tra uomo e scienza, del confine perturbante tra la vita e la non vita. Oggi forse quel romanzo ci fa pensare soprattutto al contatto coi materiali inorganici, all’idea di soglia, all’eeriess fisheriana (il mostro è vivo o no? Ha una sua agentività? E da cosa è mosso?). Solleva domande diverse rispetto a duecento anni fa, forse, ma a distanza di tanto tempo rimane una metafora potente.

Illustrazione dall’edizione del 1831 di Frankenstein.

Al giorno d’oggi, da Frankenstein possiamo passare direttamente alla commistione tra uomo e tecnologia. Tu approfondisci questo aspetto sviluppando un discorso che verte sull’eros. Pensando agli sviluppi tecnologici che sono finalizzati al miglioramento tecnico (si parla di Oscar Pistorius), tipici della nostra ipermodernità, si può arrivare anche a considerare una decadenza dell’eros. Tu scrivi: «il weird è un ingresso nel territorio dell’Altro in un epoca, come quella ipermoderna, segnata dalla crisi dell’eros».

L’aspetto che interessava a me deriva dal fatto che la commistione tra macchina e umano è stata vista negli anni Settanta e Ottanta come mezzo di liberazione del desiderio, pensa ad esempio al cyborg di Donna Haraway. Blade Runner è un grosso esempio di come queste macchine tecnologicamente avanzate fossero macchine desideranti. Oggi questa dimensione desiderante delle macchine umane mi sembra entrata in crisi. Ora che siamo dei cyborg a tutti gli effetti — dato che siamo continuamente messi in rete e siamo tecnologicamente accelerati a tutti gli effetti — non utilizziamo le macchine per espandere il desiderio. Ci hanno reso solo più meccanici, più efficienti e più inquadrati dentro il sistema produttivo. Questo cambio di paradigma si vede bene quando si vanno a leggere i programmi dei transumanisti: si capisce che non vogliono migliorare la vita ma solo migliorare lo spettro delle prestazioni, o più banalmente ancora sconfiggere la morte. La vita deve essere semplicemente preservata, potremmo dire con Agamben che dalla “buona vita” il focus si è spostato sulla “nuda vita” Ma, in maniera forse più inquietante, potremmo anche richiamarci alla distinzione fatta da Freud tra principio di piacere e pulsione di morte. Prima che di tendere al desiderio si va verso il ridurre gli stimoli, preservare la nuda vita. Questo è un tema enorme di cui non mi sembra si parli quanto si dovrebbe.

Aumentare le prestazioni, o uploadare la coscienza: è interessante come un’evoluzione tecnologica scriteriata e senza limiti, che tende ad annullare l’idea di morte, arrivi a colpire l’eros, ovvero ciò che porta alla riproduzione dell’umanità. L’eros implica l’altro; questa tecnologia sembra riportare tutto su se stessi, come guardarsi in uno specchio che riflette all’infinito.

Credo sia assolutamente come dici tu. Se ci pensi bene, quanti strumenti che utilizziamo quotidianamente rendono la nostra vita più piacevole? Non è che Facebook o Word rendano la nostra vita più piacevole, no? La rendono solo più efficiente. La tecnologia ci sta sicuramente portando verso qualcosa, ma dovremmo chiederci se questo qualcosa è davvero desiderabile.

E a proposito di morte o presunta sconfitta della morte, nel capitolo Fantasmi parli degli account commemorativi di Facebook, ovvero di quegli account di persone che non ci sono più ma che in qualche maniera sono mantenuti attivi. Internet sembra dare l’illusione di proiettarsi all’infinito ma, appunto, è solo un’illusione: resta solo un residuo, un fantasma. È un’illusione terrificante.

È terrificante e lo è ancora di più se pensi che nel tempo questa piattaforma, che ha raccolto miliardi di persone nel mondo, si trasformerà in un cimitero digitale. I più giovani già lo usano poco, tra quarant’anni o cinquant’anni ci saranno solo account commemorativi. È una dimensione nuova, non era mai capitato che una piattaforma digitale sopravvivesse ai propri utenti.

È incredibile come queste proiezioni della vita, questo vivere a San Junipero, per tirare in ballo Black Mirror, sia solo un riflesso di morte. Questa è la spaventosa contraddizione.

Parli di illusione e proiezione, ma le tecnologie digitali si basano proprio su questo: l’illusione della presenza. È interessante quello che dice Grafton Tanner nel saggio sulla Vaporwave che cito nel libro: tu hai l’impressione di star interagendo con delle persone quando sei su internet, ma in realtà ci sei tu, da solo, che batti i tasti su una tastiera, e non hai idea di chi ci sia dall’altra parte. Le piattaforme digitali creano l’illusione della vita anche là dove non c’è nessuna vita (magari ci sono algoritmi, o una persona che gestisce cinquanta account contemporaneamente). È praticamente la definizione di perturbante, però ci colleghiamo a Instagram senza rendercene conto.

Tu parli di mondo che diventa sempre più postumano. Essere senza casa non si riassume di certo in questo, è molto più complesso e strutturato, ma il libro non può non far pensare insistentemente a quanto l’umano si stia annientando: il cimitero di Facebook, l’annichilimento dell’eros, l’uomo che diventa macchina o la città che si sposta. Al di là dei fondamentali discorsi sul collasso climatico o lo scioglimento dei ghiacciai, per dire, l’annullamento dell’umano passa per microrealtà, come le città o le singole case.

Ti ringrazio di avermi fatto questa domanda, perché questo mi sembra un punto molto importante: cosa consideriamo oggi umano? Cos’è oggi per noi una persona? Da un lato i filosofi d’avanguardia ci spiegano come non sia negativo il fatto che l’umano si sposti dal centro dell’universo, e io concordo: è sicuramente bene capire che noi umani siamo una specie come le altre e spariremo con le altre, è un bel bagno di umiltà. Dall’altro però spingere troppo su questo tasto rischia di farci perdere quelle dimensioni che ci definiscono in quanto uomini, cioè rischiamo di buttare via il bambino con l’acqua sporca: sembra che per spostare l’uomo dal centro del cosmo sia necessario nullificarlo, cadendo poi in un riduzionismo che a me pare altrettanto pericoloso. Se ci pensi la fantascienza degli anni Cinquanta ci metteva in guardia sulla robotizzazione della vita e sulla perdita di empatia, ma nel 2020 siamo tutti robotizzati e siamo tutti poco empatici, abbiamo costruito sistemi economici dediti solo al profitto, non ci importa nulla degli altri o dei poveri. Quello che sicuramente penso è che l’idea stessa di umanità sta entrando in una grossa fase di ridefinizione, e che sia molto importante pensare a cosa vogliamo conservare di questa nostra specie. Dobbiamo trovare risposte che siano una via di mezzo tra il decelerare e l’accelerare, tra l’essere troppo conservatori e correre verso il futuro in maniera irriflessa.

Questa ambiguità dell’umano, specie questa accelerazione irrefrenabile, tu la vedi come un esempio dell’ipermodernità, una fase successiva al postmoderno.

Nel libro uso questa parola, ipermodernità, perché a grandi linee trovo che le categorie siano utili. Ad esempio se ti dico cosa è il modernismo in letteratura tu mi capisci subito, quindi è comodo parlare di modernismo perché ci capiamo subito. Detto questo sono modulazioni che si possono sempre discutere, dipende sempre da quanto uno allarga lo sguardo. Di sicuro io penso che non ci facciamo le stesse domande di trent’anni fa e non con la stessa intensità. Le cose sono andate avanti, la tecnologia avanza e la situazione climatica non è la stessa. A me piace il concetto di ipermodernità perché dà l’idea di questo carattere estremo dei nostri tempi, di una modernità portata alle proprie estreme conseguenze. Il postmoderno restituiva bene il carattere postumo, il fallimento della modernità o il suo ripiegamento su se stessa, e da qui la circolarità che ha caratterizzato la cultura postmoderna. Il prefisso “iper” invece sottolinea l’idea di estremo e di fuori dall’ordinario, quindi mi pare adatto.

E di passaggio tra postmodernità e ipermodernità, per giocare con le categorie, possiamo collocare quel particolare fenomeno che è la retromania.

La retromania, se la intendiamo nel modo in cui l’ha codificata Reynolds, ha molto a che vedere con ciò che Fisher chiama realismo capitalista, che è il suo modo di indicare il postmoderno. La retromania è stato il momento in cui il postmoderno è arrivato alle estreme conseguenze, in cui la possibilità di rimescolare tutto ciò che è già successo è diventata alla portata di tutti e tecniche di mashup e collage che nell’arte e nella letteratura andavano avanti da cinquant’anni sono diventate accessibili alle masse grazie a internet Oggi la retromania mi pare finalmente tramontata , o quanto meno che non ci sia quella ingombrante presenza del passato come era nei primi anni Zero.

La copertina dell’edizione di Retromania pubblicata da Faber and Faber.

Sicuramente meno. Però noto come certi prodotti, tendenzialmente nel circuito mainstream, si adagino comodamente su un certo immaginario, che è quello di chi è stato bambino tra gli anni Ottanta e Novanta. L’esempio più lampante credo sia Stranger Things. A prescindere dall’operazione nostalgia in cui può essere letta questa serie, i Duffer hanno utilizzato tutti gli elementi di un certo cinema del periodo in cui è ambientata, giocando con ruoli e situazioni.

Stranger Things, che è del 2016, è stato un po’ il momento in cui la nostalgia è entrata nel mainstream. Facendo delle categorizzazioni tagliate con l’accetta, negli anni tra il 2005 e il 2008 quelle cose capitavano senza che ci fossero gli strumenti per capirle (almeno in Italia, dove la hauntologia fisheriana non era arrivata). Nel 2010 Reynolds scrive Retromania e a quel punto capisci quello che stai vivendo da alcuni anni. All’uscita di Stranger Things siamo ormai in un campo in cui il pubblico di massa riconosce il gioco della nostalgia perché la retromania è entrata nel mainstream e non ha più la carica perturbante che aveva dieci anni prima. Stranger Things poi è un esempio particolarmente calzante per una ragione. Facciamo l’esempio di una band come gli Strokes, che suonavano una musica che si richiamava agli anni Ottanta, cioè la musica che Julian Casablancas (classe 1978) ascoltava da bambino, facendo questa operazione nostalgica. I fratelli Duffer di Stranger Things sono nati nel 1984 e la serie è ambientata nel 1983. A me sembra che la scelta non sia casuale: raccontano un mondo che non hanno mai visto e che per loro non ha nessuna connotazione emotiva. Si tratta di un’operazione puramente culturale, stanno solo giocando con quella cosa. Ha funzionato ma oggi certamente non funzionerebbe più, o almeno non così bene.

Nel libro nomini una persona per me molto cara, Frank Kermode e il suo The sense of an ending: una lettura davvero fondamentale. Tu ne parli a proposito dello storytelling.

È un libro interessante perché parla di fiction da una prospettiva centrale di questi anni come l’Apocalisse, un tema che volenti o nolenti affrontiamo quasi quotidianamente. Dare senso alla vita tramite le storie, di cui lui ci parla, è una questione sempre più importante man mano che le grandi storie collettive come la religione o la patria vengono meno. Possiamo avere Trump che continua a dire che ha vinto le elezioni, e per quanto possiamo considerarlo un pazzo che andrebbe rinchiuso, di fatto le sue parole hanno un’incidenza: anche lui sta dando un senso alla “fine” (vera o percepita) attraverso una storia.

Kermode, che è morto nel 2010, probabilmente sarebbe impazzito, al giorno d’oggi, vedendo quante apocalissi viviamo. È interessante rileggerlo, tra i tanti motivi, perché sottolinea come ogni epoca abbia raccontato la sua fine. Mi pare che anche la nostra lo faccia, ma lo fa guardando in direzioni molteplici: va verso la fine e la racconta mentre questo accade.

Kermode usa un’espressione molto bella quando dice che, poiché la fine dei tempi non arriva mai, nel racconto la fine si trasforma da imminente a immanente. Quindi all’idea dell’Apocalisse si sostituisce quella della crisi, di una fine che sta sempre per capitare, in ogni momento. Direi che questa è una caratteristica della modernità in generale e specialmente dei nostri tempi, in cui le crisi sono continue. Le crisi aumentano di numero e velocità, e aumentano le narrazioni delle crisi.

È possibile avere uno sguardo non pessimista?

Domanda enorme! Allora, io penso di sì e di no allo stesso tempo. Mi spiego. Recentemente in un articolo sull’Indiscreto rilevavo come la “pillola nera” del pessimismo comporti l’idea, per me errata, che vedere il mondo attraverso le lenti pessimiste significhi vederlo “così com’è”. Per me questo è falso: il mondo al grado zero, quello di Thomas Ligotti o Eugene Thacker, è solo una delle realtà possibili, non la realtà ultima. Tuttavia è una realtà importante, e l’“illuminazione” pessimista per me rimane fondamentale: dobbiamo vedere il mondo anche nei suoi aspetti più tristi o nel suo orrore per saperlo abitare. Allo stesso tempo non dobbiamo cadere nel tranello (frutto, credo, della difficoltà di convivere con il dolore e la paura) di pensare che esista solo questo. Non è semplice, ma dobbiamo includere nel nostro sguardo più prospettive possibili. A me sembra una sfida molto importante.

Diciamo che il pessimismo è importante come categoria di un pensiero complesso che faccia comprendere le contraddizioni della realtà piuttosto che abbandonarsi a un “tutto fa schifo”, col rischio di essere anche banali. 

Sì, sono d’accordo. Dal punto di vista filosofico il pessimismo è stato senza dubbio, negli ultimi anni, la corrente più proficua, quella che ci ha permesso di pensare il nostro mondo “impensabile”. È uno strumento molto importante. Allo stesso tempo, qualunque prospettiva rischia di essere limitante se ci fossilizziamo su quella. Tutto è prismatico e cangiante.

I contenuti del tuo libro in effetti sono chiaramente duri, ma non ho avvertito un disfattismo, semmai un bisogno di scontrarsi con le stranezze e le difficoltà contemporanei senza però crollare nel disfattismo.

Disfattismo proprio no. In generale penso che ci siano argomenti con cui bisogna fare i conti. Se si vuole parlare del presente devi essere pronto a parlare delle molte sfide che il presente ci pone, devi farti domande difficili e dolorose, talvolta. Non puoi veramente nasconderti. Allo stesso tempo è fondamentale mantenere apertura mentale. Il mio libro si chiude con un appello all’apertura e la mia posizione è quella di un’apertura a tutte le possibilità, anche perché questo nostro mondo è complesso e dobbiamo cercare il più possibile di non ridurlo a una sola dimensione.

Massimo Castiglioni
È nato a Roma nel 1988. Collabora con diverse riviste occupandosi prevalentemente di letteratura e cinema.
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